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XLI

Poi mandaro due donne gentili' a me pregando che io mandassi loro di queste mie parole rimate; onde io, pensando la loro nobilità, propuosi di mandare loro e di fare una cosa nuova, la qual io mandassi a loro con esse3, acciò che più onorevolmente adempiessi li loro prieghi. E dissi allora un sonetto, lo quale narra del mio stato, e mandálo a loro col precedente sonetto accompagnato, e con un altro che comincia: Venite a 'ntender. Lo sonetto, lo quale io feci allora, comincia: Oltre la spera; lo quale ha in sé cinque parti. Ne la prima dico là ove va lo mio pensero, nominandolo per lo nome d'alcuno suo effetto. Ne la seconda dico per che va là suso, ciò è chi fa cosí andare. Ne la terza dico quello che vide, cioè una donna onorata là suso: e chiamolo" allora spirito peregrino, acciò che spiritualmente va là suso e sí come peregrino, lo quale è fuori de la sua patria, vi stae " Ne la quarta dico come elli la vede tale", cioè in tal

XLI. 1. due donne gentili: anche le donne avevano amore per l'arte della poesia, e par che talora la esercitassero; cfr. AZZOLINA, La compiuta donzella, Palermo, 1902.

2. di queste, alcune delle poesie già composte che ora ho inserite in questo libello. Ma Dante, considerando (pensando) la nobiltà delle gentildonne, non solo si propose di mandare loro (sott. di queste mie parole rimate) alcune di quelle già composte, ma di farne una nuova. A spiegar cosi m'induce tutto il contesto; altri invece spiega di queste cosi: di poesie simili a quelle che ora ho inserite in questo libello.

3. con esse, si riferisce all'oggetto sottinteso di mandare loro.

4. più onorevolmente, in modo più degno della loro nobiltà.

5. col preced. sonetto, cioè con quello Deh peregrini del § XL.

6. con un altro, cioè quello del § XXXII.

7. per lo nome ecc., per mezzo del sospiro che è effetto di esso pensiero. 8. per che, per virtù di che, per qual forza.

9. là suso, cioè nell'empireo.

10. chi, cioè Amore, il quale gli dà quella forza.

11. chiamolo, chiamo lui, cioè l'effetto del pensiero, ossia il sospiro. 12. spirito peregrino: spirito, perchè (acciò che) spiritualmente va là suso; peregrino, perchè, stando in cielo, è fuori della sua patria, ossia della terra (cfr. XL, 17). vi stae: cosi leggo col BARBI (cfr. Bull. IV, 34 e VIII, 30.

13. tale, cioè in tal qualità, come spiega Dante stesso, ossia così circonfusa di luce e di gloria, cosi sublimemente divina,

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qualitate che io nol posso intendere, cioè a dire che 'l mio pensiero sale ne la qualità di costei in grado che 'l mio intelletto nol puote comprendere"; con ciò sia cosa che 'l nostro intelletto s'abbia a quelle benedette anime, sí come l'occhio debole al sole1: e ciò dice lo filosofo nel secondo de la Metafisica". Ne la quinta dico che, avvegna che io non possa intendere là ove lo pensero mi trae, cioè a la sua mirabile qualitade, almeno intendo questo, ciò è che tutto è lo cotal pensare de la mia donna, però ch'io sento lo suo nome spesso nel mio pensiero: e nel fine di questa quinta parte dico donne mie care, a dare ad intendere che sono donne coloro a cu' io parlo. La seconda parte comincia quivi: Intelligenza nova [v. 3]; la terza quivi: Quando elli è giunto [v. 5]; la quarta quivi: Vedela tal [v. 9]; la quinta quivi: So io che parla [v. 12]. Potrebbesi più sottilmente ancora dividere, e più sottilmente fare intendere, ma puo

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14. 'l mio pensiero sale: cfr. Conv. III, 4: « dico che nostro intelletto, per difetto della virtù, della quale trae quello ch'el vede (che è virtù organica, cioè la fantasia), non puote a certe cose salire, perocchè la fantasia nol puote aiutare, e che non ha lo di che, siccome sono le sostanze partite da materia; deile quali (se alcuna considerazione di quelle avere potemo) intendere non le potemo nè comprendere perfettamente. E di ciò non è l'uomo da biasimare, che non esso fu di questo difetto fattore: anzi fece ciò la natura universale, cioè Iddio, che volle in questa vita privare noi di questa luce; che, perchè egli lo facesse, presuntuoso sarebbe a ragionare. Sicchè se la mia considerazione mi trasportava in parte dove la fantasia venia meno allo 'ntelletto, se io non poteva intendere, non sono da biasimare ». Sul presente luogo della V. N. e su quello riferito del Conv. cfr. il SALVADORI, 112 sgg., ma anche il BARBI nel Bull. IX, 30.

15. s'abbia a, stia in rapporto con.

16. si come ecc., cfr. Par. XXX, 25-7:

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17. lo filosofo, Aristotele, nella Metafisica, II, 1: cfr. xxv, 9, e SALVADORI, 112-114.

18. avvegna chè ecc., in breve, sebbene io non possa con l'intelletto comprendere la mirabile qualità della cosa veduta col pensiero, comprendo bene come essa si chiami, cioè Beatrice, poichè il pensiero nella sua contemplazione ripete spesso questo nome.

19. cioè ecc., cioè a la sua (di costei, di Beatrice) mirabile qualità a cui il pensiero mi trae.

20. tutto è lo cotal pensare ecc. Ordina: tutto lo cotal pensare (tutto siffatto pensiero) è della mia donna, ossia ha per oggetto la mia donna. Dante ordinò in quel modo le parole per mettere in maggior rilievo tutto.

21. più sottilmente, più minutamente. Poco dopo vale: più profondamente,

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tesi passare con questa divisa22, e però non m'intrametto di più dividerlo. E questo è 'l sonetto" che comincia qui.

[SONETTO XXV]

Oltre la spera, che piú larga gira,
passa 'l sospiro26 ch'esce del me' core:
intelligenza nova, che l'Amore

4 piangendo mette in lui27, pur28 su lo tira.
Quand'elli è giunto là dove disira,

vede una donna, che riceve onore29,
e luce sí, che per lo suo splendore
8 lo peregrino spirito la mira.

Vedela tal, che quando 'l mi ridice,
io non lo 'ntendo, sí parla sottile
11 al cor dolente, che lo fa parlare.

So io che parla di quella gentile,

22. puotesi passare, si può lasciare, si può accettare. visione (cfr. BARBI nel Bull. IV, 34 e VIII, 30).

23. non m'intrametto, cfr. XVI, 21.

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24. sonetto. «< L'aspirazione alla sede dei beati e il suo connaturarsi nell'anima di Dante coll'amore risorto per Beatrice infondono per tutto questo sonetto una soave idealità, che pervade cosi il concepimento come l'espressione, tanto da farne una dolcissima poesia » (Casini). L'AzzoLINA (184), giunto a questo sonetto, osserva: « L'estremo limite nella via di perfezione è già toccato, poichè la contemplazione è più piena di luce spirituale, che altra cosa che quaggiù sia... (Conv. IV, 22) ».

25. Oltre la spera, al di là del primo mobile, che è il cielo più ampio e più veloce (più larga gira: cfr. Purg. XXXIII, 90, Par. XIII, 24, XXIII, 112, XXVII, 99), ossia nell'empireo che è immobile, « luogo di quella somma deità che se sola compiutamente vede » (Conv. 11, 4). Efficacemente il son. comincia con il termine toccato già dal sospiro potente dell'innamorato (LISIO, 161). Col sonetto di Dante si può confrontare quello del Petrarca ·Levommi il mio penser, non senza rilevarne lè sostanziali differenze. 26. 'l sospiro, cfr. la n. 7.

27. intelligenza nova, virtù o facoltà intellettiva nuova, non mai avuta sin qui, data ora dall'amore.

28. pur, ben; anche qui credo abbia un significato « pleonastico rafforzativo »; cfr. XXIII, 15.

29. riceve onore, cioè dagli altri beati.

30. e luce si: «Beatrice beata luce in modo che la si vede anche in mezzo allo splendore che la circonda, si come carbon che fiamma rende, E per vivo candor quella soperchia, si che la sua parvenza si difende (Par. XIV, 52-54) » (Witte). Nel Par. XXXI, 71 dirà d'averla vista che si facea corona Riflettendo da sè gli eterni rai.

31. io no lo 'ntendo, cfr. Par. xv, 38-39.

32. Non si direbbe senza bell'effetto la ripetizione (ridice, parla, parlare, parla) nei vv. 9-12 (LISIO, 141). Nella canz. Voi che 'ntendendo, 14 sgg. (Conv. 11) Dante scriverà:

Solea esser vita dello cor dolente un soave pensier, che se ne gia

però che spesso recorda Beatrice,

14 sí ch' i' lo 'ntendo ben, donne mie care.

molte fiate a' piè del vostro Sire,
ove una donna glorïar vedia,
di cui parlava a me sì dolcemente,
che l'anima diceva: I' men vo' gire.

33. si ch'i' lo 'ntendo; cfr. la n. 18. Su codesto intendere e non intendere detto nelle terzine o mute trovò a ridire il senese Cecco Angiolieri, che, con aria d'affettata umiltà, domandava in grazia all'amico che gli spiegasse quello che a lui pareva una evidente contradizione »; son. Dante Allaghier, Cecco, 'l tu' serv' amico, 9-14:

ch'al meo parer, nell'una muta dice
che non intendi suo sottil parlare.
di quel che disse la tua Beatrice;

e poi ha detto alle tue donne care
che tu lo 'ntendi: adunque contradice
a sè medesmo questo tuo trovare.

C'è ignoto se e che cosa replicasse Dante: dei sanesi e della loro vanità egli non si mostra certo ammiratore (cfr. Inf. xxix, 121 ss.; Purg. XIII, 150 ss.)! Ma da un altro sonetto di Cecco, riboccante d'ogni maniera d'ingiurie, si capisce che il su' serv' amico non glicle avea mandate a dire:

Dante Alighier, s'io son buon begolardo, tu me ne tien ben la lancia alle reni...

Dante non rispose a quest'altro sonetto, o la risposta di lui non ci è giunta. Un cod. Casanatense (433, c. 122 b) ci ha conservata quella scritta « in per sona di Dante da messer Guelfo Taviani, che comincia: Cecco Angelier, tu mi pari un musardo». E forse all'Angiolieri intese rispondere Dante nello scrivere quelle parole del presente paragrafo avvegna che ecc. (cfr. n. 18) e quelle del Conv. 111, 4 riferite nella n. 14. Cfr. D'ANCONA, Studi di crit. e stor. letter., Bologna, 1880, p. 134 sgg. e SCHERILLO, 236 sgg.

XLII

Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione', ne la quale io vidi cose, che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta, infino a tanto che io potessi più degnamente trattare di lei. E di venire a

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XLII. 1. una mirabile visione. Che cosa vide Dante? Dovremmo essere indovini per dirlo con sicurezza. Ma, se si considera che il suo pensiero — il quale si era rivolto al cielo già mentre Beatrice viveva (vv. 15 sgg. della canzone del § XIX) e quando ne aveva presentita la morte (vv. 57 sgg. della canz. del § XXIII) - avvenuta questa, al cielo più assiduamente e intentamente era stato fisso, dove ammirava la donna sua gloriosa e onorata (vv. 15 sgg. della canz. del § xxx1; vv. 20 sgg. della canz. del § XXXIII; v. 4 del 1.o cominciamento e v. 14 del son. del § XXXIV e soprattutto l'intero son. del § XLI), se, dico, si considera ciò, non si ha difficoltà a credere quasi certo che la visione finale della V. N., seguita subito dopo quella dell'ultimo son. ora cit., fosse una visione soprattutto o esclusivamente paradisiaca. Si può anche dire certo che tra essa e la Commedia ci sia relazione; ma quale? Quanto della seconda era nella prima? Sono domande, alle quali non si potrà dar mai una risposta categorica e precisa. È verosimile, per altro, la congettura del FLAMINI (Riv. d'It., 229) che quella visione fosse la vera visione che nella Commedia, grazie al contemplante S. Bernardo, Dante ha della celeste corte e dell'altissimo posto che vi occupa, accanto all'antica Rachele, Beatrice ». E nient'altro? Se e come con la parte, per cosi dire, paradisiaca fosse congiunta nell'ultima visione della V. N. la parte infernale di cui è parso di vedere un germe nei vv. 42-44 della canz. del § XIX (cfr. di questo la n. 28) e la parte del Purg. di cui è parso di vedere un germe nel § XXXIX (cfr. di questo la n. 21), non possiamo definire. Certo, però, queste due parti nemmeno nell'ultima visione, se pur v'ebbero alcun luogo, poterono essere quelle che poi furono nell'Inferno e nel Purgatorio. La Commedia quale fu poi scritta non è frutto soltanto di ispirazioni d'amore; ma e di studi filosofici e letterari che fornirono molta materia forse nemmeno prevista il giorno della visione finale, e dei casi interiori ed esteriori dell'uomo successivi a quel giorno, ossia la caduta sua nel vizio, e la caduta della sua parte politica. Donde divamparono due altre fiamme che con l'amore dovevano accendergli la fantasia: il rimorso e la vendetta. Sul quale difficile e delicato argomento non potendo qui noi discorrere adeguatamente, si vedano, fra gli altri, il RAJNA (La genesi della D. C. in La Vita italiana nel trecento, Milano, 1892), il FEDERZONI (135 sgg., 371 sgg.), il COLI (Il Paradiso terrestre dantesco, Firenze, 1897, specialmente pp. 208 sgg., dove è svolta l'idea, anche d'altri, che la visione finale della V. N. fosse la visione intera, completa del paradiso terrestre dantesco, quale la troviamo descritta negli ultimi canti del Purgatorio, con tutti quei pensamenti su cui s'incardina il divino poema »), il MAZZONI (nel Bull. v, 179 sgg.), il GORRA (157 sgg. e anche Soggettivismo, 10-11), il CIUFFO (nell'op. cit. a p. 116), il PASCOLI (Sotto il velame, Messina, 1900, pp. 593 sgg.), il D'OVIDIO (331 sgg.) e il BAREI (nel Bull. x1, 45).

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