E tale allor che l'orba Itaca in vanó Chiedea a Nettun la prole di Laerte, Femio s'udía co' versi e con la cetra La facil mensa rallegrar de' Proci, Cui dell'errante Ulisse i pingui agnelli E i petrosi licori e la consorte Invitavano al pranzo. Amici or piega, Giovin Signore, al mio cantar gli orecchi, Or che tra nuove Elise e novi Proci, E tra fedeli ancor Penelopée, Ti guidano a la mensa i versi miei. [do,
Già dal meriggio ardente il Sol fuggen- Verge all'occaso; e i piccioli mortali, Dominati dal tempo, escon di novo A popolar le vie ch'all' oriente Volgon ombra già grande. A te null' altro Dominator, fuor che te stesso, è dato.
Al fin di consigliarsi al fido speglio La tua Dama cessó. Quante uopo è volte Chiedette e rimandò novelli ornati; Quante convien, de le agitate ognora Damigelle or con vezzi, or con garriti Rovescio la fortuna ; a sè medesma, [que; Quante volte convien, piacque e dispiacE, quante volte è d'uopo, a sè ragione Fece e a' suoi lodatori. I mille intorno Dispersi arnesi al fin raccolse in uno La consapevol del suo cor ministra ; Al fin velata d'un leggier zendado È l'ara tutelar di sua beltate; E la seggiola sacra un po' rimossa, Languidetta l'accoglie. Intorno ad essa Pochi giovani eroi van rimembrando I cari lacci altrui ; mentre da lungi, A altra intorno, i cari lacci vostri Pochi giovani eroi van rimembrando.
Il marito gentil queto sorride
A le lor celie; o s'ei si cruccia alquanto, Del tuo lungo tardar solo si cruccia. Nulla però di lui cura te prenda Oggi, o Signore; e s'egli a par del vulgo Prostrò l'anima imbelle, e non sdegnosse Di chiamarsi marito, a par del vulgo Senta la fame esercitargl' in petto Lo stimol fier de gli oziosi sughi, Avidi d'esca; o s'a un marito alcuna D'anima generosa orma rimane, Ad altra mensa il piè rivolga; e d'altra Dama al fianco s'assida, il cui marito Pranzi altrove lontan, d'un'altra a lato, Ch' abbia lungi lo sposo e così nuove Anella intrecci a la catena immensa, Onde, alternando, Amor l'anime annoda. Ma, sia che vuol, tu baldanzoso innoltra Ne le stanze più interne. Ecco, precorre Per annunciarti al gabinetto estremo Il noto stropiccio de' piedi tuoi. Già lo sposo t'incontra. In un baleno Sfugge dall' altrui man l'accorta mano De la tua Dama; e il suo bel labbro intanto T'apparecchia un sorriso. Ognun s'ar- retra;
Chè conosce i tuoi dritti ; e si conforta Con le adulte speranze, a té lasciando Libero e scarco il più beato seggio. Tal colà, dove infra gelose mura Bizanzio ed Ispaán guardano il fiore De la beltà, che il popolato Egéo Manda e l'Armeno e il Tartaro e il Circasso Per delizia d'un solo, a bear entra L'ardente sposa il grave Munsulmano. Tra 'l maestoso passeggiar gli ondeggiano Le late spalle, e sopra l'alta testa Le avvolte fasce; dell' arcato ciglio Ei volge intorno imperioso il guardo; E vede al su' apparire umil chinarsi, E il piè ritrar l' effeminata, occhiuta Turba, che sorridendo egli dispregia.
Ora imponi, o Signor, che tutte a schiera Si dispongan tue grazie ; e a la tua Dama, Quanto elegante esser più puoi, ti mostra. Tengasi al fianco la sinistra mano Sotto il breve giubbon celata ; e l'altra Sul finissimo lin posi, e s'asconda Vicino al cor; sublime alzisi 'l petto; Sorgan gli omeri entrambi, e verso lei Piega il duttile collo; a i lati stringi Le labbra un poco; ver lo mezzo acute Rendile alquanto; e da la bocca poi, Compendiata in guisa tal, se n'esca
Un non inteso mormorío. La destra Ella intanto ti porga, e molle caschi Sopra i tiepidi avorii un doppio bacio. Siedi tu poscia; e d'una man trascina Più presso a lei la seggioletta. Ognuno Tacciasi; ma tu sol curvato alquanto, Seco susurra ignoti detti, a cui Concordin vicendevoli sorrisi, E sfavillar di cupidette luci,
Che amor dimostri, o che lo finga almeno. Marimembra, o Signor, che troppo nuo- Ne gli amorosi cor lunga e ostinata [ce Tranquillità. Sull'oceano ancora Perigliosa è la calma: oh quante volte Dall'immobile prora il buon nocchiere Invocó la tempesta e sì crudele Soccorso ancor gli fu negato; e giacque Affamato, assetato, estenuato,
Dal velenoso aere stagnante oppresso, Tra l'inutile ciurma al suol languendo. Però ti giovi de la scorsa notte Ricordar le vicende, e con obliqui Motti pungerl' alquanto: o se, nel volto Paga più che non suole, accor fu vista Il novello straniere, e co' bei labbri Semiaperti aspettar, quasi marina Conca, la soavissima rugiada
De' novi accenti; o se cupida troppo Col guardo accompagnò di loggia in loggia Il seguace di Marte, idol vegliante De' femminili voti, a la cui chioma Col lauro trionfal s' avvolgon mille E mille frondi dell' Idalio mirto.
Colpevole o innocente, allor la bella Dama improvviso adombrerà la fronte D'un nuvoletto di verace sdegno O simulato; e la nevosa spalla Scoterà un poco; e premerà col dente L'infimo labbro; e volgeransi al fine Gli altri a bear le sue parole estreme. Fors' anco rintuzzar di tue querele Saprà l'agrezza; e sovvenir faratti Le visite furtive a i tetti, a i cocchi Ed a le logge de le mogli illustri Di ricchi cittadini, a cui sovente, Per calle, che il piacer mostra, piegarsi La maesta di cavalier non sdegna.
Felice te, se mesta e disdegnosa La conduci a la mensa, e s'ivi puoi Solo piegarla a comportar de' cibi La nausea universal! Sorridan pure A le vostre dolcissime querele I convitati, e l'un l'altro percota Col gomito maligno: ah, nondimeno,
Come fremon lor alme; e quanta invidia Ti portan, te veggendo unico scopo Di si bell' ire! Al solo sposo è dato Nodrir nel cor magnanima quiete; Mostrar nel volto ingenuo riso, e tanto Docil fidanza ne le innocue luci.
Oh tre fiate avventurosi e quattro, Voi del nostro buon secolo mariti, Quanto diversi da' vostr' avi! Un tempo Uscia d'Averno con viperei crini, Con torbid' occhi irrequieti, e fredde Tenaci branche un indomabil mostro, Che ansando e anelando intorno giva A i nuziali letti, e tutto empica Di sospetto e di fremito e di sangue. Allor gli antri domestici, le selve, L'onde, le rupi alto ulular s'udiéno Di femminili strida; allor le belle Dame, con mani incrocicchiate e luci Pavide al ciel, tremando, lagrimando, Tra la pompa feral de le lugúbri Sale, vedean dal truce sposo offrirsi Le tazze attossicate o i nudi stili. Ahi pazza Italia! Il tuo furor medesmo Oltre l'alpi, oltre 'l mar destò le risa Presso a gli emoli tuoi, che di gelosa Titol ti diero; e t'è serbato ancora Ingiustamente. Non di cieco amore Vicendevol desire, alterno impulso; Non di costume simiglianza or guida Gl'incauti sposi al talamo bramato; Ma la Prudenza co i canuti padri Siede, librando il molt' oro e i divini Antiquissimi sangui e allor che l'uno Bene all' altro risponde, ecco Imenéo Scoter sua face, e unirsi al freddo sposo, Di lui non già, ma de le nozze amante, La freddissima vergine, che in core Già volge i riti del Bel Mondo, e lieta L'indifferenza maritale affronta. Così non fien de la crudel Megera Più temuti gli sdegni. Oltre Pirene Contenda or pur le desïate porte A i gravi amanti, e di feminee risse Turbi Oriente. Italia oggi si ride Di quello, ond' era già derisa : tanto Puote una sola età volger le menti!
Ma già rimbomba d'una in altra sala Il tuo nome, o Signor; di già l'udiro L'ime officine, ove al volubil tatto Degl' ingenui palati arduo s'appresta Solletico, che molle i nervi scota,
E varia seco voluttà conduca Fino al core dell' alma. In bianche spoglie
S'affrettano a compir la nobil opra Prodi ministri; e lor sue leggi detta Una gran mente, del paese uscita, Ove Colbert e Richelieu fur chiari. Forse con tanta maestade in fronte Presso a le navi, ond' Ilio arse e cadéo, Per gli ospiti famosi il grande Achille Disegnava la cena: e seco intanto Le vivande cocean su i lenti fochi Pátroclo fido, e il guidator di carri Automedonte. O tu, sagace mastro Di lusinghe al palato, udrai fra poco Sonar le lodi tue dall' alta mensa. Chi fia che ardisca di trovar pur macchia Nel tuo lavoro? Il tuo Signor farassi Campion de le tue glorie : e male a quanti Cercator di conviti oseran motto Pronunciar contro te! che sul cocente Meriggio andran peregrinando poi Miseri e stanchi, e non avran cui piaccia Più popolar con le lor bocche i pranzi.
Imbandita è la mensa. In piè d'un salto Alzati, e porgi, almo Signor, la mano A la tua Dama; e lei, dolce cadente Sopra di te, col tuo valor sostieni; E al pranzo l'accompagna. I convitati Vengan dopo di voi; quindi 'l marito Ultimo segua. O prole alta di numi, Non vergognate di donar voi anco Pochi momenti al cibo: in voi non fia Vil opra il pasto; a quei soltanto è vile, Che il duro, irresistibile bisogno Stimola e caccia. All' impeto di quello Cedan l'orso, la tigre, il falco, il nibbio, L'orca, il delfino, e quant' altri mortali Vivon quaggiù; ma voi con rosee labbra La sola Voluttade inviti al pasto; La sola Voluttà, che le celesti Mense imbandisce, e al néttare convita I viventi per sè Dei sempiterni.
Forse vero non è; ma un giorno, è fama, Che fur gli uomini eguali, e ignoti nomi Fur Plebe e Nobiltade. Al cibo, al bere, All'accoppiarsi d' ambo i sessi, al sonno Un istinto medesmo, un' egual forza Sospingeva gli umani; e niun consiglio, Niuna scelta d'obbietti o lochi o tempi Era lor conceduta. A un rivo stesso, A un medesimo frutto, a una stess' ombra Convenivano insieme i primi padri Del tuo sangue, o Signore, e i primi padri De la plebe spregiata. I medesm' antri, Il medesimo suolo offrieno loro Il riposo e l'albergo, e a le lor membra
I medesmi animai le irsute vesti. Sol' una cura a tutti era comune, Di sfuggire il dolore; e ignota cosa Era il desire a gli uman petti ancora.
L'uniforme de gli uomini sembianza Spiacque a' Celesti; e a varïar la Terra Fu spedito il Piacer. Quale già i numi D'Ilio su i campi; tal l'amico Genio, Lieve lieve per l' aëre labendo, S'avvicina a la Terra; e questa ride Di riso ancor non conosciuto. Ei move; E l'aura estiva del cadente rivo E de i clivi odorosi a lui blandisce Le vaghe membra, e lenemente sdrucciola Sul tondeggiar de i muscoli gentile. Gli s'aggiran dintorno i Vezzi e i Giochi ; E, come ambrosia, le lusinghe scorrongli Da le fraghe del labbro; e da le luci Socchiuse, languidette, umide fuori Di tremulo fulgore escon scintille, Ond'arde l'aere, che, scendendo, ei varca.
Al fin sul dorso tuo sentisti, o Terra, Sua prim' orma stamparsi ; e tosto un lento Fremere soavissimo si sparse
Di cosa in cosa; e ognor crescendo, tutte Diatura le viscere commosse; Come nell' arsa state il tuono s'ode, Che di lontano mormorando viene, E col profondo suon di monte in monte Sorge e la valle e la foresta intorno Muggon del fragoroso alto rimbombo; Finchè poi cade la feconda pioggia, Che gli uomini e le fere e i fiori e l'erbe Ravviva, riconforta, allegra e abbella.
Oh beati tra gli altri, oh cari al cielo Viventi, a cui con miglior man Titáno Formo gli organi illustri, e meglio têse, E di fluido agilissimo inondolli! Voi l'ignoto solletico sentiste Del celeste motore. In voi ben tosto Le voglie fermentar, nacque il desío. Voi primieri scopriste il buono, il meglio; E con foga dolcissima correste A possederli. Allor quel de' due sessi, Che necessario in prima era soltanto, D'amabile e di bello il nome ottenne. Al giudizio di Paride voi deste Il primo esempio: tra feminei volti A distinguer s'apprese; e voi sentiste Primamente le grazie. A voi tra mille Sapor fur noti i più soavi. Allora Fuil vin preposto all' onda; e il vins' elesse Figlio de' tralci più riarsi, e posti A più fervido Sol ne' più sublimi
Colli, dove più zolfo il suolo impingua. Così l'uom si divise e fu il Signore Da i volgari distinto, a cui nel seno Troppo languir l'ebeti fibre, inette A rimbalzar sotto i soavi colpi De la nova cagione, onde fur tocche; E quasi bovi, al suol curvati, ancora Dinanzi al pungol del bisogno andaro; E tra la servitute e la viltade
E'l travaglio e l'inopia a viver nati, Ebber nome di Plebe. Or tu, Signore, Che feltrato per mille invitte reni Sangue racchiudi, poi che in altra etade Arte, forza o fortuna i padri tuoi Grandi rendette; poi che il tempo al fine Lor divisi tesori in te raccolse: Del tuo senso gioisci, a te da i numi Concessa parte e l'umil vulgo intanto, Dell' industria donato, ora ministri A te i piaceri tuoi, nato a recarli Su la mensa real, non a gioirne.
Ecco, la Dama tua s' asside al deseo : Tula man le abbandona ; e mentreil servo, La seggiola avanzando, all'agil fianco La sottopon, sì che lontana troppo Ella non sia, nè da vicin col petto Prema troppo la mensa : un picciol salto Spicca, e chino raccogli a lei del lembo Il diffuso volume. A lato poscia Di lei tu siedi: a cavalier gentile Il fianco abbandonar de la sua.Dama Non fia lecito mai, se già non sorge Strana cagione a meritar, ch'egli usi Tanta licenza. Un Nume ebber gli antichi, Immobil sempre, e ch'a lo stesso padre De gli Dei non cedette, allor ch' ei venne Il Campidoglio ad abitar, sebbene E Giuno e Febo e Venere e Gradivo E tutti gli altri Dei da le lor sedi, Per riverenza del Tonante, usciro.
Indistinto ad ognaltro il loco sia Presso al nobile desco; e s'alcun arde Ambizioso di brillar fra gli altri, Brilli altramente. Oh come i varii ingegni La libertà del genial convito Desta ed infiamma! Ivi il gentil Moteggio, Maliziosetto svolazzando intorno, Reca sull' ali fuggitive ed agita Ora i raccolti da la fama errori De le belle lontane; ora d'amante O di marito i semplici costumi; E gode di mirare il queto sposo Rider primiero, e di crucciar con lievi Minacce in cor de la sua fida sposa
I timidi segreti. Ivi abbracciata Co' festivi Racconti intorno gira L'elegante Licenza: or nuda appare, Come le Grazie; or con leggiadro velo Solletica vie meglio, e s'aflatica
Di richiamar de le matrone al volto Quella rosa gentil, che fu già un tempo Onor di belle donne, all' Amor cara, E cara all' Onestade. Ora ne' campi Cresce solinga, e tra i selvaggi scherzi A le rozze villane il viso adorna.
Già s'avanza la mensa. In mille guise E di mille sapor, di color mille La variata eredità de gli avi Scherza ne' piatti, e giust' ordine serba. Forse a la Dama di sua man le dapi Piacerà ministrar, che novo pregio Acquisteran da lei. Veloce il ferro, Che forbito ti attende al destro lato, Nudo fuor esca; e come quel di Marte, Scintillando lampeggi : indi la punta Fra due dita ne stringi, e chino a lei Tu il presenta, o Signore. Or si vedranno De la candida mano, all' opra intenta, I muscoli giocar soavi e molli; E le grazie, piegandosi dintorno, Vestiran nuove forme, or da le dita, Fuggevoli scorrendo; ora sull'alto De' bei nodi insensibili aleggiando; Ed or de le pozzette in sen cadendo, Che de i nodi al confin v' impresse Amore. Mille baci, di freno impazienti, Ecco, sorgon dal labbro a i convitati; Già s'arrischian, già volano, giàun guardo Sfugge dagli occhi tuoi, che i vanni audaci Fulmina ed arde, e tue ragion difende. Sol de la fida sposa, a cui se' caro, Il tranquillo marito immoto siede; E nulla impression l'agita e scuote Di brama o di timor; però che Imene Da capo a piè fatollo. Imene or porta Non più serti di rose avvolti al crine, Ma stupido papavero, grondante Di crassa onda Letéa: Imene e il Sonno Oggi han pari le insegne. Oh come spesso La Dama dilicata invoca il Sonno, Che al talamo presieda, e seco invece Trova Imenéo; e stupida rimane, Quasi al meriggio stanca villanella, Che tra l'erbe innocenti adagia il fianco Queta e sicura, e d'improvviso vede Un serpe; e balza in piedi inorridita; E le rigide man stende; e ritragge Il gomito, e l'anelito sospende;
E immota e muta e con le labbra aperte Obliquamente il guarda! Oh come spesso Incauto amante a la sua lunga pena Cercò sollievo; ed invocar credendo Imene, ahi folle! invoco il Sonno; e questi Di fredda oblivion l'alma gli asperse, E d'invincibil noia, e di torpente Indifferenza gli ricinse il core!
Ma se a la Dama dispensar non piace Le vivande, o non giova, allor tu stesso Il bel lavoro imprendi. A gli occhi altrui Più brillerà così l'enorme gemma, Dole' esca a gli usurai, che quella osâro A le promesse di Signor preporre Villanamente; ed osservati fiéno I manichetti, la più nobil opra, Che tessesse giammai anglica Aracne. Invidieran tua dilicata mano I convitati ; inarcheran le ciglia Sul difficil lavoro; e d'oggi in poi Ti fia ceduto il trinciator coltello, Che al cadetto guerrier serban le mense. Teco son io,Signor; già intendo e veggo, Felice osservatore, i detti e i moti De' Semidei, che coronando stanno, E con vario costume ornan la mensa. Or chi è quell' eroe, che tanta parte Cola ingombra di loco, e mangia e futa E guata, e de le altrui cure ridendo, Si superba di ventre agita mole? Oh di mente acutissima dotate Mamme del suo palato! Oh da' mortali Invidiabil anima, che siede
Tra la mirabil lor testura, e quindi L'ultimo del piacer deliquio sugge! Chi più saggio di lui penétra e intende La natura migliore; o chi più industre Converte a suo piacer l'aria, la terra, E'l ferace di mostri, ondoso abisso? Qualor s'accosta al desco altrui, paventano Suo gusto inesorabile le smilze Ombre de' padri, che per l'aria lievi S'aggirano, vegliando ancora intorno A i ceduti tesori ; e piangon, lasse! Le mal spese vigilie, i sobrii pasti, Le in preda all' aquilon case, le antique Digiune ròzze, gli scommessi cocchi, Forte assordanti per stridente ferro Le piazze e i tetti; e lamentando vanno Gl'in van nudati rustici, le fami Mal desiate, e de le sacre toghe L'armata in vano autorità sul vulgo. Chi siede a lui vicin? Per certo il caso Congiunse accorto i due leggiadri estremi,
Perchè doppio spettacolo campeggi; E l'un dell'altro al par più lûstri e splenda. Falcato Dio de gli orti, a cui la Greca Lámsaco d' asinelli offrir solea Vittima degna, al giovine, seguace Del sapiente di Samo, i doni tuoi Reca sul desco: egli ozioso siede, Dispregiando le carni, e le narici Schifo raggrinza; in nauseanti rughe Ripiega i labbri ; e poco pane intanto Rumina lentamente. Altro giammai A la squallida fame eroe non seppe Durar si forte; nè lassezza il vinse, Ne deliquio giammai, nè febbre ardente: Tanto importa lo aver scarze le membra, Singolare il costume, e nel Bel Mondo Onor di filosofico talento!
Qual anima è volgar, la sua pietade All' uom riserbi; e facile ribrezzo Déstino in lui del suo simíle i danni, I bisogni e le piaghe. Il cor di lui Sdegna comune alfetto; e i dolci moti A più lontano limite sospinge.
a Pera colui, che primo oso la mano « Armata alzar sull'innocente agnella « E sul placido bue; nè il truculento « Cor gli piegaro i teneri belati, Nei pietosi muggiti, ne le molli
Lingue, lambenti tortuosamente
<< Laman, che il loro fato, ahimè! stringea. Tal ei parla, o Signore; e sorge intanto Al suo pictoso favellar, da gli occhi De la tua Dama dolce lagrimetta, Pari a le stille tremule, brillanti, Che a la nova stagion gemendo vanno Da i palmiti di Bacco, entro commossi Al tiepido spirar da le prim' aure Fecondatrici. Or le sovviene il giorno, Ahi fero giorno! allor che la sua bella, Vergine cuccia, de le Grazie alunna, Giovenilmente vezzeggiando, il piede Villan del servo con l'eburneo dente Segnò di lieve nota: ed egli audace Con sacrilego piè lanciolla: e quella Tre volte rotolò; tre volte scosse Gli scompigliati peli e da le molli Nari soffio la polvere rodente. Indi i gemiti alzando : Aita, aita, Parea dicesse; e da le aurate volte A lei l'impietosita Eco rispose; E dagl' infimi chiostri i mesti servi Asceser tutti; e da le somme stanze Le damigelle pallide, tremanti Precipitaro. Accorse ognuno; il volto
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