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Amator fido, al tuo desir dovea.
Amaramente suo peccato pianse
Però che volto dall' Eterno-amore
Per alcun tempo aveva i suoi pensieri,
Gli affetti suoi ponendo in basso loco,
Qual è cosa mortal, sua tenerezza :

Piova, fra sè talor dicea, deh piova
Giovane pio, sul tuo capo, dal Cielo
Ogni contento. Il bramo pur, ma lungi
Vivi lungi da me, la comun pace
Il chiede, e Dio che i temerari voti
De le fanciulle a lui devote ascolta,
E della sua tremenda ira le grava.
Questo amor tuo, funesto amor che nullo
Sperar conforto in suo tenor può mai,
Lo svelli, o caro, dal tuo sen. Non io
Delle prische vestali il fato, o il cupo
Rancor di un padre, ma il rimorso, questo
Verme d' un' alma rea, temo e l'averno.
Ben io rimembro la severa voce
Di Gerardo (1) pontefice tuonante
Nel di che ancella al mio Signor mi resi :
« Lucia, mi disse, gli occhi tuoi dagli occhi
Dividerai degli uomini per sempre. »

Più volte al tempio ritornò, nè scorse Ippolito più mai la vaga luce

Di che tanta dolcezza in sè nutriva :
Del santuario mai sempre celato
Le rigide cortine aveano il viso
De la fanciulla e la serena fronte

Che fra gli angioli in Ciel fora ancor bella.
Quale consiglio allor, qual mai conforto,
Ippolito infelice, il disperato
Amor ti porse, quando il cor ti disse:
« Tu più non la vedrai ? » Per te la speme
Tarpò i cerulei suoi vanni, e il futuro
Di tenebre si cinse e di dolore,

E fur gli affetti tuoi non altrimenti
Che smarriti in deserto augelli, dove
Non trovan stelo in che posar nè fronda.

Vespro e silenzio! Chi sia mai costui
Che sospettoso e tutto in sè raccolto
Del monastero i portici discorre?
Lunga lunga dagli omeri gli pende
Tonaca ponderosa, e sovra il petto
Lo spenzolante scapolare e il denso
Pelo del mento monaco il palesa,
Muto alla cella di Lucia, confuso
Si affaceia, e sta senza far moto, senza
Batter palpebra; ignoto ella per l'ossa
Si sente un gelo, nè sa donde; tronca

(1) Gerardo de' Scannabecchi, vescovo di Bo. Jogna, e Podestà nel 1192.

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Quei tremando il cappuccio dalla smorta Fronte diffusa la barba si spande

:

Sul suolo. «Ohimè! che veggo? è desso, è desso,...

Ippolito... gran Dio, salvami!» E cade
Tramortita sul letto. Ei nell' amata
Donna si affigge; ode uno squillo : il suono
Questo è che serra le stridenti porte:
Un istante gli resta, un bacio invola
A quella fronte gelida, una croce
A le sue mani impallidite, e come
Luce nell' aër, per le mute logge
Inosservato e celere dispare.

Ma non più la claustral greve zimarra
Sui ginocchi gli batte, e con le folte
Pieghe giù scende a incespicargli il passo:
Di Lucia con la croce al collo appesa,
Tutto d'armi sonante, il tergo volge
Alla natia contrada, e a periglioso
Lungo viaggio si commette,
fiere
Ardue pugne anelando, e certa morte
Nella terra fatal di Saladino.
Là di Gerusalemme su le mura
Non più a que' tempi sventolava il divo
Stendardo di Gesù, l' Ostia-divina
Dal tabernacol suo fuor tratta, al Cielo
Avea drizzato l'immortal suo volo;
Volti i templi in meschite, ivi al peccato
Sagrificava l'empietà, deriso

E macchiato di sangue il gran sepolcro, Sul Calvario splendean de' Saraceni L'alabarde e gli scudi. Alto inspirata Dal Quirinal di Celestin (1) la vecchia Voce tuonava, ai generosi petti Ardente sprone, onde correan alteri Alla guerra di Cristo in Palestina:

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Lucia, Lucia, me tutto oggi consacro Al Nume degli eserciti, al tuo Nume; Ci rivedremo in paradiso. » Sclama Ippolito così, ferocemente

Si versa nella mischia, si precipita

(1) Celestino III pontefice romano esortò fervorosamente i principi della Cristianità, e princpalmente Riccardo d'Inghilterra re di Gerusalemme, e l'imperatore Enrico contra il Saladino per la conquista di terra-santa

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Nega la fede tua, gridan que' crudi, Se campar vuoi da morte. » – « Oimè! che dite?

Abbandonar io di Lucia la fede? [calchi Non mai. »- «Non mai? ribaldo! oh gli si Sulla testa il turbante, o di rovente Ferro si cerchin lui le inique tempie. Chi lo squoja, chi punge, chi gli attasta Di un rovescio la faccia, e chi gli palpa Rabidamente le fumanti piaghe :

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« E questa, grida l' un, io te l'apersi,
Questa il demonio che a morir ti adduce,
Con bollente infernale onda ti lavi. »
Lacero, sanguinoso infra i tormenti,
Fra l' ugne de' carnefici e le gravi
Ritorte, ond' era stretto, ei porge queste
Parole: O santa vergine, o Lucia,
Se vivi ancor sovvieni con le tue
Preghiere lui che ti amò tanto, e dove
Abbi tua stanza in Ciel rendimi il mio
Signor pietoso. - Disse, ed alto un sonno
Gli pose agli occhi la sua ferrea benda,
Perchè a terra piombo: nè pria le ciglia
Ei riaperse a salutare il giorno

Che non avesse il giro suo compiuto
La sovrastante notte; e quando vide
Sorger sull'orizzonte i primi albori,
Di sovra il suol, di maraviglia pieno,
Levando il capo, si trovò in quel tempio
Ove da prima la dolce favella

Ascoltò di Lucia pregare al Cielo.

Splendente ella di gloria e d'immortali
Grazie, precinta di tal fior che mai
Sul crine delle vergini vien meno:

« Qui ti aspettai, mio caro... » – « Oh vivi

ancora!

Rispos' egli, Lucia, vivi tu ancora? » -
« Vivo, Ippolito, vivo della vera
Vita; ma vanne, i ferri tuoi deponi
Su la mia tomba; Dio per me ti volle
Salvo, tu prega Dio che t'innalzi
pur
Dove son, dove te, fedel mio, chiamo.
Corse, volò sulla virginea fossa
Dell' estinta Lucia, boccon prosteso
Su quelle care sacrosante glebe
Che il bel velo chiudean, ond' ebbe tanta
Il giovinetto e così dolce guerra,
Tutto il giorno rimase, ognor piangendo
Soavemente, e baciando quel suolo
Che sentiva di morte. E quando il vespro
A sparger cominciò la pia rugiada
Sull'albergo de' spenti, e in larghe rote
Svolazzavan le nottole fra i tassi
Del cimitero e fra le croci, alzando
Dalla terra, di nostra fragil vita
Custode ultima, Ippolito la bocca,
Scorse un Genio celeste, incoronato
Di un raggio squallidissimo di luna,
Mesto ne' sguardi, e nel bel viso quale
Face che langue; di funerea stola
Si ravvolgeva, e sfolgorante spada
Nella destra brandiva: « Angiol di morte,
Ti ravviso; mi guida ove è Lucia »
Disse, el'angiolo a lui : « Dio ti esaudisce,
L'anima fitta fra tue membra io sciolgo
Ecco, e lieve nel Ciel l'invio, vicino
A Lucia poserai per tutti i secoli. »
A questi accenti spiegò l'ali all' etra
Con un sorriso l'amoroso spirto,
E su la fossa desïata il vuoto
Fral di ferri sonante ripiombo.

G. TORTI.

CARME

SULLA PASSIOne di gesù Cristo.

CHE cerchi in faccia a questi altari, o figlio?

In me, pel tuo peccato ostia innocente,

Volgi amoroso in me l'animo e il ciglio. Io son colui che da la Eterna Mente Eterno sono; e mi condusse in terra Misericordia de la umana gente:

Il fine io sono de l'antica guerra; Pianta' in abisso di vittoria il segno, 42

Eil re superbo incatenai sotterra.

Che non feci per torti al giogo indegno? lo di mortale verginella in seno, Quant'è duopo abitar non ebbi a sdegno:

E come il termin natural fu pieno, Cercava quella dolce madre un tetto, Che non la colga la notte al sereno.

Una stalla a Betlem ne diè ricetto, Qui posai ne la greppia in fra i giumenti; E m'erano le stoppie ispido letto.

Poi tribolando con più duri stenti, Fuggii per balze il reo temer d'Erode Fra i sozzi numi de l'egizie genti.

Di là tornato a le natali prode, Mi travagliai molt'anni in umiltate, Mentre levar di me grido non s'ode. Ma giunto è il di, ferrigne menti ingrate Di Giuda, il di che non udiate udendo, E in pien lume vedendo non veggiate (1).

Ecco il soave magistero imprendo D'amor fra voi, troppo a voi nuovo, e il

vero

Col presagito novellar vi apprendo (2). Ahi razza di cor pingue (3), e mal pensiero!

Che maraviglia se il mio dir vi pare
Involuto d' ambagi e di mistero?

Già non vi fur l'opere mie più chiare : Veggenti i ciechi, e a nuova vita i morti, E sotto ai passi miei stabile il mare. Miseri! e d'uopo è alfin, quando mie sorti [na,

Fien con quelle de' rei (4), ch'io da voi pePerdono un ladro al paragon riporti!

L'animo intendi, o figlio : amor mimena A ricordarti quai del tuo riscatto Crudi miei strazj la misura han piena.

S'avvicinava omai l'ora che fatto Fosse il figliuol de l'uom preda del forte, E consumasser gli empj il gran misfatto.

Già numerato ha il prezzo di mia morte L'infido amico, e seco si consiglia Di giugnermi per vie secrete e torte.

Io con lui stesso, e con l'altra famiglia De' miei mi assido a l'ultimo convito; Quivi turbato declinai le ciglia,

E, Un di voi (dissi), un di voi mi ha tradito (5)!

E quegli intanto si prendea del mio Pane, e intingea nel mio piattello il dito! (6) [ch'io,

E tu, Pietro, tu pur!... Ma indarno; A saziar la mia pietade immensa, Avea bramato con lungo desio

Di raccorre i miei cari a quella mensa (7);

Nè vo' l'opra tardar, che la mia carne In cibo a l'uomo e il sangue mio dispensa.

Ed ei pur osa il traditor gustarne. Lasso! ingoiato egli ha la sua condanna (8) Che nel sangue gli scorra, e in lui s'in

carne.

Ma già mortal tristezza il cuor mi affanna (9);

Già vengon faci ed arme; e la masnada Veduto ha il crudel bacio e non s'inganna.

Non m'accompagna per la mesta strada Pur un de' miei! Quando è il pastor percosso, [da (10). Convien che il gregge sperso se ne vaIo stetti innanzi al giudice, che mosso Parve d'orror, di zelo a' miei protesti, Si che le stole si stracciò di dosso.

Oh sacerdote, come ben fingesti! Tutti abbiam (disse) la bestemmia udita; Che più ne è d'uopo interrogar chi attesti? (11)

O voi, che lieve noncuranza irrita, E a cui lingue piacenti e capi inchini Lusingan la superbia de la vita (12);

Non son io quei che sovra ai Serafini Seggo a destra del Padre? or via, mirate Quai mi rende la turba onor divini.

Di risa alfin, di sputi e di guanciate Stanchi, e del mal concilio alacri al cenno Menanmi avvinto ad altra potestate. Qui da crudel vid'io timido senno Deliberarsi, che al favor d'Augusto Il vero eil dritto prevaler non denno (13).

Su, chi d'odio più bolle, e più robusto Nerbo ha di braccia, il petto irto e le terga Snudi, e gareggi a flagellare il giusto.

A strazio poscia del dolente s'erga Ridevol seggio; nè a lo scherno manchi La porpora, il real serto e la verga.

Or ve' come gli afflitti omeri stanchi Al grave tronco sottopor mi è forza, E inverso il monte strascinare i fianchi.

Ben d'uopo egli è che adamantina scorTi fasci il cor, se duri a cotal vista, [za Ne il tuo Signore a lagrimar ti sforza.

Omai la vetta il lento passo acquista. Lasso! or quale appressate a le labbra arse Bevanda di si tetro amaro mista (14)?

Ahi già le membra illividite e sparse Di sangue, a l'inclemente aere ignude, Tutte senton le piaghe inacerbarse!

Ahi già posate in sul letto aspro e rude

Le ginocchia, mi adagio, e le man stendo Ai chiovi e ai colpi de le mazze crude! Ferve il lavoro: al martellare orrendo L'opra succede di levarmi in alto. Mirami, o figlio, come in croce io pendo!

Qui fanno al paziente animo assalto Motteggi rei ben tu Dio figliuolo, Di costassù ti puoi spiccar d'un salto (15). Deh perchè intanto io chinai gli occhi

al suolo?

Come ti stavi, o madre, a riguardarmi, Muta, impietrata de l'immenso duolo! Di sete avvampo. Ahi de gl'infausti carmi [to? (16) Qual non ha sul mio capo adempimenAhi, Padre! ahi perchè, o Padre, abbandonarmi (17)!

Tutto alfine è compiuto. Or vedi spento Nei natanti occhi il lume al tuo Signore; Vedi sul petto ricadergli il mento (18).

Cosi dopo martiri tanti ei muore, Muor per vostra salute; e in morir sente Che i più sarete ingrati a tanto amore!

Tu non esserlo, o figlio. In cuor sovente Volgi la storia de le nostre pene; Sempre la croce ti si pinga in mente.

D'amara pieta, di conforto e spene Questa immagine è fonte; e in lei mirando, D'oltraggiarini il pensier uom non sostiene.

Questa ognor ti farà vivere amando Me in pria, che t' amai tanto, e per me poi Gli uomini tutti, come è il mio comando:

Gli uomini tutti, anco i nemici tuoi, Anco i miseri e gl' imi, anco i ribaldi, E chi bestemmia i nostri altari e noi.

Per lei verrà che immoti stieno e saldi Contro al piacer fallace i tuoi desiri, Ne mai brutto appetito il cuor ti scaldi. Non è chi fiso in questa immago aspiri Altri a vincer di fasto e di potere, O i vôti onor del mondo invido ammiri. Qual tristo evento, o qual d'uman volere Feritate, o ingiustizia, a chi lei guarda, Non è a portar più facile e leggiere?

Il tempo vola, nè un momento tarda L'ora che estrema ai mali il giusto spera, E il reo da lungi con orror sogguarda. Cola venuto, sentirai com'era Tutta un sogno la vita, e sol la croce Costante avrai consolatrice vera.

Volto a lei fia l'avanzo di tua voce; Lo sguardo a lei, se la parola tace, L'ultimo sguardo ne la lotta atroce : Così verrai beato alla mia pace.

NOTE.

(1) Quia videntes non vident, et audientes non audiunt. Matth. 13, 13.

(2) Et sine parabolis non loquebatur eis, Matth. 13, 34. Ut impleretur quod dictum erat per Prophetam dicentem: Aperiam os meum in parabolis. Matth. 13, 35.

(3) Incrassatum est cor populi hujus. Matth. 13, 15.

(4) Et cum iniquis reputatus est. Isai. 53, 12. (5) Cum hæc dixisset Jesus, turbatus est spiritu, et protestatus est et dixit: Amen amen dico vobis, quia unus ex vobis me tradet. Jo. 18, 21.

(6) Ille est, cui ego intinctum panem porrexero; et cum intinxisset panem, dedit Juda Simonis Iscariota, Jo. 23, 26. Qui intingit mecum manum in paropside, hic me tradet. Matth. 26, 23.

(7) Desiderio desideravi hoc pascha manducare vobiscum antequam patiar. Luc. 22, 15.

(8) Qui enim manducat et bibit indigne, judicium sibi manducat et bibit. I. ad Corinth. 11, 29.

(9) Tristis est anima mea usque ad mortem. Matth. 26, 38.

(10) Tunc dicit illis Jesus: Omnes vos scandalum patiemini in me in ista nocte: scriptum est enim Percutiam pastorem, et dispergentur oves gregis, Matth. 26, 31.

(11) Tunc Princeps sacerdotum scidit vestimenta sua dicens: Blasphemavit. Quid egemus testibus? Ecce nunc audistis blasphemiam. Matt. 26, 65.

(12) Quoniam omne quod est in mundo concu. piscentia carnis est, et concupiscentia oculorum, et superbia vite, Jo. Ep. 1, 2, 16.

(13) Judæi autem clamabant: Si hunc dimittis, non es amicus Cæsaris. Jo. 19, 12.

(14) Et dederunt ei vinum bibere cum felle mixtum; et cum gustasset, noluit bibere. Matth. 27, 34.

(15) Et dicentes: Vah.... salva te metipsum ; si filius Dei es, descende de cruce. Matth. 27, 40.

(16) Postea sciens Jesus quia omnia consummata sunt, ut consummaretur scriptura, dixit: Sitio. Jo. 19, 28.

(17) Et circa horam nonam clamavit Jesus voce magna dicens: Eli, Eli, lamma sabacthani? Hoc est: Deus, Deus meus, ut quid dereliquisti me? Matth. 27, 46.

(18) Dixit: Consummatum est; et inclinato capite, tradidit spiritum. Jo. 19, 30.

G. ZANOJA.

SERMONE

SULLE PIE DISPOSIZIONI TESTAMENTARIE.

SCRIVI, O Notaio: Poi ch'è fisso in cielo Ch'ogn'uom che nasce abbia ad andar

sotterra,

Nè l'ora è nota del fatal tragitto,
Me, tuttor sano, testator ricevi.
Allor che l'alma dal solubil corpo
Sarà disgiunta, abbiala Dio: il muto
Indolente cadavere, a cui nega
Il novo rito un penitente sacco (1),
Fra cento lumi e i cantici lugubri
E i negri ammanti, e le mercate insegne,
Se emergeranno dalla imposta calce (2),
Sia portato alla tomba. Ad ogni altare
Si moltiplichin l'ostie; il mesto canto
Ogn'anno si ripeta : al mio riposo
Un ministro si sacri e il marmo inscritto
Sorga all'ara vicino e noti il nome
Di chi 'l sottrasse all'utile telonio
O alla marra pesante, e fenne un prete.
Cosi vassi a salute; e così voglio.
Me di lacci nimico il nuzial patto
Non lega a sempre egual moglie importuna
Né a domestica prole. A Lidia scrivi
Quarantamila d'amicizia in pegno,
E diecimila alla sorella Cloe;
Del resto erede il Nosocomio sia
Onde perdono si conceda all'alma.
Cosi testava Elbion, cui l' ampie usure
Ei molti di pupilli assi ingoiati
E la pubblica fame avean condotto
Dal nulla avito al milionario onore.
Macronio in vece nella vota casa
Più solitario che nell' Alto Egitto
Visse alle donne ad ai sartori ignoto.
I polverosi inonorati Lari

Da tempo immemorabile rovesci
Giacean sul freddo focolar. Conviva
Quotidiano agli amici misurava
Tanto di cibo al consapevol ventre,
Che al di venturo illamentoso stesse.
Se il crudo verno nelle lunghe sere,
Gli feriva le spalle e l' ugne immonde,

Nella paterna variopinta avvolto
Rattoppata zimarra del vicino
Appoggiavasi al muro, in cui sorgeva
L'incessante cammin d'unta cucina.
Non meno agli altri che a sè stesso parco,
A nullo dava e non aveva donde;
Chè del maturo argento il pronto frutto
Nelle infallibili arche dei magnati
Mentre cresceva a lui securo e intatto,
Dal domestico scrigno sempre esausto
Al ladro in faccia e all' esattor ridea.
Cosi visse Macronio, e agli ottant'anni
Lasciò le semisecolari vesti
Da molta goccia asperse e i rosi lini
Al vecchio servo; e al Nosocomio erede
Due volte diece cento mila scrisse.

Dimmi dei due chi ti par più saggio?
Ne l'un nè l'altro, se diritto estimi.
Oh! se di Stige la tarlata barca
Reggesse al pondo del raccolto indarno
Auro inseguace, l'osservata immago (3)
Del postumo dator forse più rara
Penderebbe dai portici e dagli atr
Alla languente umanità concessi.
Chi non vorrebbe con la fida scorta
Del non ignoto al Tartaro metallo
Tentar di Pluto la placabil moglie,
Della selva Cumana ai doni avvezza;
O dividendo del frodato erario
Un'altra volta i conservati lucri
Render più miti Radamanto e Minos?
Ma laggiù la giustizia non è merce,
Ne può cambiarsi col bandito nummo :
E o sia di Creta il regnatore, oppure
Qual altro più ti fingi, v'è un severo
Inesorabil giudice che libra
Su nuova lance i calcoli autorati
Dal venduto pretor, e che rimesce
I sepolti chirografi, ed il pianto
Interroga del debole calcato
E del concusso popolo i susurri.

Non se l'onda lustral tutta si versi Sulla tua tomba e all'indigente leghi Quanto il doppio emisfero e miete e scava, Espiato sarai: è inutil l'ostia

Lorda dell' altrui sangue, e la rapina

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