E chi spera sottrarsi a i colpi duri. Grand' urna i nomi nostri agita, e gira, E cieca è quella man che fuor li tira. Sola Virtù del tempo invido a scherno Toglie l'uom dal sepolcro, e'l serba in vita. Con memoria gradita
Vive del grande Alcide il nome eterno, Non già perchè figliuol fosse di Giove, Ma mille ch'ei fece illustri prove. per Ei giovinetto ancor in doppio calle Sotto il piè si mirò partir la via A sinistra s' apria
Agevole il sentier giù per la valle; Fiorite eran le sponde, e rochi e lenti Quinci e quindi scorrean liquidi argenti. Ripida l'altra via, scoscesa, alpestra
Salia su ver un monte, e bronchi e sassi Ritardavano i passi.
Generoso le piante ei volse a destra, E ritrovò il sentier de l'erto colle Quanto più s' inoltrava ognor più molle. Onda fresca, erba verde, aura soave Godean l'eccelse e fortunate cime: Quivi Tempio sublime
Sacro a l'Eternità con aurea chiave Virtù gli aprio: Quindi spiegò le penne, E luogo in Ciel fra gli altri Numi ottenne. Enea, s' a lo splendor de gli Avi egregi Di tua propria virtute aggiugni il raggio, Al paterno retaggio
Accrescerai di gloria incliti fregi.
Io da lungi t' applaudo, e riverente Adoro del tuo crin l'Ostro nascente.
Gira a l'Adria incostante, Ercole, il ciglio; Che di Corte real vedrai lo stato,
E fin ch'hai tempo, e che'l permette il Fato, De le fortune tue prendi consiglio.
Non ti fidar di calma. In un sol giorno
Scherza ne l'acque, e vi s' affonda il pino; E tal ricco di merci è sul mattino
Che nudo era la sera a i lidi intorno. Grazia di regio cor gran lume spande, Ma la luce ch' apporta è
poco lieta; E come raggio di mortal Cometa
Tanto minaccia più quanto è più grande. Compagno è'l precipizio a la salita, E van quasi del par ruina e volo; Molti gl' Icari son, ma chi d'un solo Dedalo i vanni in questo Ciel m' addita ? Vide la Gallia i suoi Seiani, e vide Anco l' Iberia i suoi: ma se più presso Volgi lo sguardo, in questo lido istesso Più d'un ve n'ha che fra suo cor non ride. O di sincero amor, e di fe rara
Non volubile esempio, odi i miei detti; E del vulgo profano i bassi affetti A calpestar da queste voci impara. Non aura popolar che varia, ed erra, Non folto stuol di servi e di clienti, Non gemme accolte, o cumulati argenti Petto mortal pon far beato in terra. Beato è quei che in libertà sicura Povero, ma contento i giorni mena, E che fuor di speranza, e fuor di pena Pompe non cerca, e dignità non cùra.
Pago di sè medesmo, e di sua sorte Ei di nemica man non teme offesa, Senza ch' armate schiere in sua difesa Stian de l'albergo a custodir le porte. Innocente di cor, di colpe scarco, Ei non impallidisce, e non paventa Se tuona Giove, o se saette avventa Del giusto Ciel l'inevitabil arco. Segga chi vuol de' sospirati onori Su le lubriche cime: offrirsi veggia Quanti colà, dove l'Idaspe ondeggia, Per la spiaggia Eritrea nascon tesori. A me conceda il faretrato Apollo Che da la Corte a solitaria riva
Io passi un giorno, e là felice i'viva Col plettro in mano, e con la cetra al collo. E poi che pieno avrà con la man cruda Il fuso mio l' inesorabil Cloto
Rustico abitator a tutti ignoto
Se non solo a me stesso i miei di chiuda.
Aretino, e primo medico de' gran Duchi Ferdinando II. e Cosimo III. Fu membro di varie Accademie; e co' bei codici toscani da lui raccolti giovò non poco a perfezionare l'edizione del Vocabolario della Crusca, pubblicato nel 1691. Nella medicina, e nella storia naturale egli formò una specie di fortunata rivoluzione. Il suo nome perciò fa epoca nella Storia dell' italiana letteratura. Mori di mal caduco in Pisa nel 1698. È l'autore del famoso Ditirambo Bacco in Toscana. I suoi Sonetti nulla fanno sentire del cattivo gusto del
Donne gentili devote d'Amore, Che per la via de la pietà passate Soffermatevi un poco, e poi guardate, Se v'è dolor, che agguagli il mio dolore. De la mia Donna risedea nel core, Come in trono di gloria alta onestate; Ne le membra leggiadre ogni beltate, E ne' begli occhi angelico splendore: Santi costumi, e per virtù baldanza, Baldanza umíle, ed innocenza accorta, E fuor, che in ben oprar, nulla fidanza. Candida fe, che a ben amar conforta, Avea nel seno e ne la fe costanza: Donne gentili, questa Donna è morta.
Chi è costei, che tanto orgoglio mena, Tinta di rabbia, di dispetto e d'ira Che la speme in Amor dietro si tira E la bella pietà strette in catena? Chi è costei, che di furor sì piena Fulmini avventa, quando gli occhi gira, E ad ogni petto, che per lei sospira, Il sangue fa tremar dentro ogni vena? Chi è costei, che più crudel, che morte, Disprezzando ugualmente uomini, e Dei, Move guerra del Ciel fin sulle porte? Risponde il crudo Amor: Questa è colei, Che per tua dura inevitabil sorte, Eternamente idolatrar tu dei.
Ameno è 'l calle, e di bei fiori adorno, Che guida a l'antro del gran mago Amore: Spiranvi ognor soavità d'odore
Aurette fresche a più d'un fonte intorno.
Ma giunto appena a quel mortal soggiorno, O volontario, o traviato un core, E la noja vi trova ed il dolore, E colla noja e col dolor lo scorno.
Lamie, Strigi, Meduse, Arpie, Megere Se gli avventano al crine, e in sozzi modi Lo strazian sì, che forsennato ei pere;
E s'ei non pere, con incanti, e nodi Lo costringono a gir tra l'altre fiere Ne' boschi a ruminar l' empie lor frodi.
Milanese, Accademico della Crusca, tra gli Arcadi Nicio Meneladio, sostenne la cospicua carica di Segretario del Senato di Milano. Mort in patria ai 22. d'Aprile 1699. fu sepolto in S. Nazzaro. Veggasi la vita che ne scrisse il Muratori. E celebre più per le rime in dialetto milanese, che per le toscane.
« ÖncekiDevam » |