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EPOCA PRIMA

DALL'ORIGINE DELL'ITALIANA POESIA
SINO AL 1400.

GUIDO CAVALCANTI

Fiorentino, poeta e filosofo ad un tempo, e grande amico di Dante. Appartenne ad una delle più illustri e potenti famiglie, e fu involto nelle fazioni della sua patria. Alcuni lo tacciarono d' epicureo, e di ateo; dalle quali accuse lo difendono il C. Mazzuchelli, e il Canonico Biscioni. Fu rilegato dal Comune di Firenze in esilio a Serezano nel 1300., nel qual anno morì. V. Giovanni, e Filippo Villani, e la vita di Guido scritta da Domenico di Bandino Aretino, e pubblicata dall'Abate Mehus.

SONETT O.

Io vidi gli occhi, dove Amor si mise,
Quando mi fece di se pauroso,
Che mi sguardar come fosse annojoso,
Allora, dico, che il cor si divise;
E se non fosse, che Donna mi rise,
Io parlerei di tal guisa doglioso,
Ch''Amor medesmo si faria cruccioso,
Che fe l'immaginar, che mi conquise.
Dal Ciel si mosse un spirito in quel punto,
Che quella Donna mi degnò guardare,
E vennesi a posar nel mio pensiero.
E lì mi conta sì d'amor lo vero,
Che ogni sua virtù veder mi pare,
Si come fossi dentro al suo cor giunto.
Raccolta di Lirici.

I

DANTE ALIGHIERI

Nacque in Firenze nel 1265. di Alighiero degli Alighieri, e di Bella. Fu detto Durante, e poscia per vezzo Dante. Ebbe per maestro Brunetto Latini. Fervido d'ingegno volle ancora servire la patria coll' armi. Fu egli pure esiliato l'anno 1302. perchè del partito de' Bianchi. Negli ultimi suoi giorni fu accolto da Guido Novello da Polenta in Ravenna, dove esule mori nel 1321. Fu grande letterato in ogni genere di scienze, ed è uno de' Padri dell' italiana poesia. Il carattere di sue rime è la precisione, ed una fiera robustezza; ma è dilicato ancora e soave, dove ha voluto esserlo. V. la vita, che ne scrisse il Tiraboschi, premessa al primo Vol. della Divina Commedia della Collezione de' Classici.

SONETT O.

Tanto gentile e tanto onesta pare
La Donna mia, quand'ella altrui saluta,
Ch'ogni lingua divien tremando muta,
E gli occhi non ardiscon di guardare.
Ella sen va, sentendosi laudare 9
Benignamente d'umiltà vestuta,
E par, che sia una cosa venuta
Di Cielo in Terra a miracol mostrare.
Mostrasi si piacente a chi la mira,

Che dà per gli occhi una dolcezza al core,
Che intender non la può chi non la prova.
E par, che de la sua labbia si mova
Uno spirto soave, e pien d'Amore,
Che va dicendo a l'anima: sospira.

CANZONE.

Io mi son pargoletta bella e nova,
E son venuta per mostrarmi a vui
'De le bellezze, e loco donde io fui.
Io fui del Cielo, e tornerovvi ancora,
Per dar de la mia luce altrui diletto;
E chi mi vede, e non se ne innamora,
D'Amor non averà mai intelletto;
Chè non gli fu piacere alcun disdetto,
Quando Natura mi chiese a colui,
Che volle, Donne, accompagnarmi a vui.
Ciascuna stella ne gli occhi mi piove
De la sua luce e de la sua virtute:
Le mie bellezze sono al mondo nove,
Perocchè di lassù mi son venute;
Le quai non posson esser conosciute,
Se non per conoscenza d'Uomo, in cui
Amor si metta per piacere altrui.
Queste parole si leggon nel viso

D' un' Angioletta, che ci è apparita;
Ond' io, che per campar la mirai fiso,
Ne sono a rischio di perder la vita;
Però ch'io ricevetti tal ferita

Da un, ch'io vidi dentro a gli occhi sui:
Ch'io vo piangendo, e non m'acquetai pui.

CINO DA PISTOJA

Di lui fa Dante onorevole e frequente menzione. Cino però sopravvisse a Dante, nella cui morte compose un Sonetto, che conservasi manoscritto nella Biblioteca di S. Marco in Venezia.

SONETTO.

Tanto mi salva il dolce salutare,

Che vien da quella, ch'è somma salute; In cui le grazie sou tutte compiute : Con lei va Amor, che con lei nato pare. E fa rinnovellar la terra e 'l mare, E rallegrar lo Ciel, la sua virtute. Giammai non fur tal novità vedute, Quali per lei ci face Dio mostrare. Quando va fuora adorna, par che il mondo Sia tutto pien di spiriti d'amore, Sì che ogni gentil cor divien giocondo. E lo villan domanda: Ove m'ascondo? Per tema di morir vuol fuggir fuore: Che abbassi gli occhi l'Uomo, allor rispondo.

CANZONE.

Quando Amor gli occhi rilucenti e belli,
Che han d'alto foco la sembianza vera,
Volge ne' miei, sì dentro arder mi fanno,
Che per virtù d'Amor vengo un di quelli
Spirti, che son nella celeste sfera,

Ch'amor e gioja egualmente in lor anno.
Poi per mio grave danno,

S'un punto sto, che fisso non li miri, Lagriman gli occhi, e 'l cor tragge sospiri. Così veggio, che in se discorde tene

Questa troppo mia dolce, e amara vita,
Che niun tempo nel Ciel trovasi e in terra,
Ma di gran lunga in me crescon le pene;
Perchè cherendo ad alta voce aïta,

Gli occhi, altrove mirando, mi fan guerra:
Or se pietà si serra

Nel vostro cor, fate, che ognor contempre
Il bel guardo, che in Ciel mi terrà sempre.
Sempre non già, poscia che nol consente
Natura, ch'ordinato ha, che le notti
Legati sian, non già per mio riposo,
Perciocchè allor sta lo mio cor dolente,
Nè sono a l'alma i suoi pianti interrotti
Del duol, ch'ho per fin qui tenuto ascoso:
Deh se non v'è nojoso

Chi v'ama, fate almen, perch'ei non mora,
Parte li miri de la notte ancora.

Non è chi immaginar, non che dir pensi
L'incredibil piacer, Donna, ch'io piglio
Del lampeggiar de le due chiare stelle,
Da cui legati ed abbagliati i sensi,
Prende il mio cor un volontario esiglio,
E vola al Ciel tra l'altre anime belle;
Indi di poi lo svelle

La Luce vostra, ch'ogni luce eccede,
Fuor di quella di quel, che tutto vede.
Ben lo so io, che il Sol tanto giammai
Non illustrò col suo vivo splendore
L'aer, quando che più di nebbia è pieno,
Quanto i vostri celesti e santi rai,

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