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ogni poesia di Dante è poesia d'occasione, intesa questa parola nel suo significato migliore; e che perciò qualche fatto reale ha molto probabilmente inspirato il sonetto », non credendo che esso fosse il matrimonio, crede che fosse quella figura d'Amore che (come narra G. Villani nel passo da me cit. in 1, 9) per due mesi percorse con grande schiamazzo le vie di Firenze (p. 119-120; ma cfr. il BERTANA, nella Rass. bibl. 1900, p. 131). Il BUTTI (in La biblioteca d. sc. ital. IX, 148 sgg.) nell'ultimo verso del sonetto vede significata « la cessazione del gradimento amoroso da parte di Beatrice, quale, secondo l'alternarsi di speranza e disperanza, suole essere temuto in vaghi presagi su 'l principio d'amore dall'innamorato dubbioso ». Nella narrazione in prosa, scritta dopo che Dante, lasciato l'amore terreno e cavalleresco, aveva trasumanata e angelicata Beatrice, vede accennati« i dolori di lui massime per la perdita dell'unico contatto terreno, che egli avesse con la donna sua, già sommo bene per l'innamorato, cioè il saluto, e il concetto d'amore nuovo, più nobile, paradisiaco, a cui attraverso a molte lacrime si ridusse il poeta; i cui versi, a far capo dalla canz. Donne che avete, fanno ben gir Madonna verso il cielo ». Il PASCOLI (11-12): « il sonetto ... contiene un vero sogno di Dante, sogno che appunto perchè è vero, non si presta a interpretazioni, ma ha inoltre una circostanza inventata, la quale è un principio d'interpretazione che non poteva essere compiuta. Sembra che Dante volesse esprimere il comune concetto dell'amore che comincia con canti e suoni e finisce con lagrime, dell'amore che è gioia e dolore, che è dolce amaro... Ora perchè tal concetto nel sogno potesse riferirsi a Dante che aveva sognato, bisognava che il cuore non lo avesse mangiato la donna, si esso; o meglio, che la donna non volesse mangiarlo, si che Dante restasse innamorato solo, senza speranza di mercede. Ma sí; lo mangiava, sebbene con qualche ribrezzo, paventosa . . . Or dunque Dante giovinetto del suo sogno vero volle fare, con suoi versi alquanto impacciati, una visione che avesse senso, e non ci riusci ». L'AZZOLINA (p. 87) crede che nel sonetto Amore pianga « come a presagio del pianto del cuore innamorato, della cui nuova condizione esso risente appieno », ma nella prosa pianga << indipendentemente dalle sofferenze del cuore ..., presagendo l'immatura morte di Beatrice ». Il GARGANO (88-90) crede che il son. fosse scritto non nel 1283 ma << : quando a Dante cominciò a piacere di mettere nei suoi versi un senso filosofico o cabalistico », e dice: « Se la donna che Amore reca in braccio è la rectitudo voluntatis causa di beatitudine, tutto il sonetto niente altro significa se non che la rettitudine ha conquistato il cuore del poeta, che brucia per essa d'amore; ma essa non è sicura che quel cuore sarà sempre lo stesso, è paventosa, prevede forse i futuri traviamenti; appunto perch'essa equivale alla beatitudine imperfetta di que-. sta terra, beatitudine che si può perdere, come difatti avvenne per Dante. Amore piange perciò, prevedendo tale catastrofe, e si allontana verso il cielo, dove soltanto si può avere la perfetta beatitudine ». Il MANACORDA, nel Giorn. st. XLII, 193 sgg. crede che nel sogno sia, << non un fatto, ma un ciclo di fatti.. tutta la storia dell' amore di Dante vista come in iscorcio, dal primo incontro del poeta colla donna fino allo morte di lei ». Pel colore sanguigno del drappo che richiama quello della veste con cui Beatrice fu vista da Dante, « pare... proprio che la Beatrice del principio della visione sia la Beatrice di otto anni ». Beatrice dorme, vuol dire che in lei l'amore è ancora in potenza. « Poi la svegliava ... poi! dice Dante, e nella prosa quando egli era stato alquanto . . . ; passano infatti nove anni tra il primo ed il secondo incontro con Beatrice, e allora Amore ... fece innamorare Beatrice svegliandola... Beatrice infine mangia del cuore di Dante, e questo mangiare del cuore . . . non può voler dire altro se non innamorarsi. Appresso gir ne lo vedea piangendo. Si noti: appresso! passa adunque alquanto tempo prima che Amore fugga, e questo tempo corrisponde al periodo che va dal secondo incontro alla morte di Beatrice...

Infine Amore (e qui diamo la mano al D'Ancona) piange per la morte di Beatrice. Infatti dove va Amore quando fugge? Al cielo, dice la prosa ». Ma, secondo la teoria del son. Amore e cor gentil, dorme e si sveglia Amore e lo spirito d'amore; sarà lecito ritrovarla nel son. A ciascun'alma, dove invece dorme e si sveglia Beatrice? E se Beatrice dormiva, come potevano i suoi occhi vedere un uomo valente, cosa necessaria secondo quella teoria? E se il fatto che Beatrice mangia il cuore di Dante vuol dire, come ho interpretato anch'io, che ella se ne innamora, lo svegliarsi di lei significherà la stessa cosa? E vale anche contro l'interpretazione del Manacorda, per tacer d'altro, l'obbiczione forte da me fatta poco addietro, che con Beatrice va in cielo anche Amore. Cfr., in fine, DURAND FARDEL, 134 141, lo ZINGARELLI, 87 88 e il BARBI nel Bull. XI, 3-4.

IV

La questa visione innanzi cominció lo mio spirito naturale ad essere impedito' ne la sua operazione, però che l'anima era tutta data' nel pensare di questa gentilissima; ond'io divenni in picciol tempo poi3 di sí fraile e debole condizione', che a molti amici pesava de la mia vista": e molti pieni d'invidia" già si procacciavano di sapere di me quello ch'io volea del tutto celare ad altrui.` Ed io, accorgendomi del malvagio domandare che mi fa

IV. 1. spirito naturale écc. In 1, 22 prevede di dovere essere impedito; qui comincia ad essere impe ito.

2. data, assorta.

3. in picciol tempɔ pɔi, dopɔ pɔcɔ tempɔ, in breve.

4. di si fraile e debole condizione. Fraile, da fragile, unito a debole, lo rende qui, per così dire, superlativo; che fraile non vuol dire altro che debole, come appare chiaro dal confronto del v. 29 della canz. del § XXIII: Mentr'io pensava la mia frale vita con la prosa che lo spiega: « pensando a la mia debile vita ». condizione, detto del corpo.

5. pesava, rincresceva. Gli amici, vedendomi cosi mal ridotto, provavan dolore. Cfr. Inf. v1, 58-59: il tuo affanno Mi pesa sì, ché a lagrimar m'invita.

6. pieni d'invidia: pieni di desiderio di sapere, di curiosità. Il Giuliani crede che qui invidia indichi la malignità, da cui procedesse il malvagio domandare che molti facevano, « ma non adduce passi paralleli ». Il Carducci sarebbe tentato di dichiarare questa invidia con le parole che Dante si sentiva dir dietro molte volte: Dco! per qual dignitate Cosi leggiadro questi lo cor have! (V. N. vII, 21). Ma « è egli naturale che, vedendo un uomo smorto e malportante [come Dante descrive se stesso nel presente luogo, gli si invidii il bel privilegio d'essere cosi ridotto per causa d'amore? ». Pertanto al Renier sorriderebbe un'altra interpretazione, che io ho accettata. « lo prenderei, egli dice, invidia per un francesismo e gli darei appunto il senso che ha ancora envie in francese e che aveva enveja in provenzale, cioè di desiderio. Gli amici pieni di desiderio di sapere, di curiosità, chiedono a D. perchè egli sia così sparuto. Se D. ha presa nel Par. XII, 112 la forma provenzale del vocabolo per fargli dire cosa che più s'avvicina al significato francese che al nostro di invidia, non trovo difficoltà ad ammettere che senza alterarne la forma italiana ne tenesse il senso provenzale e francese in questo passo della V. N. (Giorn. st. II, 370). Inveggia, dal prov. enveja, ma nel senso di invidia, usa Dante nel Purg. VI, 20. 7. si procacciavano, s'industriavano, facevan di tutto per ... 8. malvagio domandare. Non di rado i nostri antichi poeti si dolgono di quella noiosa gente che cerca di conoscere i segreti d'amore per divulgarli. Cfr. p. es. i sonn. di Guittone d'Arezzo, che citerò in v, 11, a proposito dello schermo. L'esempio era loro venuto dai poeti della Provenza, per i quali rimando al GASPARY, Sc. poct., 75 sgg. e allo SCHIERILLO, 261-268, limi

ceano, per volontà d'Amore, lo qual mi comandava secondo 'I consiglio de la ragione', rispondea loro, che Amore era quelli che cosi m'avea governato": dicea d'Amore, imperò ch' i portava nel viso tante de le sue insegne", che questo non si poría" ricovrire. E quando mi doman

tandomi qui a riferire ciò che questi ricorda di Arnaldo Daniello e il giudizio che dà sulla condotta di Dante verso i curiosi. « Fals lausengier, Arnaldo impreca una volta fra tante (canz. 17), possa il fuoco bruciarvi la lingua, e un cancro corrodervi ambedue gli occhi!... Di tanto impedite l'Amore, che per poco non cade. Vi sperda Iddio, senza che ve ne accorgiate, poichè voi vi fate maledire e sprezzar dagli amanti. La disgrazia è quella che vi sostiene, o sconoscenti, che peggiori divenite quanto più vi si corregge!». Poi allo sdegno fa succedere il disprezzo e la sfida... La Beatrice era troppo soave e gentile creatura perchè il suo trovatore potesse prendere anch'egli codest'aria da spavaldo e un accento cosi iroso contro i curiosi petulanti. Non già che questi non riuscissero alcuna volta a fargli del danno; chè, quand'ei cominciò a filare il nuovo amoruccio con la seconda donna della difesa, e« troppa gente » ne ragionò « oltre li termini della cortesia »>, la Beatrice per questa cagione », egli racconta (§ 10), « cioè di questa soverchievole voce che parea m' infamasse viziosamente, .. passando per alcuna parte, mi negò il suo dolcissimo salutare ». Con siffatta gente, Dante però si comporta mitemente e prudentemente; cosi che il suo modo di fare rassomiglia molto a quello tenuto da Guiraut de Salinhac [cfr. MAHN, Werke, III, 221-5]».

9. secondo 'l consiglio de la ragione, cfr. 1, 35.

....

10. governato, ridotto malconcio, cfr. Inf. xxvIII, 126 e Purg. XXIII, 31-36. Si rilevi l'efficace collocazione di Amore (Amore era quelli ecc.) e, poco dopo, di sorridendo e nulla (LISIO, 155 e anche 211).

11. insegne, segni, indizi. Petrarca, sest. Chi è fermato, 23: Vid'io le insegne di quell'altra vita. Le insegne d'Amore di cui parla il Petrarca nella canz. Amor se vuoi, 14:

Ritogli a morte quel ch'ella n'ha tolto

e ripon' le tue insegne nel bel volto

e nel 1.o v. di un madrigale: Perch'al viso d'Amor portavi insegna non credo siano propriamente quelle di cui parla Dante qui, poichè significano «<le nobilissime bellezze di Laura » nel 1.o luogo, « bellezza o vero segni d'animo inclinato ad amare» nel 2.o luogo. Quanto all'idea che l'amore non si può nascondere poichè se ne vedono evidenti i segni sul viso, cfr. i numerosi esempi raccolti nella mia Difesa di F. Petrarca, 63-64, dei quali ri ferisco qui solo quello del Cavalcanti, ball. Vedete ch'i' son, 7 sgg.:

E spesse volte aven che mi saluta
tanto di presso l'angosciosa morte
che fa 'n quel punto le persone accorte
che dicono in fra lor: quest'à dolore,
e già, secondo che ne par de fore,
dovrebbe dentro aver novi martiri.

12. non si poria, non si potrebbe.

«

Più regolarmente si direbbe ora non si sarebbe potuto, o, come fu corretto in altri testi, non si potea: ma lo scrittore considerò come presente e generale il fatto che non si nascondono i segni dell'amore, e però scrisse non si poria » (Casini).

davano: « per cui" t'ha cosí distrutto" questo amore? » ed io sorridendo li guardava", e nulla dicea loro".

13. per cui, per qual donna.

14. distrutto, iperbole naturalissima ed efficace. Cfr. il Cavalcanti, canz. 19 non pensava, 47-50, son. Voi che per li occhi, 3, e Cino, XIII, canz. L'uom che conosce, 28.

15. ed io sorridendo li guardava. Contro il BARTOLI (IV, 198), il D'ANCONA (p. XXXVIII) scrisse opportunamente: « qui abbiamo uno dei più comuni fenomeni della vita reale. Amici più o meno discreti vedono taluno mal ridotto; indovinano che sia effetto d'amore: dimandano per chi. L'innamorato, geloso del suo segreto, risponde con un sorriso, che non nega nè assente, ma lo dispensa dal nominar persona. A chi ciò non è accaduto? ». Quanto all'uso di e, ed in proposizioni simili alla presente, cfr. XXIII, 6.

16. nulla dicea loro. « E più tardi (§ 18), benchè per la sua vista « molte persone avessero compreso lo segreto del suo cuore », non perciò egli lo rivela; e alla domanda: « A che fine ami tu questa tua donna, poichè tu non puoi la sua presenza sostenere? », egli risponde, badando a non dir troppo: << Madonne, lo fine del mio amore fu già il saluto di questa donna, forse di cui voi intendete; ed in quello dimorava la beatitudine e il fine di tutti i miei desideri ». Così facendo, non solo accontentava il suo cuore cui ripugnava che il sacro nome della donna amata fosse sulle bocche dei profani, ma ottemperava bensi a una delle principali norme della poesia amorosa di Provenza. « Qu' amors per decelar dechai », ammaestrava un trovatore; e Guiraut de Calanso [MAHN, Werke, III, 32] rassicurava la sua dama:

Nis cug, quem pas las dens
Uns mot descovinens >>

(SCHERILLO, 263). Il Savj-Lopez mi comunica che egli ravvicinerà il presente paragrafo a un luogo del Sir di Navarra (canz. Poine d'Amors, e cfr. De vulg. eloq. I, IX, 3; II, v, 4, VI, 5):

Aucune gent m'ont demandé que j'ai,

que si porte pesme color el vis

et je lor ai respondu: Je ne sai,
si ci muers, c'est d'estre fins amis.
Ainsi mes cuers lor noie;

et por quoi lor diroie?

Il RIVALTA (op. cit. in III, 44), 31 vede una « relazione innegabile » tra il presente paragrafo e il 33.° son. del « trattato [?] d'amore » attribuito al Cavalcanti:

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