Sembrava al vasto regno Termine angusto omai l' Istro, e l'arene; Novo Titano a sdegno Già recarsi parea palme terrene ; Posto in obblío, qual disdegnoso il Cielo Melpomene cortese, ala veloce, Per l'Italiche ville alza la voce; Alma Esperia, d' Eroi madre feconda Mira de l'Istro in su la gelid' onda, acque immenso scoglio Farsi scudo al furor del Tracio orgoglio. Per rio successo avverso In magnanimo cor virtù non langue; Doppia teste e furor terribil angue: Fucina è là su' luminosi campi, Con paventoso suon fra nubi e lampi, Tempran l' armi al gran Dio Steropi, e Bronti, Ivi gli accesi strali Prende, e fulmina poi giganti, e monti; Ivi ne l'ire ancor, nè certo in vano, Vide Strigonia le superbe mura; Qual funesto balen fra nube oscura, Ch'alluma il mondo, indi saetta, e solve Ogni pianta, ogni torre in fumo e'n polve. O qual ne' cori infidi Sorse terror, quel fortunato giorno! Bisanzio udì, non pur le valli intorno; Lunge non fu già mai ruina, e danno: Addolcirò de' bei sudor l'affanno ; Io de la palma tua con le sacr' onde CANZONE. Chi su per gioghi alpestri Andrà spumante a trovar torrente, E depredando intorno Va con orribil corno? O chi nel gran furore Moverà contra fier Leon sanguigno, E la fronte, e le piante Muse, soverchio ardito Son io, se d'almi Eroi senza voi parlo; Quando l'Italia corse Di se medesma in forse? Chi di tanta vittoria Frenar potea cor giovinetto, altero ? Asta di Marte, scoglio Al barbarico orgoglio? Non udi dunque in vano Dal genitor la peregrina Manto, E di dolce ventura Fe' la sua via sicura. Figlia, diss' egli, figlia Del cui bel Sol volgo i miei giorni alteri; Dolce udir nostra sorte Pria, che 'l Ciel ne l' apporte. Lunge da le mie braccia, Lunge da Tebe te n' andrai molt' anni: Nè ti sia duol, che per sentier d'affanni Verace onor si traccia, Per cui chi non sospira Indarno al Cielo aspira. Chiude a' tuoi lunghi errori, Alma diletta; Là 've serene l'onde Vago il Mincio diffonde. Suono anderà sovra le stelle aurate; Regi, ch' a' cenni loro E se fulminea spada Mai vibreran ne' cor superbi e rei, Benchè Erimanto vide Con sì grand' arco Alcide. CANZON E. Era tolto di fasce Ercole a pena, Entro il paterno scudo, Il riponea la genitrice Alcmena; Traea la notte oscura. Quand' ecco serpi a funestargli il seno Cura mortal non sei, Se pur sorgesse il gemino veneno; Ch'alto valor s'onora. Or non si tosto i mostri ebbe davante, Che con la man di latte Erto su i piè combatte, Già fatto atleta il celebrato infante Stretto per strani modi Entro i viperei nodi. Al fin le belve sibillanti e crude E così vien, che splende Anco ne i primi tempi alma virtude, Le glorie sue perfette. Ma troppo fia, ch' io su la cetra segua A lui rivolsi il canto Per la bella sembianza, onde l'adegua Il Medici Giovanni. Ei già tra' gioghi d'Appennín canuti Solea schernir fanciullo Le crude piaghe de' cinghiali irsuti; Terror de' boschi alpestri. Quinci sudando in più lodato orrore Allor percosse il tergo L'asta Tirrena al Belgico furore; Lunge sonaro i lidi. Così leon, s' a la crudel nudrice Non più suggendo il petto Ha di provar diletto. Fra gregge il dente e l' unghia scannatrice, Tosto di sangue ha piene, Le mauritane arene. Ma come avvien, che s'Orïon si‹ gira, Diluviosa stella, Benchè mova procella, Ella pur chiara di splendor s'ammira: |