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IL CONVITO

DI

DANTE ALIGHIERI.

DANTE. 3.

1

DISSERTAZIONE

SUL CONVITO.

I. Come quegli illustratori di antiche opere d'arti, che da un piccolo frammento novellamente dissotterrato d'un marmo o d'un bronzo, si presumono deciferarne immediatamente il subietto, determinarne la data, e ravvisarne l'autore ; ma che dopo non molto, al discoprirsi d'ogni restante dell' opera, si rimangono confusi del loro mal fondato giudizio, così io credo doversi rimanere quei critici e chiosatori, i quali per la lettura di poche pagine d' un libro, o per una leggiera meditazione d'un passo, credono di essere in grado di pronunziar sentenze, che in progresso vengono riconosciute o per arrischiate o per incongruenti o per false.

La critica cronologica in particolare non può posare il suo fondamento sopra dati e fatti disgiunti e isolati di quel tal quadro che essa siasi proposta d'analizzare. Il critico, che senza aver presente ed ordinatamente disposto davanti agli occhi della mente tutto l'insieme dell'opera, e che da sola una parte presume, nella guisa stessa che il matematico, dedurne e tracciarne il tutto, si espone al caso di allontanarsi sempre più da quel vero, alla ricerca del quale intendeva di consacrar le sue indagini. Così il dotto e valoroso Ugo Foscolo, che dell' arte logico-critica applicata alla Cronologia si valse con istupendo ragionamento a spander luce sull' istoria della Divina Commedia, non si sarebbe cotanto assottigliato infruttuosamente l'ingegno a provare, Dante non aver giammai pubblicata, vivendo, parte alcuna del suo mirabil poema, e quindi non doversi su ciò prestar fede al Boccaccio e agli altri biografi del

divino Poeta,

quando egli si fosse per avventura imbattuto a

leggere quei versi dell' Egloga I, al Del Virgilio indirizzata,

quum mundi circumflua corpora cantu

Astricolæque meo, VELUT INFERA REGNA, patebunt,
Devincire caput hedera, lauroque juvabil, » '

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Anche dai versi 18, 19 dell'Egloga I di Giovanni Del Virgilio deducesi, che le due prime Cantiche almeno, erano state da Dante in vita sua pubblicate. Essi dicon cosi:

<< Præterea nullus, quos inter es agmine sextus,

Nec quem consequeris cœlo, sermone forensi
Descripsit. »

Infino ad ora

Nessun di que', fra cui tu il sesto siedi,

Cantò in sermon forense, nè pur quegli

Cui segui al ciel poggiando..... >>

Non v'ha principio di dubbio che il buon Giovanni, nel mentre rimprovera a Dante lo scrivere in lingua volgare, non alluda qui al noto passo dell'Inferno, IV, 102:

« Si ch'io fui sesto fra cotanto senno, >>

e agli altri del Purgatorio, XXI e segg., nei quali è detto che Stazio fece compagnia all'Alighieri mentre ascendeva al paradiso terrestre. Or come avrebbe Giovanni potuto alludere a ciò, se le due prime Cantiche non eran note? Così que' versi del XXV del Paradiso,

«Se mai continga che il poema sacro,

Vinca la crudeltà che fuor mi serra
Del bello ovile ec. »>

ne dicono a chiare note che il Poema fu da Dante stesso, e non già da'suoi figli, pubblicato. Imperocchè com' avrebbe potuto sperare che il suo poema potesse essergli il mezzo di riconciliazione colla patria, alla quale avea vôlto tutti i suoi desiderii, quando non l'avess'egli mandato in pubblico? Il Tommaseo altresì conobbe la fallacia dell'opinione del Foscolo, sì che nella prefazione al libro dell' Arrivabene disse: « Non è necessario fer>> marsi a confutare quelle tante ragioni con le quali il Foscolo s'ingegna >> di dimostrare che Dante non pubblicò in vita sua il Poema, poichè non >> solamente le tradizioni a ciò contradicono, ma pure i fatti e l'indole del >> Poeta e le sue speranze e i suoi fini e la natura di quei governi che divi

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