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Entro il sacro di Piero ampio soggiorno

E andò lambendo il sommo altare intorno. Or chi fra tante pellegrine trombe,

Cui cammina dinanzi il suon di morte,
Diemmi valor si forte,

Onde io regga in mia man la cetra e il canto?
Donde, se non da voi, celesti Muse,
Viemmi lo spirto invitto?

Anzi il vostro poter mi leva in parte
Ove non veggio il Re de' fiumi afflitto,
Nè le sue sponde insanguinate e sparte;
Non veggio i nembi, che distende Marte
Su i nostri dolci campi.

Solo avvien, che mia mente arda ed avvampi
Desïando spiegar la forza e l'ale

Di nuovo inno immortale,

Cui dell'aspre battaglie il suon non giunge, E de gli armati fiumi oltra le foci Intatte ei condurrà le sacre voci. Lo sdegno del gran Dio tra nubi infeste Qual asta folgorante arde e riluce, E di sua man ne adduce

Gli atroci giorni, e le stagion funeste. Già percossa la terra ha il braccio eterno E in suo furore accenna

Scuoter da i poli entro gli abissi il mondo; Pur, se dentro il profondo

Vortice de le cose il ver discerno

Quando diessi in governo

Tanta mole a Clemente e a sua virtute,
Dio rivolse il pensiero

Anco a gli anni di pace e di salute.
Morir non ponno i regni in man di lui;
Chè mentre egli negò trattare il freno
Di tanto impero, si turbâr le stelle,

Ed allor fu veduto

Quanto il Cielo s' oppose

al gran

rifiuto.

Regna Clemente, e vive Roma ancora,
Roma, sotto il cui piè poc' anzi il tuono,
E il turbine faceano aspra dimora.
Tratti dall'ira in guerra
Procellosi vapori alzar le fronti
Dal centro de la terra,

E scosso il fianco de' latini monti
Ondeggiar si vedean le reggie e i tempj;

E le gran moli antiche

Temean gli ultimi scempj.

Stava pensoso il Tebro

Paventando smarrir l'usato corso;

Ne sperando soccorso

Già si credea costretto

Per voragini cieche, e strade ignote
Gire al mar senza nome e senza lido.
L'aquila del Tarpeo, che a le remote
Nubi sovente trionfando corse,

Mal si fidava di trattar le penne,

Ancor tremando entro il suo nido augusto,
Tanto l'ordin del Mondo era deforme,
Mentre a la terra in grembo

Il turbine fremea, ruggiva il nembo.
La Reina del Lazio afflitta donna

Non i suoi Curzj in sul destriero armati
Ne a sua difesa i Fabj suoi chiedea ;
Ma in umil treccia e gonna
Senza gli onori usati

Squallida a pie del Vatican giacea;
Non i famosi figli in cor volgea,
Chè non temeva di terreno assalto,
Ma il vigor di colui, che i cieli scuote,
Che incurva i monti, inaridisce i mari,

Il profondo a gli abissi apre e percuote;
Che disperde i potenti,

E de le reggie loro in su l' arena
I cadaveri sparge ermi ed ignudi,
E fa d' ampie città lente paludi.
Roma, che non piegò l'animo altero
Nè a lunga età feroce,

Nè a stranio ferro atroce,

Sempre ne' casi suoi degna d'impero ;
Anco ne' suoi timori

Ebbe tanto di senno e di consiglio,
Che a te rivolse, o gran Clemente, il ciglio,
Nè altronde, che da te sperò salute
Su l'estremo periglio.

Tu, che presso il gran Dio cotanto puoi,
sorger desire,
E de la terra i già disciolti nodi

Festi novo nel Ciel

A tua preghiera ricongiunse il Fato,
E assicurò Natura

L'antiche basi a le romane mura.
Cercò il terror con la vicina immago
D'abissi e di ruine

Crollar l'alte e divine

Virtù, che nel tuo petto hanno soggiorno; Ne in tanto orror si scoloraro il volto

Indomita Costanza, invitta Fede,

Ma con sicuro piede

Calcaro ogni periglio, ogni spavento,
E fêr lor voci risuonare intorno

Che ancor su l'alma ragionare io sento.
Come vedrassi mai ( dicean ) sepolto
L'onor di Roma, nel cui seno il Cielo
Pose del regno suo l' alta ragione,
E pose insieme il suo Ministro e i suoi
Fedeli, e donde in noi

Tanta si sparse di timor cagione ?
Noi non possiam già mai

Temer per man di lui l'orribil scempio Qui dove ha il vero culto, e il maggior tempio. Che lungo il Po sacro Pastore inerme Potesse sostener l'aspetto irato

Del Re degli Unni armato,

E le voglie di lui rendere inferme,
Fu spettacolo illustre; ed è non meno
Veder te, nuovo successor di Piero,
Passar sovra il terror del suolo errante
Con non dubbiose piante,

E de' fati arrestar l'aspro pensiero.
Tanto può quella fede, almi Pastori,
Che in voi s' accese, e vie più bella splende
Per valor di quell' arte,
Ch'ambo dal Cielo aveste
Di dar luce alle carte!
E qual remota parte

Del Mondo oggi non sente il divin lume?
Varca per te, Clemente,

Estranie terre, e pellegrini mari,

E quinci a venerare i nostri altari
Il Sarmata gelato or move, e quindi
Giungono gli Etiópi, e vengon gl' Indi.
E l'alma Pace, che di monte in monte
Fuggi smarrita, e non trovò mai loco
Ne pur su i gioghi d'Appennin canuto;
Che da guerriero foco

Arder gli alberghi suoi tutti ha veduto;
Solo dal senno tuo provido ajuto
Ebbe dentro il tuo regno, ove le spade
Al bellicoso ardor tolte di mano
Di custodire i suoi riposi han cura,
E vie più gli assicura

La verace di te fama sublime,
Che l'universo imprime

Di riverenza e meraviglia insieme;
Onde sol le provincie a te soggette
Oggi commetter ponno

Nel comune terror le luci al sonno.
Anzi la Donna timida e fugace,

Che non trovò dove posare il piede,
Sotto il tuo sguardo or s'avvalora e crede
A la nemica sua spegner la face.
Sol per te spera l'animosa Pace
A la misera Europa

Dal proprio ferro lacerata e doma,
Fuor dell' elmo crudele

Trar l'onorata chioma;

E già il divino tuo novo intelletto
Addita ai Re guerrieri

De le placide cure il sacro aspetto,
E mostra loro il Cielo, ove gl' imperi
Paventar non son usi assalto o scherno
E il lor regnare è sovra gli anni eterno.
Oh se verrà l'aurea stagione amica
Ad occupare il corso ai giorni irati
E se vedrassi esiliar da i fati

La ragione dell'armi, empia nemica,
Vedremo allor di tua virtù fecondo
A le bell' opre antiche alzarsi il Mondo!
E se tanto potesti

In su gli anni funesti,

Che sarà poi nel dolce andar dell'ore
Su per sentier felici?

Accogli pur sotto i tuoi sacri auspicj
Con magnanima fronte i nostri carmi,
Che già non sono di lusinghe aspersi :

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