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SONETTO.

Re de gli altri superbo e sacro monte,
Ch' Italia tutta imperïoso parti,

E per mille contrade e più comparti
Le spalle il fianco e l'una e l'altra fronte.
Da le mie voglie mal per me sì pronte,
Vo risecando le non sane parti,

E raccogliendo i miei pensieri sparti
Sul lito, a cui vicin cadeo Fetonte,
Per appoggiarli al tuo sinistro corno,
Là dove bagna il bel Metauro, e dove
Valor e cortesia fanno soggiorno.
E s'a prego mortal Febo si move,

Tu sarai 'l mio Parnaso, e'l crine intorno
Ancor mi cingerai d' edere nove.

SONETT O.

Nè Tigre, sè vedendo orbata e sola,
Corre si lieve dietro al caro pegno,
Nè d'arco stral va sì veloce al segno,
Come la nostra vita al suo fin vola.
Ma poi, Gasparro mio, che pur s'invola
Talor a morte un pellegrino ingegno,
Fate sia contra lei vostro ritegno,
Quel, ch'Amor v' insegnò ne la sua scola,
Spiegando in rime nove antico foco,
E i doni di colei celesti e rari,

Che temprò con piacer le vostre doglie.
Talchè poi sempre ogni abitato loco
Parli d'ambi due voi, nè gli anni avari
Se ne portin giammai più, che le spoglio.

SONETTO.

Ben devria farvi onor d'eterno esempio
Napoli vostra, e 'n mezzo al suo bel monte
Scolpirvi in lieta e coronata fronte,
Gir trionfando, e dare i voti al tempio;
Poichè l'avete a l'orgoglioso ed empio
Stuolo ritolta, e pareggiate l'onte,

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Or ch' avea più la voglia e la man pronte A far d'Italia tutta acerbo scempio. Torcestel voi, Signor, dal corso ardito, E foste tal ch' ancora esser vorrebbe A por di qua da l' alpe nostra il piede. L'onda Tirrena del suo sangue crebbe, E di tronchi restò coperto il lito, E gli augelli ne fer sicure prede.

SONETTO.

O pria si cara al Ciel del mondo parte,
Che l'acqua cigne e 'l sasso orrido serra,
O lieta sovra ogni altra e dolce terra,
Che'l superbo Appennin segna e diparte:
Che giova omai, se'l buon popol di Marte,
Ti lasciò del mar donna e de la terra?
Le genti a te già serve or ti fan guerra,
E pongon man ne le tue treccie sparte.
Lasso nè manca de' tuo figli ancora

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Chi le più strane a te chiamando insieme
La spada sua nel tuo bel corpo adopre?
Or son queste simili a l'antiche opre?
O pur così pietate e Dio s' onora?
Ahi secol duro, ahi tralignato seme!

SONETT O.

Casa, in cui le virtuti han chiaro albergo, E pura fede e vera cortesía;

E lo stil, che di Arpin si dolce uscìa Risorge, e i dopo sorti lascia a tergo; S'io movo per lodarvi, e carte vergo, Presontuoso il mio pensier non sia; Che mentre e' viene a voi per tanta via, Nel vostro gran valor m' affino e tergo. E forse ancora un amoroso ingegno Ciò leggendo dirà: più felici alme Di queste il tempo lor certo non ebbe. Due Città senza pari e belle ed alme

Le dier al mondo, e Roma tenne e crebbe; Qual può coppia sperar destin più degno?

SONETTO.

Se già ne l' età mia più verde e calda
Offesi te ben mille e mille volte,
E le sue doti l'alma ardita e balda
Da te donate ha contra te rivolte;
Or che m'ha'l verno in fredda e bianca falda
Di neve il mento e queste chiome involte,
Mi dona, ond' io con piena fede e salda
Padre t'onori, e le tue voci ascolte.
Non membrar le mie colpe, e poi ch'a dietro
Tornar non ponno i mal passati tempi,
Reggi tu del cammin quel che m'avanza;
E si'l mio cor del tuo desio riempi,

Che quella, che 'n te sempre ebbi speranza,
Quantunque peccator, non sia di vetro.

Raccolta di Lirici.

3

VITTORIA COLONNA

Niuna cosa, dice Tiraboschi, ci fa mag giormente conoscere qual fosse il comune en tusiasmo in Italia per lo studio della volgar Poesia, quanto il vedere le più nobili dame rivolte a coltivarla con sommo ardore, di niuna cosa maggiormente pregiarsi quanto del ti tolo di poetesse. Fino dal 1559. il Domenichi pubblicò le Rime di ben cinquanta poetesse. Nessuna però ottenne maggiori lodi, quanto Vittoria Colonna, celebre per le doti del volto non solo, ma dell' animo ancora. Fu figlia di Fabrizio Colonna gran Contestabile del regno di Napoli, e di Anna di Montefeltro figlia di Federigo Duca di Urbino, e nacque in Marino feudo della sua famiglia circa il 1490. Sino dall'età di soli quattro anni fu destinata sposa a Ferdinando d'Avalos Marchese di Pescara, cui dopo le nozze amò teneramente. Morto lo sposo per le ferite avute nella battaglia di Pa via del 1525. cercò ella indarno un soave sfogo nella poesia. Passò quindi al ritiro in un monastero d'Orvieto, e poi in quello di S. Ca terina in Viterbo. Ritornata in Roma morì quivi nel 1547. Nella sua solitudine coltivò le muse sacre, e fu in onorevole commercio co' più dotti personaggi. Vedine la vita premessa alle Rime di lei, Bergamo 1760.

SONETT O.

Ahi quanto fu al mio Sol contrario il fato,
Che con l'alta virtù de i raggi suoi
Pria non v' accese! chè mill' anni e poi
Voi sareste più chiaro, ei più lodato.
Il nome suo col vostro stile ornato,
Che fa scorno agli antichi, invidia a noi,
A mal grado del tempo avreste voi
Dal secondo morir sempre guardato.
Potessi i' almen mandar nel vostro petto
L'ardor, ch'io sento, o voi nel mio l'ingegno
Per far la rima a quel gran morto eguale;
Chè così temo il Ciel non prenda a sdegno
Voi, perchè avete preso altro soggetto,
Me, ch' ardisco parlar d' un lume tale.

SONETTO.

Qui fece il mio bel Sole a noi ritorno
Di regie spoglie carco e ricche prede:
Ahi con quanto dolor l'occhio rivede
Quei lochi, ov'ei mi fea già chiaro il giorno!
Di mille glorie allor cinto d' intorno,
E d'onor vero a la più altera sede,
Facean de l'opre udite intera fede,
L'ardito volto, il parlar saggio adorno.
Vinto da' preghi miei poi mi mostrava
Le belle cicatrici, e'l tempo e 'l modo
De le vittorie sue tante e sì chiare.

Quanta pena or mi dà, gioja mi dava,
E 'n questo e'n quel pensier piangendo godo,
Tra poche dolci e assai lagrime amare.

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