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struggitrice di tutt'i vizii e reina de le vertudi', passando per alcuna parte mi negò lo suo dolcissimo salutare, nel quale stava tutta la mia beatitudine. Ed uscendo alquanto del proposito presente', voglio dare a 'ntendere quello che 'l suo salutare in me vertudiosamente operava".

vio II, 9), per queste deviazioni sensuali, che infamavano viziosamente Dante, scemasse verso di lui l'affetto e la stima, è cosa più che naturale ». Cosi il D'Ancona, e, se la sua opinione, << come pare, si ha da ritener per giusta, Dante non avrebbe rivissuto, per deliberato proposito, la vita d'amore del trovatore [cfr. v, 11], ma al racconto della propria avrebbe dato una veste provenzalesca, avrebbe ricamato sul canovaccio dei fatti proprii un romanzo da poeta occitanico » (Cfr. il COLAGROSSO, in Giorn. st. xxx, 450; e il Braun nella n. 13 del § XII).

7. distruggitrice ecc., distruggitrice dei vizi altrui, signora delle virtù essa stessa. Dante non lo dice qui tanto per lodare Beatrice, quanto perchè dal contrasto tra il vizio di cui si dava carico a lui e la virtù di lei apparisse più forte ed evidente la causa per la quale ella gli negò il saluto. Che Beatrice distrugga i vizi altrui lo leggeremo altre volte, per es. nel § xix, 33, e XXI, 13. Quanto alla frase reina de le virtudi, vedi XII, 7 e ricorda il Cavalcanti, son. Chi è questa, 10-11:

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8. mi negò lo suo dolcissimo salutare. La ragione di ciò l'ha detto Dante stesso poco prima. Tuttavia recentemente il DOBELLI (p. 19 sgg.), movendo da un'antica ipotesi dell'Amati e di altri, ha opinato che vera cagione della negazione del saluto fosse il fidanzamento di Beatrice con Simone, cosi come nel § XIV ne ha veduto nascosto il matrimonio. La nostra opinione su ciò è a p. 35 e 38.

9. uscendo ecc., ossia allontanandomi un po' dall'argomento che sto trattando, cioè la negazione del saluto. Ad essa tornerà nel § XII per descrivere il dolore che ne ebbe. Cfr. la nota al proemio, 4.

10. vertudiosamente operava, creao vogna dire: aveva la forza, la potenza (la vertude; cfr. 1, 28; IX, 8; XXVII, 15) di produrre in me (cfr. 11, 10). Altri intende vertudiosamente « per effetto delle virtù di Beatrice ».

XI

Dico' che quand'ella apparía da alcuna parte, per la speranza de la mirabile salute' neun nemico mi rimanea', anzi mi giugnea una fiamma di caritade', la quale mi facea perdonare a chiunque m'avesse offeso: e chi allora m'avesse domandato di cosa alcuna, la mia risponsione

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XI. 1. Dioo ecc. ; « quanto agli effetti, il salutare di Beatrice è considerato in tre momenti distinti: la speranza del saluto, che induce nell'animo di Dante il sentimento della pace e della carità; la vicinanza del saluto », che gli fa tremar gli occhi e lo priva di tutte le altre facoltà sensitive; « e l'atto del saluto, che ha tanta efficacia da togliergli il dominio del corpo (cfr. Casini). Ciò che Dante scrive in questa prosa intorno al saluto risente di una condizione d'animo posteriore al tempo cui la riferisce; ma se questa non avesse avuto radice conveniente già in quel tempo, non sarebbe germogliata (cfr. ZINGARELLI, 101)

2. de la mirabile salute, del meraviglioso saluto e della meravigliosa salvezza, che ne derivava; cfr. III, 9.

3. neun nemico mi rimanea. Nel § XXI, 14 dirà che dinanzi a Beatrice fugge l'ira. Occorre appena avvertire, che nella Commedia e un po' anche nel Convivio l'odio è una delle fiamme che scaldano il petto di Dante. Qui, nella V. N., tutto è pace» e« umiltà ». Unica traccia d'odio, odio sui generis, contro la morte e i propri occhi è in VIII, 26 sgg. e xxxvII, 5 e 11; unica traccia d'ira in XII, 53. Cfr. anche GORRA, Soggettivismo, 16 ecc.; SCHERILLO, 107 sgg. Salvadori, 23.

4. mi giugnea ecc., diventavo amorevolissimo, affettuosissimo anche verso chi m'avesse offeso. Il FLAMINI (Riv. d'It., p. 219), parlando della mistica idealità, ch'è il carattere più cospicuo della lirica del dolce stile, scrive: che questa è l' arcano melodioso linguaggio che parlavano alle anime la voce solenne dell'organo e la voce argentina dei cori femminei echeggianti per la silenziosa oscurità delle cattedrali gotiche. Ed è un linguaggio d'amore: chè d'amore purissimo verso ogni cosa creata ridondava il cuore dei nuovi asceti d'Italia, men chiusi e arcigni d'una volta, secondo l'esempio del Serafico d'Assisi; e tutto un inno grande d'amore pareva salire dalle floride valli, dai declivi verdeggianti, per l'Umbria, per la Toscana, su verso l'arco luminoso del cielo. Questo foco d'amore come Jacopone lo chiamava, che nelle laudi del « giullare di Dio », volgendosi alle cose celesti, assume anche forme e sembianze materiate, quasi sensuali; nei poeti del dolce stile, mentre ha per oggetto invece la donna, è puramente spirituale, e si confonde a volte [come nel presente luogo] col sentimento cristiano della carità ». Il D'Ancona ricorda che questo fenomeno della « fiamma di caritade, che investe il sincero amante nel fervore della gioventù, è stato descritto anche del De Musset, Confess. d'un enfant du siècle cap. III)». 5. la mia risponsione ecc.; il Carducci nota che tutto questo luogo fu imitato dal Niccolini nel Giovanni da Procida, a. I, sc. 2.

sarebbe stata solamente: « Amore », con viso vestito d'umiltà. E quand'ella fosse alquanto propinqua al salutare,

6. con viso vestito d'umiltà, con viso dolcemente sereno e tranquillo. Simile espressione, ma con significato un po' diverso, incontreremo nel § xXVI, 29. Umiltà per i poeti dello stil nuovo spesso ebbe un significato non propriamente uguale a quello ordinario, ma da esso chiaramente derivato; significò, cioè, lo stato serenamente tranquillo dell'animo, la mancanza di appetiti o passioni, la dolcezza e mitezza di sentimenti; e umile si disse da loro chi fosse in quello stato. (Analogamente, talora, superbia « adoperavasi in senso di ira, commozione violenta d'animo. Tav. Rot. 25: Lancialotto per gran superbia va a ferire il castellano ». Cfr. il FORNACIARI, p. 182 dell'op. cit. in ii, 17. E il Cavalcanti, son. Chi è questa, 7-8:

Cotanto d'umiltà donna mi pare

Ch'ogn'altra veramente la chiam'ira).

Così nel § XIX, 34 Beatrice umilia chi è degno di veder lei, cioè lo volge a dolci, miti sentimenti, si che ogni offesa oblia. E cfr. XXIII, 35, 36 e XXVII, 19. Dante stesso nel Conv. III, 15, a proposito del v. 71 della canz. Amor che nella mente, scrive: « mirando costei (dico la sapienzia) in questa parte [che morale filosofia si chiama], ogni viziato tornerà diritto e buono. E però dico: Quest'è colei, ch'umilia ogni perverso, cioè volge dolcemente chi fuori dal debito ordine è piegato ». Ma subito prima, a proposito dei vv. 68-70 della stessa canz.:

Però qual donna sente sua beltate

biasmar per non parer queta ed umile,

miri costei ch'è esemplo d'umiltate,

scrive: quale anima sente sua beltà biasimare per non parere qual parere si conviene, miri in questo esemplo. Ove è da sapere che li costumi sono beltade dell'anima, cioè le virtù massimamente, le quali talvolta per vanità o per superbia si fanno meno belle o men gradite, siccome nell'ultimo trattato veder si potrà. E però dico che a fuggire questo si guardi in costei, cioè colà dov'ella è esemplo di umiltà, cioè in quella parte di sè che morale filosofia si chiama ». che confermerebbe, se occorresse, che non sempre (come forse qualcuno crede) umiltà e umile ebbero presso i poeti dello stil nuovo il suddetto significato, ma spesso (e talora accanto a questo, come nei vv. 68-70 della canz. Amor che nella mente ora cit.) quello ordinario di modestia, non superbo, non vanitoso, non sdegnoso, come, credo, in I, 10; xv, 9; xx1, 16; XXVI, 29, 46; XXXI, 25; xxxiv, 18. Ed in XXII, 27 umile mi pare abbia non poco del significato latino di basso; e nel v. 24 della canz. del § XXIII umilemente vale con quella garbata sommissione propria di chi prega, e qualche cosa di simile l'umilemente del § III, 39. Inoltre è da rilevare che l'umiltà attribuita alla donna è « dote tutta provenzalesca. Il Faidit, per esempio (canz. Ara cove que'm conort), chiama la sua donna: d'umil parven ». Appel, Chrest., 69. La canz. Lem platz emes ien termina: « Qe iai soi lasaz Per tal on eus beutatz, Pretz et humilitaz». DE LOLLIS, Il canzon. provenz. O, Roma 1886, n. 76 » (Scherillo, 363). Aggiungo un altro solo dei numerosi esempi che si potrebbero citare: Guillem de Cabestaing (MAHN, Werke, I, 112):

Qu'elh eis dieus, senes falhida,

la fetz de sa eissa beutat,

e mandet qu' ab humilitat

fos sa grans valors grazida.

uno spirito d'Amore?, distruggiendo tutti gli altri spiriti sensitivi, pingea fori li deboletti spiriti del viso, e dicea loro Andate a onorare la donna vostra »; ed e' și rimanea nel luogo loro. E chi avesse voluto conoscere Amore, fare lo potea mirando lo tremare de gli occhi Vero è che presso i poeti dello stil nuovo l'umiltà, soprattutto per l'esempio di quella di Maria (cfr. v, 2), spesso prende come una tinta mistica. « L'umiltà si presentò ai nostri antichi poeti velata sotto il dolce sorriso della bellezza femminile: e fu insieme la manifestazione dell'opera d'educazione che la donna esercitava sull'uomo spetrando l'orgoglio feroce della barbarie e riducendolo all'umiltà e alla mitezza, cioè all'umanità, della civiltà vera » (SALVADORI, 88 e cfr. anche AZZOLINA, 91, e i due ragionamenti che il TоMMASEO, fa seguire al suo commento del canto x1 del Purgatorio [Commedia di D. Al. con ragion. e note di N. Tommaseo, Milano, 1854, pp. 360-361]. Quanto all'uso di vestire, cfr. Purg. vII, 34; Cino, x, 1 sgg.:

i

Deh moviti, Pietate, e va' incarnata,

e della veste tua mena vestiti
questi miei messi ecc.

Petrarca, son. Sennuccio, i' vo', 7: Or vestirsi onestate or leggiadria; son. Tranquillo porto, 3-4: la età matura e onesta Che i vizii spoglia, e vertu veste e onore. S'intende che vestire in senso metaforico è più opportuno dove è detto dell'apparire al di fuori di una virtù interna e d'unc stato dell'animo », come certo nel presente luogo, nel § xxvi, 29 e nel penultimo esempio cit. del Petrarca.

7. uno spirito d'amore ecc., in altri termini, il sentimento amoroso funo spirito d'amore], privandomi di tutte le altre facoltà sensitive [spiriti sen: sitivi], stimolava, esaurendola, la facoltà visiva [pingea fori li deboletti spiriti del viso, cfr. 1, 23] ad ammirare [onorare] Beatrice, e si manifestava conoscere... lo potea] nel tremore dell'organo [occhi] di essa facoltà, alla quale si sostituiva. L'AZZOLINA, rilevando il contrasto tra la ragione e il senso nella V. N., scrive a proposito di questo passo (p. 174): « Dante non s'indugia su questi particolari a discuterli, a ragionarvi sopra per ricavarne degli ammonimenti. Ma è evidente che essi tendono a far rilevare come la virtù di Beatrice agisca diversamente nelle varie parti dell'anima del poeta, combattendo sempre quella sensitiva, di cui risparmia gli spiriti visivi solo perchè propri del senso spirituale per eccellenza ». E subito dopo (p. 175): « E se esso, quando Beatrice è vicina, si pone abitualmente negli occhi del poeta, è perchè ancora in quest'ultimo la parte intellettiva, che può sola comprendere l'alta virtù della donna e quindi affisarvisi, rimane offuscata dalla parte sensitiva, che predomina ».

8. deboletti, quasi insufficienti a mirare la bellezza di Beatrice. Più tardi Dante ebbe veramente debole il senso della vista, ma per la soverchia lettura. Cfr. Cony. III, 9: « per affaticare lo viso molto a studio di leggere, intanto debilitai gli spiriti visivi, che le stelle mi pareano tutte d'alcuno albore ombrate ». 9. si rimanea nel luogo loro, intendo nel luogo degli spiriti del viso, luogo lasciato libero per la partenza di questi. Il Carducci ravvicina al presente passo ciò che con figure più fiere il poeta dice nei vv. 7-11 del son. del § XIV, e ciò che più dolcemente il Petrarca dice nella canz. Gentil mia donna, 42-45:

de lo mio core,

quando tanta dolcezza in lui discende,
ogni altra cosa, ogni penser va fore,
e solo ivi con voi rimansi Amore.

miei." E quando" questa gentilissima salute salutava, non che Amore fosse tal mezzo", che potesse obumbrare13 a me la intollerabile" beatitudine, ma" elli quasi per soverchio di dolcezza divenía tale, che 'l mio corpo, lo quale era tutto allora sotto 'l suo reggimento", molte volte si movea come cosa grave inanimata. Si che appare manifestamente che ne le sue salute abitava la mia beatitudine",

II LISIO, 135, cita la prima parte di questo paragrafo e il periodo Allora queste donne ecc. del § XVIII come esempi delle « alliterazioni più frequenti in -ea e -are -ere -iri ecc. », e aggiunge che non si contano tutte le altre in -one -ato -asse -ento e simili ».

10. lo tremore de gli occhi miei, naturalissimo effetto della commozione del cuore nel guardare la donna amata; e segno o espressione evidente della commozione stessa. Il Petrarca (canz. Gentil mia donna, 74) spera di intender la corrispondenza di Laura da' begli occhi « al fin dolce tremanti ». Sul periodare di questo paragr. cfr. LISIO, 210.

11. E quando ecc. Il senso generale di questo periodo è: quando Beatrice mi dava il saluto, lungi dall'essere Amore (per trovarsi al posto della facoltà visiva) un ostacolo che valesse a impedirmi la stragrande beatitudine proveniente da quel saluto, io per lui ne sentivo tanta dolcezza che molte volte ecc.

12. tal mezzo, tale ostacolo, posto fra me e Beatrice.

13. obumbrare, latinismo, coprire d'ombra, velare, nascondere.

14. intollerabile, stragrande, è spiegato dalle parole seguenti: « la quale [beatitudine]. passava e redundava la mia capacitate ». Invita a medi tare quello che il PASCOLI scrive a pag. 190: « il salutare di Beatrice nella Vita Nova è ricordo della salutazione angelica, che fece beata Maria: ex hoc beatam me dicent... La parola obumbrare è presa dal racconto di Luca evangelista: Spiritus sanctus superveniet in te et virtus Altissimi obumbrabit tibi. E che si tratti del medesimo concetto, riuscirà chiaro leggendo in San Bernardo: L'ombra del Cristo ritengo sia la carne di lui, della quale fu obumbrato anche a Maria, affinchè per il suo riparo (eius obiectu) il fervore e splendore dello Spirito fosse a lei temperato ». Dante traduce obiectus con « mezzo », e rende con le parole << intollerabile beatitudine quel fervore e splendore soverchio che occorreva temperare ».

15. non che... ma... Non che (secondo alcuni, formola abbreviata per non occorre dire che) serve a una gradazione di pensiero. Cfr. Inf. v, 44-45:

Nulla speranza gli conforta mai,

non che di posa, ma di minor pena.

Errano coloro che adoperano non che nel senso congiuntivo, cosi: Egli conosce Giulio nonchè [e] Paolo.

16. reggimento, governo, signoria, potestà.

17. si che ecc. Da più luoghi del libro chiaramente risulta che non pochi a quei di giudicavano sensuale l'amore di Dante anche per Beatrice; la stessa insistenza sua nel ripetere, nel protestare che il suo ultimo fine altro non era che il saluto di questa gentilissima donna basterebbe a metterci sull'avviso. A quest'uopo egli spende tutto cap. xi, il quale termina colle parole: « sì che appare manifestamente che ne la sua salute abitava la mia beatitudine» (GORRA, 137).

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