Molce, giocando, a le canute dame. Ei, già tolte le mense, i nati or ora Giochi a le belle declinanti insegna. Ei, la notte, raccoglie a sè dintorno Schiera d' eroi, che nobil estro infiamma D'apprender l'arte, onde l' altrui fortuna Vincasi e domi, e del soave amico Nobil parte de' campi all'altro ceda. Vedi giugner colui, che di cavalli Invitto domator, divide il giorno Fra i cavalli e la dama? Or de la dama La man tiepida preme; or de' cavalli Liscia i dorsi pilosi; o pur col dito Tenta, a terra prostrato, i ferri e l'ugna. Ahime! misera lei, quando s' indice Fiera altrove frequente! Ei l'abbandona; E per monti inaccessi e valli orrende Trova i lochi remoti, e cambia o merca. Ma lei beata poi, quand' ei sen torna Sparso di limo, e novo fasto adduce Di frementi corsieri, e gli avi loro Ei costumi e le patrie a lei soletta Molte lune ripete! Or mira un altro, Di cui più diligente o più costante Non fu mai damigella o a tesser nodi, O d'aurei drappi a separar lo stame. A lui turgide ancora ambo le tasche Son d'ascose materie. Eran già queste Prezioso tappeto, in cui, distinti D'oro e lucide lane, i casi apparvero D'Ilio infelice e il cavalier, sedendo Nel gabinetto de la dama, omai Con ostinata man tutte divise In fili minutissimi le genti D'Argo e di Frigia. Un fianco solo resta De la Greca rapita; e poi l'eroe, Pur giunto al fin di sua decenne impresa, Andrà superho al par d' ambo gli Atridi. Ve' chi sa ben, come si deggia a punto Fausto di nozze, o pur d'estremi fati Miserabili annuncio in carta esporre. Lui, scapigliati e torbidi la mente Per la gran doglia, a consultar sen vanno I novi eredi : ne già mai fur viste fante vicino a la Cuméa caverna Foglie volar, d'oracoli notate, Quanti avvisi ei raccolse, i quali un giorno Per gran pubblico ben serbati fiéno.
Ma chi l'opre diverse o i vari ingegni Tutti esprimer potria, poi che le stanze Folte gia son di cavalieri e dame ? Tu per quelle t'avvolgi; ardito e baldo Vanne, torna, t'assidi, ergiti, cedi, Premi, chiedi perdono, odi, domanda,
A i divini drappelli; e a un punto empiendo Ogni cosa di te, mira, ed apprendi.
Là i vezzosi d'amor novi seguaci Lor nascenti fortune ad alta voce Confidansi all'orecchio, e ridon forte; È saltellando batton palme a palme : Sia che a leggiadre imprese Amor li guidi Fra le oscure mortali, o che gli assorba De le dive lor pari entro a la luce. Qui gli antiqui d'Amor noti campioni, Con voci esili, e dall'ansante petto Fuor tratte a stento, rammentando vanno Le già corse in amar fiere vicende. Indi gl'imberbi eroi, cui diede il padre La prima coppia di destrier pur jeri, Con animo viril celiano al fianco Di provetta beltà, che a i risi loro Alza scoppi di risa, e il nudo spande, Che di veli mal chiuso, i guardi cerca, Che il cercarono un tempo. Indi gli adulti, A la cui fronte il primo ciuffo appose Fallace parrucchier, scherzan vicini A la sposa novella, e di bei motti Tendonle insidia, ove di lei s'intrichi L'alma inesperta e il timido pudore. Folli! che a i detti loro ella va incontro Valorosa così, come una madre Di dieci eroi. V' ha in altra parte assiso Chi di lieti racconti, o pur di fole, Non ascoltate mai, raro promette A le dame trastullo : e ride, e narra; E ride ancor; benchè a le dame intanto Sul bell'arco de' labbri aleggi e penda Non voluto sbadiglio. E v' ha chi altronde Con fortunato studio in novi sensi Le parole converte, e in simil suoni Pronto a colpir, divinamente scherza. Alto al genio di lui plaude il ventaglio De le pingui matrone, a cui la voce Di vernacolo accento anco risponde. Ma le giovani madri, al latte avvezze Di più gravi dottrine, il sottil naso Aggrinzan fastidite; e pur col guardo Sembran chieder pietade a i belli spirti, Che lor siedono a lato, e a cui gran copia D'erudita effemeride distilla Volatile scienza entro a la mente. Altri altrove pugnando, audace innalza Sopra d'ognaltro il palafren, ch' ei sale, O il poeta o il cantor, che lieti ei rende De le sue mense. Altri dà vanto all' elso Lucido e bello de la spada, ond' egli
Solo, e per casi non più visti, al fine Fu dal più dotto anglico artier fornito. Altri, grave nel volto, ad altri espone, Qual per l'appunto a gran convito apparve Ordin di cibi; ed altri stupefatto, Con profondo pensier, con alte dita Conta di quanti tavolieri a punto Grande insolita veglia andò superba. Un fra l'indice e il medio inflessi alquanto, Molle ridendo, al suo vicin la gota Preme furtivo; e l'un da tergo all' altro Il pendente cappel dal braccio invola; E del felice colpo a se dá plauso.
Ma d'ogni lato i pronti servi intanto E luci e tavolieri e seggi e carte, Suppellettile augusta, entran portando. Un sordo stropicciar di mossi scanni, Un cigolio di tavole spiegate Odo vagar fra le sonanti risa Di giovani festivi, e fra le acute Voci di dame, cicalanti a un tempo, Qual dintorno a selvaggio, antico moro, Sull' imbrunir del di, garrulo stormo Di frascheggianti passere novelle.
Sola in tanto rumor tacita siede La matrona del loco; e chino il fronte, E increspate le ciglia, i sommi labbri Appoggia in sul ventaglio, arduo pensiere Macchinando tra sè. Medita certo, Come al candor, come al pudor si deggia La cara figlia preservar, che torna Doman da i chiostri, ove il sermon d' Italia Pur giunse ad obliar, meglio erudita De le galliche grazie. Oh qual dimane Ne i genitor, ne' convitati, a mensa Ben cicalando, ecciterai stupore, Bella fra i lari tuoi vergin straniera! Errai. Nel suo pensier volge di cose L'alta madre d'eroi mole più grande; E nel dubbio crudel col guardo invoca De le amiche l' aita; e a se con mano Il fido cavalier chiede a consiglio. Qual mai del gioco a i tavolier diversi Ordin porrà, che de le dive accolte Nulla obliata si dispêtti, e nieghi Più qui tornare ad aver scorno ed onte? Come, con pronto antiveder, del gioco Il dissimil tenore a i genii eccelsi Assegnerà conforme; ond' altri poi Non isbadigli lungamente, e pianga Le mal gittate ore notturne, e lei De lo infelice oro perduto incolpi? Qual paro e quale al tavolier medesmo E di campioni e di guerriere audaci
Fia che tra loro a tenzonar congiunga;
Si che già mai per miserabil caso La vetusta patrizia, essa e lo sposo Ambo di regi favolosa stirpe, [do, Con lei non scenda al paragon, che al gra- Per breve serie di scrivani, or ora Fu de' nobili assunta, e il cui marito Gli atti e gli accenti ancor serba del monte? Ma che non può sagace ingegno, e molta D'anni e di casi esperienza? Or ecco, Ella compose i fidi amanti, e lungi, De la stanza nell' angol più remoto, Il marito costrinse, a di si lieti Sognante ancor d'esser geloso. Altrove Le occulte altrui, ma non fuggite all'occhio Dotto di lei, benchè nascenti a pena, Dolci cure d'amor, fra i meno intenti O i meno acuti a penetrar nell' alte -Dell'animo latébre, in grembo al gioco Pose a crescer felici : e già in duo cori Grazia e mercè de la bell' opra ottiene. Qui gl'illustri e le illustri ; e là gli estremi Ben seppe unir de' novamente compri Feudi e de' prischi gloriosi nomi, Cui mancò la fortuna. Anco le piacque Accozzar le rivali, onde spiarne I mal chiusi dispetti. Anco per celia Più secoli aduno, grato aspettando E per gli altri e per sè riso dall' ire Settagenarie, che nel gioco accense Fien con molta raucedine e con molto Tentennar di parrucche e cuffie alate.
Già per l'aula beata a cento intorno Dispersi tavolier seggon le dive, Seggon gli eroi, che dell' Esperia sono Gloria somma o speranza. Ove di quattro Un drappel si raccoglie, e dove un altro Di tre sol tanto. Ivi di molti e grandi Fogli dipinti il tavolier ti sparge; Qui di pochi e di brevi. Altri combatte; Altri sta sopra a contemplar gli eventi De la instabil fortuna, e i tratti egregi Del sapere o dell'arte. In fronte a tutti Grave regna il consiglio, e li circonda Maestoso silenzio. Erran sul campo Agevoli ventagli, onde le dame Cercan ristoro all' agitato spirto Dopo i miseri casi. Erran sul campo Lucide tabacchiere. Indi sovente Un'util rimembranza, un pronto avviso Con le dita si attigne; e spesso volge I destini del gioco e de la veglia Un atomo di polve. Ecco, se n'ugne La panciuta matrona intorno al labbro
Le calugini adulte : ecco, se n'ugne Le nari delicate e un po' di guancia La sposa giovinetta. In vano il guardo D'esperto cavalier, che già su lei Medita nel suo cor future imprese, Le domina dall'alto i pregi ascosi; E in van d'un altro, timidetto ancora, Il pertinace piè l'estrema punta Del bel piè le sospigne. Ella non sente, O non vede, o non cura. Entro a que' fogli, Ch'ella con man sì lieve ordina o turba, De le pompe muliebri, a lei concesse, Or s'agita la sorte. Ivi è raccolto Il suo cor, la sua mente. Amor sorride; E luogo e tempo a vendicarsi aspetta.
Chi la vasta quiete osa da un lato Romper con voci successive, or aspre, Or molli, or alte, ora profonde, sempre Con tenore ostinato, al par di secchii, Che scendano e ritornino piagnenti Dal cupo alveo dell'onda ; o al par di rote, Che, sotto al carro pesante, per lunga Odansi strada scricchiolar lontano? L'ampia tavola è questa, a cui s'aduna Quanto mai per aspetto, e per maturo Senno il nobil concilio ha di più grave O fra le dive socere, o fra i nonni, O fra i celibi, già da molti lustri Memorati nel mondo. In sul tappeto (1) Sorge grand'urna, che poi scossa in volta, La dovizia de' numeri comparte Fra i giocator, cui numerata è innanzi D'imagini diverse alma vaghezza. Qual finge il vecchio, che con man la negra Sopra le grandi porporine brache Veste raccoglie; e rubicondo il naso Di grave stizza, alto minaccia e grida, L'aguzza barba dimenando. Quale Finge colui, che con la gobba enorme E il naso enorme e la forchetta enorme Le cadenti lasagne avido ingoia. Quale il multicolor Zanni leggiadro, Che col pugno, posato al fesso legno, Sovra la punta dell' un piè s'innoltra; E la succinta natica rotando, Altrui volge faceto il nero ceffo. Ne d'animali ancor copia vi manca: O, al par d'umana creatura, l'orso Ritto in due piedi ; o il micio; o la ridente Scimia; o il caro asinello, onde a sè grato E giocatrici e giocator fan speglio.
(1) La Caragnola, giuoco usitato in Lombardia.
Signor, che fai? Cosi, dell'opre altrui Inoperoso spettator, non vedi Già la sacra del gioco ara disposta A te pur anco? E nell' aurato bronzo, Che d'Attiche colonne il grande imita, I lumi sfavillanti, a cui nel mezzo, Lusingando gli eroi, sorge di carte Elegante congerie, intatta ancora ? Ecco, s'asside la tua dama, e freme Omai di tua lentezza. Eccone un'altra; Ecco l'eterno cavalier con lei,
Che ritto in pie, del tavolino al labbro Più non chiede che te; e te co i guardi, Te con le palme, desiando, affretta. Questi, or volgon tre lustri, a te simile Corre di gloria il generoso stadio De la sua dama al fianco. A lei l'intero Giorno il vide vicino, a lei la notte Innoltrata d'assai. Varia tra loro Fu la sorte d'amor: mille le guerre; Mille le paci; mille i furibondi, Scapigliati congedi; e mille i dolci Palpitanti ritorni, al caro sposo Noti non sol, ma nel teatro e al corso Lunga e trita novella. Al fine Amore, Dopo tanti travagli, a lor nel grembo [po Molle sonno chiedea: quand'ecco il Tem- Tra la coppia felice osa indiscreto Passar volando; e de la dama un poco, Dove il ciglio ha confin, riga la guancia Con la cima dell' ale; all' altro svelle Parte del ciuffo, che nel liquid' aere Si conteser di poi l'aure superbe. Al fischiar del gran volo, a i dolci lai De gli amanti sferzati, Amor si scosse; Il nemico senti; l'armi raccolse; A fuggir cominciò. Pietà di noi, Pietà, gridan gli amanti : or, se tu parti, Come sentir la cara vita, come Più lunghi desiarne i giorni e l'ore? Ne già in van si grido. La gracil mano Verso l'omero armato Amor levando, Rise un riso vezzoso; indi un bel mazzo De le carte, che Félsina colora, Tolse da la faretra; e: Questo, ei disse, A voi resti in mia vece. Oh meraviglia! Ecco, que' fogli, con diurna mano E notturna trattati, anco d'amore Sensi spirano e moti. Ah se un invito Ben comprese giocando, e ben rispose Il cavalier, qual de la dama il fiede Tenera occhiata, che nel cor discende; E quale a lei voluttuoso in bocca Da una fresca rughetta esce il sogghigno!
Ma se i vaghi pensieri ella disvia Solo un momento, e il giocatore avverso Util ne tragge, ah! il cavaliere allora Freme geloso; si contorce tutto; Fa irrequieto scricchiolar la sedia ; E male e violento aduna, e male Mesce i discordi de le carte semi; Onde poi l'altra giocatrice a manca Ne invola il meglio: e la stizzosa dama, I due labbri aguzzando, il pugne e sferza, Con atroce implacabile ironia, Cara a le belle multilustri. Or ecco Sorger fieri dispetti, acerbe voglie, Lungo aggrottar di ciglia, e per più giorni A la veglia, al teatro, al corso, in cocchio Trasferito silenzio. Al fin, chiamato Un per gran senno e per veduti casi Nestore, tra gli eroi famoso e chiaro, Rompe il tenor de le ostinate menti Con mirabil di mente arduo consiglio. Così ad onta del tempo, or lieta, or mesta L'alma coppia d' amarsi anco si finge; Così gusta la vita. Egual ventura T'è serbata, o Signor, se ardirà mai, Ch'io non credo però, l' alato veglio Smovere alcun de' prezïosi avorii, Onor de' risi tuoi; sì che le labbra Si ripieghino a dentro, e il gentil mento Oltre i confin de la bellezza ecceda.
Ma d'ambrosia e di néttare gelato Anco a i vostri palati almo conforto, Terrestri Deitadi, ecco sen viene; E cento Ganimedi, in vaga pompa E di vesti e di crin, lucide tazze Ne recan taciturni; e con leggiadro E rispettoso inchin, tutte spiegando Dell'omero virile e de' bei fianchi Le rare forme, lusingar son osi De le Cinzie terrene i guardi obliqui. Mira, o Signor, che a la tua dama un d'essi Lene s'accosta; e con sommessa voce, E mozzicando le parole alquanto, Onde pur sempre al suo Signor somigli,
A lei di gel voluttuoso annuncia Copia diversa. Ivi è raccolta in neve La fragola gentil, che di lontano Pur col soave odor tradi sè stessa; V'è il salubre limon; v'è il molle latte; V'è, con largo tesor culto fra noi, Pomo stranier, che coronato usurpa (1) Loco a i pomi natii; v'è le due brune Odorose bevande, che pur dianzi, Di scoppiato vulcan simili al corso, Fumanti, ardenti, torbide, spumose Inondavan le tazze; ed or congeste Sono in rigidi coni, a fieder pronte Di contraria dolcezza i sensi altrui. Sorgi tu dunque ; e a la tua dama intendi porger di tua man, scelto fra molti, Il sapor più gradito. I suoi desiri Ella scopre a te solo; e mal gradito, O mal lodato almen, giugne il diletto, Quando al senso di lei per te non giunge. Ma pria togli di tasca, intatto ancora, Candidissimo lin, che sul bel grembo Di lei scenda spiegato ; onde di gelo Inavvertita stilla i cari veli
E le frange pompose in van minacci Di macchia disperata. Umili cose E di picciol valore al cieco vulgo Queste forse parran, che a te dimostro Con si nobili versi, e spargo ed orno De' vaghi fiori de lo stil, ch'io colsi Ne' recessi di Pindo, e che già mai Da poetica man tocchi non furo. Ma di sì crasso error, di tanta notte Già tu non hai l'eccelsa mente ingombra, Signor, che vedi di quest'opra ordirsi De' tuoi pari la vita; e sorger quindi La gloria e lo splendor di tanti eroi, Che poi prosteso il cieco vulgo adora.
LA VITA RUSTICA.
PERCHÈ turbarmi l'anima, O d'oro e d'onor brame, Se del mio viver Atropo Presso è a troncar lo stame; E già per me si piega
Sul remo il nocchier brun Cola, donde si niega Che più ritorni alcun?
Queste che ancor ne avanzano Ore fugaci e meste, Belle ne renda e amabili La libertade agreste. Qui Cerere ne manda
Le biade, e Bacco il vin; Qui di fior s'inghirlanda Bella Innocenza il crin.
So che felice stimasi Il possessor d'un'arca, Che Pluto abbia propizio Di gran tesoro carca; Ma so ancor che al potente Palpita oppresso il cor Sotto la man sovente Del gelato timor.
Me, non nato a percotere Le dure illustri porte, Nudo accorrà, ma libero, Il regno de la morte. No, ricchezza, nè onore Con frode o con viltà Il secol venditore Mercar non mi vedrà.
Colli beati e placidi, Che il vago Eupili mio Cingete con dolcissimo Insensibil pendio, Dal bel rapirmi sento, Che natura vi die; Ed esule contento A voi rivolgo il piè.
Già la quiete, a gli uomini
Si sconosciuta, in seno De le vostr'ombre apprestami Caro albergo sereno;
Tra la famiglia rustica, A nessun giogo avvinto, Come solea in Anfriso Febo pastor, vivrò; E sempre con un viso La cetra sonerò!
Non fila d'oro nobili, D'illustre fabbro cura, lo scoterò; ma semplici, E care a la natura. Quelle abbia il vate, esperto Nell'adulazion;
Che la virtude e il merto Daran legge al mio suon.
Inni dal petto supplice Alzerò spesso a i cieli; Si che lontan si volgano I turbini crudeli; E da noi lunge avvampi L'aspro sdegno guerrier; Ne ci calpesti i campi L'inimico destrier.
E perchè a i numi il fulmine Di man più facil cada, Pingerò lor la misera Sassonica contrada, Che vide arse sue spiche In un momento sol, E gir mille fatiche Col tetro fumo a vol.
E te, villan sollecito,
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