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CANZON E.

Errai gran tempo, e del cammino incerto
Misero peregrin, molti anni andai

Con dubbio piè, sentier cangiando spesso;
Nè posa seppi ritrovar già mai

Per piano calle, o per alpestro ed erto,
Terra cercando, e mar lungi e ď appresso:
Tal che'n ira e'n dispregio ebbi me stesso,
E tutti i miei pensier mi spiacquer poi,
Ch'io non potea trovar scorta o consiglio.
Ahi! cieco Mondo, or veggio i frutti tuoi
Come in tutto dal fior nascon diversi.
Pietosa istoria a dir quel ch' io soffersi,
In così lungo esiglio,

Peregrinando fora;

Non già, ch' io scorga il dolce albergo ancora,
Ma 'l mio santo Signor con novo raggio
La via mi mostra, e mia colpa è s'io caggio.
Nova mi nacque in prima al cor vaghezza,
Si dolce al gusto in su l' età fiorita

Che tosto ogni mio senso ebro ne fue,
E non si cerca o libertate o vita,

O s'altro più di queste Uom saggio prezza,
Con si fatto desio, com' i' le tue

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Dolcezze, Amor, cercava, ed or di due
Begli occhi un guardo,

guardo, or d'una bianca mano
Seguía le nevi; e se due treccie d'oro
Sotto un bel velo fiammeggiar lontano,
O se talor di giovinetta donna
Candido piè scoprío leggiadra gonna;
Or ne sospiro e ploro)

Corsi, com' augel suole,

Che d'alto scenda, ed a suo cibo vole.

E

Tal fur, lasso, le vie de' pensier miei
Ne' primi tempi, e cammin torto fei.
per far anco il mio pentir più amaro,
Spesso piangendo, altrui termine chiesi
De le mie care e volontarie pene;
E in dolci modi lagrimare appresi,
E un cor piegando di pietate avaro
Vegghiai le notti gelide, serene;

E talor fu, ch'io 'l torsi, e ben conviene
Or penitenza, e duol l' anima lave

De' color atri, e del terrestre limo

Ond' ella è per mia colpa infusa e grave: Che se'l Ciel me la die candida e leve, Terrena

e fosca a lui salir non deve.

Nè può, s'io dritto estimo,

Ne le sue prime forme

Tornar già mai, che pria non segni l'orme Pietà superna nel cammin verace,

E la tragga di guerra, e ponga in pace. Quel vero Amor dunque mi guidi e scorga, Che di nulla degnò si nobil farmi;

Poi per se

se'l cor pure a sinistra volge, Ne l'altrui puo', nè 'l mio consiglio aitarmi; Si tutto quel, che luce a l'alma porga, Il desir cieco in tenebre rivolge.

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Come scotendo pure al fin si volge
Stanca talor fera da i lacci, e fugge;
Tal io da lui, ch' al suo venen mi colse
Con la dolce esca, ond' ei pascendo strugge,
Tardo partimmi e lasso, a lento volo;
Indi cantando il mio passato duolo,
In se l'alma s'accolse;

E di desir novo arse,

Gredendo assai da terra alto levarse:

Ond' io vidi Elicona, e i sacri poggi Salii, dove rado orma è segnata oggi. Qual peregrin, se rimembranza il punge Di sua dolce magion, talor s'invia Ratto per selva, e per alpestri monti; Tal men giv' io per la non piana via, Seguendo pur alcun, ch' io scorsi lunge, E fur tra noi cantando illustri e conti : Erano i piè men del desir mio pronti, Ond' io del sonno e del riposo l'ore Dolci scemando, parte aggiunsi al die De le mie notti, anco in quest'altro errore, Per appressar quella onorata schiera; Ma poco alto salir concesso m'era Sublimi elette vie,

Onde 'l mio buon vicino

Lungo Permesso feo novo cammino.

Deh come seguir voi miei piè fur vaghi,
Nè par, ch' altrove ancor l'alma s'appaghi!
Ma volse il pensier mio folle credenza
A seguir poi falsa d'onore insegna

E bramai farmi a i buon di fuor simile;
Come non sia valor, s' altri nol segna
Di gemme e d'ostro; o come virtù, senza
Alcun fregio, per se sia manca e vile.
Quanto piansi io, dolce mio stato umile,
I tuoi riposi, e i tuoi sereni giorni

Volti in notti atre e rie, poich'io m'accorsi,
Che gloria promettendo, angoscie e scorni
Dà il Mondo; e vedi quai pensieri ed opre
Di letizia talor veste, o ricopre.

Ecco le vie, ch' io corsi,

Distorte: or vinto e stanco,

Poichè varia ho la chioma, infermo il fianco,

Volgo, quantunque pigro, indietro i passi; Che per quei sentier primi a morte vassi. Picciola fiamma assai lunge riluce,

Canzon mia mesta; ed anco alcuna volta
Angusto calle a nobil terra adduce.
Che sai, se quel

se quel pensiero infermo e lento Ch'io mover dentro a l'alma afflitta sento Ancor potrà la folta

Nebbia cacciare, ond' io

In tenebre finito ho il corso mio,

E per secura via, se 'l Ciel l'affida,

Si com' io spero, esser mia luce e guida?

BARTOL. CARLI DE' PICCOLÒMINI.

Dalla Racc. de' Sonetti d'Accademici Sanesi del Santi.

SONETTO.

O sacro Tebro, che turbato il volto,
De gli eccelsi tuoi colli bagni il piede,
Mirando pur le rovinose prede,

Ch'ha fatto il tempo, e 'l ferro audace e stolto;
Alza la testa, e 'l crin da' giunchi sciolto
Leva da gli occhi, e mira il Sol, che riede
Con disusata luce a farti fede,

Com'è 'l Ciel tutto ad arricchirti volto. Quello antico valor, quell' alta gloria Risorger viva in poca ora vedrai

Da le ceneri sue come fenice.

A le fugaci penne la vittoria

Fermerà 'l corso in questo nido, e avrai
Il tuo Cesare primo, e più felice.

BERNARDINO ROTA

Napoletano ancor tenero giovanetto produsse eleganti componimenti si nella latina che nell' italiana favella. È il migliore de' seguaci di Petrarca, a di cui imitazione pianse a lungo la morte di Porzia Capece sua consorte. Fu inventore delle Egloghe Pescatorie. Mori in Napoli compianto dai buoni, e dai letterati nel 1575. d' anni 66.

SONETTO

Parte dal suo natío povero tetto,
Da pure voglie accompagnato intorno,
Contadin rozzo, e giunge a bel soggiorno
Da chiari pregi a gran diporto eletto.

Ivi ha tal meraviglia, e tal diletto,
Scorgendo di ricch' opre il loco adorno;
Che gli occhi e'l piè non move, e noja e scorne
Prende del dianzi suo caro alberghetto.

Tal avvien al pensier, se la bassezza
Del mendico mio stil lascia, e ne viene
Del vostro a contemplar l'alta ricchezza,

Casa, vera magion del primo bene:

In cui per albergar Febo disprezza
Lo Ciel', non che Parnaso, ed Ippocrene.

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