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E sanguinosa nube il Sol coperse :
E dier tristi portenti,

Segno d'orribil strage e di tormenti.
La tua Città dolente,

Allor, ch' in picciol vaso

Chiuse il tesor del Cielo e la beltate

Dicea: Qui giaccion spente

(O miserabil caso!)

Virtù, senno, modestia ed onestate.
Dunque si lunga etate,

O fiera o cruda morte,
Concedi a la Cornice;

Ed alla mia Fenice,

Tanto leggiadra, hai dato ore si corte?
Almen quest' anni miei,

Che fian brevi, locati avessi in lei.
Crudel, quelle amorose

Dolci parole umane,

Quei prieghi, quelle lagrime, e quel viso, Ch' avrian fatto pietose

Le Tigri orride, ircane,

Come non t'hanno (oimè) vinto e conquiso? Tutti i mortali anciso

Hai tu con un sol colpo,

E in duo lumi celesti

Gli uman nostri chiudesti.

Ma più, che te, Natura e 'l Cielo incolpo,

Che fan sì perfett' opra,

Perchè vil terra la nasconda e copra. Nulla più (o Ciel ) ne cale

Del tuo vago e sereno,

Non più splendono a noi stelle nè Sole.
Natura, che ne vale

Veder pinto il terreno

Di gigli, d' amaranti e di viole,

Se l'alme luci e sole
Mirar più non ne lice,

Ch' avean tant' alme accese,
A gloriose imprese,

Ond' era più che mai Roma felice,
Ed al suo primo onore

Salía, scorta da tanto e tal splendore?
O poverella mia, statti piangendo

In questo orrido speco,

Che ne verran de l'altre a pianger teco.

ERASMO DI VALVASONE

Nacque da nobilissima famiglia del Friu li. Di lui parla a lungo Giangiuseppe Liruti (Notizie de' Letter. del Friuli T. II. p. 383. ) Visse privatamente e tutto rivolto agli studj. Mori nel suo castello di Valvasone nel 1593. Scrisse la Caccia, le Lagrime di Santa Maria Maddalena, Angeleida, ed altri poemetti; e tradusse in ottava rima la Tebaide di Stazio.

SONET TO

Leva l'irsuto spoglio al Leon vinto
Ercole, e tronca i capi a l' Idra ria :
Prende il Cinghial, che corse Arcadia pria:
Svelle l' aurate corna al Cervo estinto
Fur gli Augei di Scinfalo il sudor quinto:
Nel sesto contra al gran Toro s'invia:
Purga l'immonde stalle indi d'Augia:
Poi toglie a Menalippe il ricco cinto:
Tre vite estingue a Gerïon triforme:
Doma i crudi destrier di Diomede:
Tragge Cerbero al vivo aer sereno :

Spegne al fine il Dragon, che mai non dorme:
E poi vinto ei d'una fanciulla in seno
Tutti i trionfi suoi depone e cede.

GIOVANNI DELLA CASA

Nacque nel 1538. da Pandolfo della Casa, e Lisabetta Tornabuoni, amendue di nobile schiatta Fiorentina, non si sa precisamente dove. Cominciò i suoi studj in Bologna, e li condusse a fine in Roma, Nel 1540. fu ascritto all'Accademia Fiorentina allora istituita. Nel 1544. fu promosso all' arcivescovado di Benevento, ed inviato a Venezia, dove pure ritirossi dopo la morte di Paolo III., per non aver trovato a se favorevole il successore Giulio III. Ritornò tuttavia a Roma nel pontificato di Paolo IV. da cui fu anzi eletto Segretario di Stato. La morte, che lo rapt in età di soli 53. anni nel 1556. lo privò della nomina di Cardinale. Parini lo chiama uno de' principi Scrittori della lingua, anzi il migliore di tutti dopo il Boccaccio; e quegli che senza lasciar d'esser nobile e grave s'accosta forse più d'ogn' altro del suo secolo alla forma del dire semplice e naturale, che si ama nel nostro. Nella lirica egli aprì quasi una nuova scuola, essendosi allontanato dalla maniera petrarchesca, V. le notizie scritte dal C. Giam battista Casotti, e premesse all' edizione de' Classici. Casa Vol. I.

SONETT O.

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Cura, che di timor ti nutri e cresci,
E più temendo maggior forza acquisti ;
E mentre colla fiamma il gelo mesci
Tutto 'l regno d'Amor turbi e contristi;
Poi che'n brev'ora entr' al mio dolce hai misti
Tutti gli amari tuoi, del mio cor esci;
Torna a Cocito, a i lagrimosi e tristi
Campi d'Inferno; ivi a te stessa incresci.
Ivi senza riposo i giorni mena,

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Senza sonno le notti; ivi ti duoli

Non men di dubbia, che di certa pena.
Vattene a che più fiera, che non suoli
Se 'l tuo venen m' è corso in ogni vena,
Con nuove larve a me ritorni e voli?

SONETT O.

O sonno, o de la queta, umida, ombrosa
Notte placido figlio; o de' mortali
Egri conforto, obblio dolce de' mali

Sì gravi, ond' è la vita, aspra e nojosa;
Soccorri al core omai, che langue, e posa
Non ave; e queste membra stanche e frali
Solleva a me ten vola, o sonno, e l'ali
Tue brune sovra me distendi e posa.
Ov'è'l silenzio, che'l dì fugge, e 'l lume?.
E i lievi sogni, che con non secure
Vestigie di seguirti han per costume ?
Lasso; che in van te chiamo e queste oscure,
E gelide ombre in van lusingo. O piume'

D'

asprezza colme! O notti acerbe è dure!

SONETTO.

Questa vita mortal, che 'n una e 'n due
Brevi e notturne ore trapassa, oscura
E fredda, involto avea fin qui la pura
Parte di me ne l'atre nubi ́sue.
Or a mirar le grazie tante tue

Prendo, che frutti e fior, gielo ed arsura,
E si dolce del Ciel legge e misura,
Eterno Dio, tuo magisterio fue.
Anzi'l dolce aer puro, e questa luce
Chiara, che'l Mondo agli occhi nostri scopre,
Traesti tu d'abissi oscuri e misti:

E tutto quel, che 'n terra o'n Ciel riluce,
Di tenebre era chiuso, e tu l'apristi,
E'l giorno e 'l Sol de le tue man sono opre.

SONETT O.

Questi palazzi e queste logge or colte
D' ostro, di marmo e di figure elette,
Fur poche e basse case insieme accolte,
Deserti lidi e povere isolette.

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Ma genti ardite, d'ogni vizio sciolte
Premeano il Mar con picciole barchette,
Che qui non per domar provincie molte,
Ma fuggir servitù s' eran ristrette.
Non era ambizion ne' petti loro,

Ma 'l mentire abborrian più, che la morte,
Ne vi regnava ingorda fame d'oro.
Se 'l Ciel v' ha dato più beata sorte,
Non sien quelle virtù, che tanto onoro,
Da le nove ricchezze oppresse e morte.

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