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POESIA LIRICA DEGLI ITALIANI.

CAE ad imitazione de' Provenzali i Siciliani primieramente e gli altri abitatori d'Italia in appresso abbiano preso a coltivare la poesia lirica è opinion comune degli scrittori moderni di storia letteraria, e fu anche nel sedicesimo secolo del Cardinal Bembo; il quale nel libro primo delle sue Prose, dopo aver detto che di ciò erano in piato due nazioni la Siciliana e la Provenzale, così continua il suo ragionamento: "Tuttavolta de' Siciliani poco altro testimonio " ci ha che a noi rimasto sia se non il grido; "chè poeti antichi, checchè se ne sia la cagio"ne, essi non possono gran fatto mostrarci,

se non sono cotali cose sciocche e di niun » prezzo, che oggimai poco si leggono.

Nè diversa da quella del Bembo fu l'opinion del Petrarca, il quale nel capo IV del Trionfo d'Amore già disse:

Ecco i due Guidi, che già furo in prezzo,
Onesto Bolognese e i Siciliani,

Che fur già primi, e quivi eran da sezzo.
Una delle più antiche poesie de' Siciliani si

legge nella Raccolta di Leone Allacci intitolata Poeti antichi raccolti dai codici manoscritti della biblioteca Vaticana e Barberina; ed è una canzone di un cotal Ciullo d'Alcamo, castello della Sicilia vicino a Palermo; il qual Ciullo fiori verso la fine del secolo dodicesimo. Eccone la prima stanza giusta la distribuzion de' versi fattane dal Crescimbeni:

Rosa fresca aulentissima

Ca pari in ver 1 estate
Le donne te desiano
Pulcelle maritate

Traheme deste focora

Se teste a bolontate

Per te non aio abento nocte e dia Penzando pur di voi Madonna mia.. Nella prima metà del tredicesimo secolo fra molti altri rimatori di minor conto si distinse volgarmente poetando anche il celebre Pier delle Vigne Padovano, maestro e poi cancelliere di Federico II Imperatore.

" Ma ne' primi anni della poesia volgare (dice il Crescimbeni) altro stile non v'era che umile e popolare, perchè ella ad altro non serviva che agl' innamorati giovani "per far cosa grata alle lor donne ; il che si "vede manifestamente nella cantilena di Ciullo

d'Alcamo, e sebbene talvolta si parlava in

" versi anche di cosa serià, nondimeno, dove "il soggetto non inclinava all'umiltà, vel ti" rava a forza l'infanzia non men della poe" sia che della lingua. Guido Guinizzelli fu " il primo che incominciasse a nobilitarla, "perchè per le sue rime, quantunque an

ch'esse amorose, andò spargendo di bei » sentimenti, massimamente Platonici, e però "da Dante ebbe il titolo di massimo.

A questo giudizio del Crescimbeni soscrissero il Muratori ed il Quadrio; e quindi il primo saggio ch'io darò della lirica Italiana consisterà in alcune rime di quest' antico poeta; il qual fu da Dante appellato suo padre, e di tutti gli altri poeti de' tempi suoi con questi versi del canto XXVI. del Purgatorio.

Quand'io udii nomar sè stesso il padre Mio e degli altri miei miglior, che mai Rime d'amor usar dolci e leggiadre. Egli fiori dopo la metà del tredicesimo secolo, e mori (come afferma il Conte Fantuzzi negli Scrittori Bolognesi) nell'anno 1276.

GUIDO GUINIZZELLI.

Lo vostro bel saluto e gentil guardo,
Che fate quando v'incontro, m'ancide.
Amor m'assale, e già non ha riguardo
Se li fate peccato, ovver mercide,

Che per mezzo lo cor mi lancia un dardo,
Ched oltre in parti lo taglia e divide.
Parlar non posso che in gran pena io ardo
Siccome quello che sua morte vidé. ̈
Per gli occhi passa come fa lo taono,
Che fer per la finestra de la torre,
E ciò che dentro trova spezza e fende.
Rimango come statua d'ottono,

Ove vita nè spirto non ricorre,
Se non che la figura d'uomo rende.

II.

Qual uomo è in su la rota per ventura
Non si rallegri perchè sia innalzato ;
Chè quando più si mostra chiara e pura,
Allor si gira, ed hallo disbassato.

E nullo prato ha sì fresca verdura,
Che li suoi fiori non cangino stato:
E questo saccio, che avvien per natura;
Più grave cade chi più è montato.
Non si dee uomo troppo rallegrare
Di gran grandezza, nè tenere spene:
Ch' egli è gran doglia allegrezza fallire.
Anzi si debbe molto nmiliare,

Non far soperchio, perchè aggia gran bene
Chè ogni monte a valle dee venire.

-Darò per terzo saggio alcuni versi d'una sua canzone, ne' quali con una nobile sempli cità gli affanni amorosi son paragonati ad una tempesta di mare:

Nave, ch'esse di poto

Con vento dolce e piano,
Per mar giugne in altura,
Poi vien lo tempo torto;
Tempesta e grande affano
Le adduce la ventura.
Allor si sforza molto,
Come possa campare,
Che non perisca in mare.
Così l' Amor m'ha colto,
E di buon loco tolto,
E messo in tempestare.
Madonna udito ho dire,
Che in aer nasce un foco
Al rincontrar de' venti.
Se non more in venire

In nuviloso loco
Arde immantinenti:
Così le nostre voglie,
Desiderando gioco,
Per contrario s' accoglie;

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