STANZE. STAVASI i Nazaren di ceppi avvolto Fra l'empio Scriba e il Farisco profano, E amor spirando dal sommesso volto Con sermon si escusava umile e piano Quando aperta la via tra il popol folto Porzia, la moglie del pretor romano, A Ponzio ch'era al gran giudizio intento Disse piena d'affanno e di spavento: Deh! cotest'uomo di niun mal nocente Per te Ponzio non fia che a morir aggia, E se placar l'inferocita gente Cadendo egli pur dea, per altri caggia. Odi sogno ch'io m'ebbi, e se tua mente Oggi non è men dell'usato saggia Vedrai che il ciel, lo stesso ciel s'adopra Per sottrarci dal mal che ne sta sopra. Io dormia presso l'alba, e un Giovinetto Fra il dubbio lume mi si fece innante In si dolce atto, in si amoroso aspetto Ch'unque non vidi il più gentil sembiante; Ma lacerato indegnamente il petto, E piagate le membra tutte quante: Le voci ond' ei sfogava il suo dolore Tutt' or mi suonan con pietà nel core. Barbare genti mezzo il corpo ignude Lo premean forte al manco lato e al dritto, E con parole obbrobriose e crude L'accusavan di colpe e di delitto; Ei com'uom che innocenza in corsi chiude E di sè stesso è certo, il guardo afflitto Levava al ciel securamente e lui Chiamava in testimon de' gesti sui. In Ma poichè il viso per gran doglia bianco me, mostrando ravvisarmi, affisse, Tratto un lungo sospir dall' imo fianco, In tuono lamentevole mi disse: O tu che in questo abbandonato e stanco Uom di dolori le pupille hai fisse, Rimira, o Porzia, qual di me fa scempio L'incostanza e illivor d'un popol empio. Questi che queste mie membra infelici Straziano e il suolo del mio sangue han tinMi amaro un tempo e poi fatti nemici [to M'han di rie trame iniquamente cinto; Cosi d'innumerabil benefici Mi rendon merto col volermi estinto Deh! tu a lui chiedi almen qual giusto O qual mia colpa il cor tanto li punge, E disparve, ma nudo e semivivo Tanto gli fe' che l'abbattuta salma Furo allor da densissime tenebre Di quel sangue ogni stilla a chi lo sparse! Disse, e il suolo tremò : sanguigni e rossi Lampi rupper del cielo il fosco ammanto: Alla terribil vista io mi riscossi, E tutta mi trovai molle di pianto; A. MAFFEI. LA PRIMA VIOLA. ODOROSA foriera d'aprile, Il tuo fior sulla zolla appassita Tra le nevi che l'aura discioglie E mi duol che parola non sia Quest'arcano d' effluvii beati. Oh sonasse nell'anima mia Come nota di spirto vocal! Io saprei perchè il sole ti brama Vinto appena l'inospite verno, Perchè tanto la vergine t'ama Quando piagne lontano il fedel. Io saprei perchè volgi i sospiri O viola, compagna de' mesti, LA FIDUCIA IN DIO. Chi t' ha rapito, creatura bella, Tu levasti pur ora al paradiso, Forse non paga della terra il viso. Pur or da quelle tue labbra celesti La preghiera degli angeli movesti. Ben l'uficio de' sensi e l'intelletto Sospeso è in te, ma ti riman l'affetto; Ne poi che l'uomo sull' error si dolse, Mai con tanta fiducia a Dio si volse. N' additi, o immota, la speranza eterna Nell' eterno dolor che ne governa? O non ancor dell' alito immortale L'ultima ti commosse aura vitale ? Il soffio attendi creator del sole Che ti sciolga le membra e le parole? Oh, se il cor mi fa benda alla pupilla, E tu non sei che inanimata argilla, Se dal ciel non cadesti e non ti fea Una scintilla del voler che crea, La fantasia che ti spirò la vita Vide, in profonda visïon rapita, L'angelo dell'amore e del perdono Cosi comporsi dell'eterno al trono. IL PELLEGRINO, IL CAVALIERE E IL TROVATORE. IL PELLEGRINO. Era mite come il cielo Cui sorride il sol di maggio! A. MEZZANOTTE. DANTE AL MONISTERO DI SANTA CROCE DEL CORVO (1). LASCIAVA Italia il Ghibellin feroce Giunto colà 've romorosa e presta Vede il porto di Lérice da un lato (1) Di questo aneddoto della vita dell'Alighieri, mentr'egli andava esule alla volta di Francia, parla a lungo il chiarissimo autore del discorso intitolato: Del veltro allegorico di Dante. Autentico è l' aneddoto; e può nell' opera suddetta vedersi la lettera con cui frate Ilario accompagnò la cantica dell' Inferno dedicata dal poeta ad Uguccione della Faggiuola. Era questo uno dei tre soli magnanimi uomini degni a quel tempo della stima di Dante in Italia: gli altri due furono Moroello Malaspina e Federico re di Sicilia: al primo dedicò poi la cantica del Purgatorio e al secondo quella del Paradiso. D' eremiti uno stuol povero e pio Reggea di questi il freno Ilario antico Ei giunge a tutti sconosciuto; e vede Era del vate squallido il sembiante, Mosse a incontrarlo il solitario annoso, La crudel Flora oggi in lugubre ammanto Mira la mia consorte e i dolci nati Orfani miserelli a lei daccanto, Ne da' suoi cessa ancor modi spietati. Chi fia che, melontan, rasciughi il pianto De la mia donna e de' miei figli amati ? Ahi che speranza a lor non resta alcuna Fatti ludibrio de la rea fortuna ! Me pur suo figlio Flora or vede in guai Qual altro Omero a mendicar costretto. Siccome sa d'amaro sal provai Lo pan che scarso io chiesi a l' altrui tetto. Ma pria ch'oggi da me l'ultimo vale La porse a Ilario, e ripiglio : Del sacro A iniqui molti fien queste mie rime : Abbia Ausonia, comun madre e nudrice, Memoria in lor de l'esule infelice. Di me scrivi a Uguccion, digli che tutta Italia ben cercai per tutti i lidi, E in tre soli magnanimi ridutta Dopo si lungo investigar la vidi, Che a virtù vera in tanta orribil lutta E a candida amistà si serban fidi. E di' che a lui questa offerir desio Cantica prima del poema mio. Qui tacque, e a Ilario con tranquilla facSorrise il grande di partirsi in atto: [cia Quei bramose ver lui tendea le braccia Dolcemente rapito e stupefatto. Ma il divino Alighieri (a cui si affaccia Sugli occhi il pianto) cammin prese a un tratto Grave movendo a tardi passi il piede, E conducea le muse a estranea sede. De l'arti il genio, vivida facella Ne la destra agitando, il precedea, E di luce vestirsi eterea e bella Lieto ogni loco al suo passar parea: E al gran padre de l'Itala favella Calliope l'immortal serto intessea, Che dopo molti secoli verdeggia Raggiante si che il muto oblio dardeggia. |