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INTRODUZIONE

Dante stesso nel Convivio I, 1 ci fa sapere che era all'entrata della gioventù », vale a dire tra i 26 e i 27 anni', quando compose la Vila Nuova, ossia raccolse e collegò in essa con prose illustrative alcune rime scritte in diversi tempi dal 1283 in poi: sicchè i critici, fondandosi su quella notizia e su altre minori, sono riusciti a determinare quando è verosimile che la componesse, cioè o nel 1292 o tra il 1292 e il 1293; e, se sbagliano, sbagliano di poco2.

Sarebbe desiderabile che, con la stessa probabilità di non dipartirsi dal vero o di dipartirsene poco, potessero indicarci quali studi avesse fatto Dante allora; cosi avremmo anche un'utile guida nell'interpretazione della V. N.; ma pur troppo non possono offrirci che semplici congetture, spesso molto discordanti o assolutamente opposte fra loro. Ed invero le testimonianze che abbiamo o son chiare, ma hanno poca determinatezza, o si prestano a varie interpretazioni e deduzioni; sicchè possono condurre ad un'opinione soggettiva un po' vaga, ma non bastano a mutarla in un'affermazione oggettiva e precisa, ossia a darle quel carattere e quella forza che occorrono affinchè tutti la accetti no.

1. Nel Convivio IV, 24, infatti, Dante dice che la gioventù comincia col 26.° anno.

2. Cfr. il BARBI nel Bull. X, 90 sgg. (dove si confuta l'opinione, novellamente rimessa in campo dal Federzoni, che la V. N. fosse scritta nel 1300 o nel 1299). Il CHISTONI (44) crede « non più tardi del 1292 ». L'opinione del D'ANCONA Vedila nella Rass. bibl. VII, 19, e cfr. inoltre il D'OVIDIO, N. Antologia, 247 sgg.; il RAJNA, nel Giorn. st. vi, 113 sgg., e il CORBELLINI 37 sgg.

Queste testimonianze sono:

1. Già alla morte di Beatrice (8 giugno 1290) Dante scrisse un'epistola in latino, come narra nel § Xxxx.

2. Nello stesso paragrafo narra che, d'accordo col Cavalcanti, non ebbe intendimento « dal principio di scrivere altro che per volgare »; segno che sentiva in sè la possibilità di scrivere in latino.

3.a Cita nella V. N. Omero, Geremia, Aristotele, Virgilio, Lucano, Orazio, Ovidio, Tolomeo (I, 31; VII, 30; XXV; XXIX, 6; XLI, 17); ha nozioni di cronologia e di psicologia che si trovano rispettivamente in Alfragano e nel De anima attribuito a Ugo da S. Vittore (I, 8 e XXIX, 2; I, 12).

4.a Usa nella V. N. il simbolo del nove (XXIX).

5. Usa nella V. N. le visioni, ama la sottigliezza dell'analisi e l'esattezza del linguaggio scientifico.

6. Nell'ultimo paragrafo della V. N. scrive: « studio quanto posso per venire a più degnamente trattare di Beatrice; si che - soggiunge se piacere sarà di colui, a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dire di lei quello che mai non fue detto d'alcuna ».

7.a Nel Conv. II, 13 scrive che, morta Beatrice, «< dopo alquanto tempo », per consolarsi si mise a leggere il De consolatione di Boezio « non conosciuto da molti » e il De amicitia di Cicerone. « E avvegnachè continua duro mi fosse prima entrare nella loro. sentenzia, finalmente v'entrai tant'entro, quanto l'arte di gramatica ch'io aveva e un poco di mio ingegno potea fare; per lo quale ingegno molte cose, quasi come sognando, già vedea, siccome nella Vita Nuova si può vedere ». 8. Nell'Inf. I, 85 sgg. dice a Virgilio:

Tu se' lo mio maestro e il mio autore:

tu se' solo colui, da cui io tolsi

lo bello stile che m'ha fatto onore.

Le prime due testimonianze son chiare, ma attestano solo che Dante, quando componeva la V. N., aveva già una discreta conoscenza della lingua latina,

3. Cfr, il BARBI nel Bull. x, 317.

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Quanto alla terza, tutti ne traggono la certezza che Dante aveva già letto e studiato i canti chiesastici; tutti riconoscono che Omero e Tolomeo egli li cita di seconda mano; se di seconda mano citi anche Aristotele, alcuni non sanno decidere, ma lo crede bene il Chistoni (52 sgg.); degli altri autori si ritiene comunemente che abbia letto almeno parte delle opere, ma il Chistoni lo nega3.

La quarta mostra che la mente di Dante cominciava ad aver la disposizione al simbolismo; ma non si può affermare donde e come la prendesse, poichè « le qualità del tre e del nove erano universalmente sapute, onde dal vaneggiare de' più s'informò [o potè informarsi] la fantasia dantesca ».

La quinta mostra che egli, aiutato anche dal suo stesso temperamento, sentiva già l'effetto del « moto immenso spirituale e intellettuale che aveva prodotto la nuova mistica e la scolastica, e socialmente procedeva dai due grandi Ordini mendicanti. La visione veniva dal mondo dove più s'era sviluppata la vita dello spirito, cioè quello dei Minori; la sottigliezza dell'analisi e l'esattezza del linguaggio scientifico veniva dal mondo dove più s'era esercitata la ragione, cioè dei Domenicani' ».

4. Cfr. SCHERILLO, 487.

5. Il CHISTONI rileva che « le citazioni della V. N. sono tutte di per sè, quanto al testo, indecise, imperfette, ed inoltre spesso senza indicazioni di opere e di relative partizioni, anzi talora nemmeno di autore, contraria mente a quanto avviene per lo più nelle composizioni erudite dell'Alighieri » ; e ritiene che la dottrina della V. N. sia attinta non già alle varie fonti direttamente, ma indirettamente a qualche trattato didattico o alla bocca di qualche maestro. Il BARBI, a questo proposito, osserva nel Bull. x, 316: << Poco sicuro mi pare dedurre il grado di cultura d'un autore dalle citazioni che si possono avere in un'opera come la V. N. Era proprio quello il luogo da sfoggiare erudizione e da far molte citazioni di opere sia classiche sia filosofiche colle relative partizioni? Si può dire anzi che anche quelle che ci sono, più che richieste dall'argomento, paiono inserite a forza per una certa ambizioncella da principiante. Non tutte quelle citazioni saranno di prima mano, ma nel complesso, e per quello che di personale ci mette Dante nel collegarle colla sua trattazione, e per il significato che taluna di esse include (ad es., quella del § XII), attestano una cultura meno superficiale e accattata che non paia al Chistoni ».

6. Cfr. CHISTONI, 73. Il CHISTONI Stesso (82) crede che nella V. N., oltre il simbolo del nove, sia quello del centrum circuli del § XII, 18: ma a me pare che il centrum circuli non sia propriamente altro che il centrum circuli, cui Amore, come signore della nobiltà, si paragona: cfr. il commento del passo cit. Del resto, mentre a qualcuno par che Dante in esso si giovi di Aristotele e S. Tommaso, al CHISTONI (55-56) par che si serva di un luogo comune. 7. Cfr. SALVADORI, nel Fanfulla della Domenica, XXVI, 9.

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Dalla sesta appar chiaro che Dante faceva ben differenza tra la preparazione che gli era bastata a scrivere il << libello » e quella che gli era necessaria a scrivere il poema; che ei cominciò la seconda, veramente o soprattutto scientifica e filosofica, quando fini o mentre finiva la V. N.; e che la prima, sebbene non piccola, non doveva essere troppo vasta o profonda, se la seconda richiedeva alquanti anni.

Dalla settima alcuni deducono che componesse la V. N. mentre iniziava la lettura di Boezio e Cicerone o poco dopo; il Chistoni, che la componesse prima di quella lettura. E secondo alcuni Dante trovò duro l'« entrare nella sentenzia » di quei due autori per la difficoltà del loro pensiero e del loro ragionamento filosofico; secondo il Chistoni, per la sua insufficiente conoscenza del la

8. Il CHISTONI (43), infatti, così parafrasa l'importante passo del Convivio: « A principio, siccome inesperto nella lingua latina, approfondivo assai poco il pensiero dei miei due autori; ma poi, applicando quel po' di grammatica che io sapevo e valendomi del mio acuto ingegno soprattutto, ne capii qualche cosa di più. Ho detto « del mio ingegno », perchè esso anche prima mi aveva fatte intravedere molte cose belle, ma solo intravedere, cioè io ne avevo intuita la bontà quasi come sognando, attraverso, per cosi dire, un velo di nebbia, in lontananza, siccome si può vedere nella V. N., che io compiei appunto in quel periodo, nel quale non conosceva che un po' di grammatica, quantunque, ripeto, al mio ingegno balenasse già lo splendore di tutto un tesoro scientifico, che io presentivo vagamente ». < Ma obbietta il BARBI nel Bull. x, 318- non è necessario che quel già vedea significhi « anche prima avevo intraveduto », potendo valere semplicemente per esso ingegno molte cose ormai vedeva, come mostra anche la V. N. scritta allora o poco dopo ». E che questo debba essere il vero pensiero di Dante mi pare confermato nello stesse cap. XIII, ove è detto che la lettura di Boezio cominciò alquanto tempo dopo la morte di Beatrice, prima che il dolore del poeta avesse conforto o distrazione alcuna. Nè poteva, a guardar bene, asserir Dante qui nel Convivio d'aver compiuto la V. N. prima della lettura di Boezio e di Cicerone, mentre vuol far credere che quella donna pietosa che menziona in fine di essa sia la filosofia, concepita da lui come donna gentile soltanto dopo la lettura di quegli autori ». All'opinione del Chistoni si accosta il CORBELLINI (50 sgg.), il quale obbietta al Barbi che il guardar bene può non bastare a veder la verità nel campo delle finzioni, e, fra l'altro, aggiunge due argomenti, di cui uno, però, ex silentio : «Non è senza significato il fatto che nè Cicerone nè Boezio nella V. N. sono citati; mentre, se il Poeta li avesse conosciuti, perchè non ne avrebbe dato cenno per quella ambizioncella da principiante che il Barbi stesso osserva nella V. N.? E neanche vuol essere trascurata la considerazione che quando Dante ebbe letto Boezio e Cicerone, non era più nella primitiva condizione d'uomo fornito solo d'un certo ingegno naturale e dell'arte di grammatica, ma aveva trovato già vocaboli d'autori e di scienze e di libri, e già andava concependo la Filosofia come somma cosa; per il che la composizione del libretto non potrebbe in tutti i casi essere che contemporanea all'inizio degli studi sui due filosofi ».

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