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La gioia ti splendea, splendea negli occhi
Quel confidente immaginar, quel lume
Di gioventù, quando spegneali il fato,
E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
Se a radunanze io movo, infra me stesso
Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti recando alle fanciulle,
Dico Nerina mia, per te non torna
Primaveva giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
Dico: Nerina or più non gode; i campi,
L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
Sospiro mio: passasti : e fia compagna
D'ogni mio vago immaginar, di tutti
I miei teneri sensi, i tristi e cari
Moti del cor, la rimembranza acerba.

XXIII.

CANTO NOTTURNO

DI UN PASTORE ERRANTE DELL'ASIA (9).

CHE fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai,

Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga

Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore

Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;

Poi stanco si riposa in su la sera.
Altro mai non ispera.

Dimmi, o luna: a che vale

Al pastor la sua vita,

La vostra vita a voi? dimmi: ove tende

Questo vagar mio breve,

Il tuo corso immortale ?

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,

Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,

Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,

[pa

Al vento, alla tempesta, e quando avvam-
L'ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,

Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro,

Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
Colà dove la via

E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,

Ov' ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
È la vita mortale.

Nasce l'uomo a fatica,

Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento

Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore

Il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,

L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole

Studiasi fargli core,

E consolarlo dell' umano stato :

Altro officio più grato

Non si fa da parenti alla lor prole.

Ma perchè dare al sole,
Perchè reggere in vita

Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
E lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,

E forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che si pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,

Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,

E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi

Il perché delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,

Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,

A chi giovi l'ardore, e che procacci
Il verno co' suoi ghiacci.

Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand' io ti miro

Star cosi muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando :

A che tante facelle?

Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa ? ed io che sono?
Cosi meco ragiono e della stanza
Smisurata e superba,

E dell' innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,

Per tornar sempre la donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto

Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,

Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento

Avrà fors' altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi; oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!

Non sol perché d'affanno
Quasi libera vai;

Ch'ogni stento, ogni danno,

Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perchè giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu se' queta e contenta;
E gran parte dell' anno

Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra

La mente, ed uno spron quasi mi punge
Si che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.

E pur nulla non bramo,

E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,

Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,

O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei :
Dimmi perché giacendo

:

A bell' agio, ozioso,

S'appaga ogni animale;

Me, s'io giacco in riposo, il tedio assale (10)?

Forse s' avess' io l'ale Da volar su le nubi,

E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,

Mirando all' altrui sorte, il mio pensiero :
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il di natale.

XXIV.

LA QUIETE

DOPO LA TEMPESTA.

PASSATA è la tempesta :

Odo augelli far festa, e la gallina,
Tornata in su la via,

Che ripete il suo verso. Ecco il serenc
Rompe là da ponente, alla montagna;
Sgombrasi la campagna,

E chiaro nella valle il fiume appare. Ogni cor si rallegra, in ogni lato Risorge il romorio

Torna il lavoro usato.

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L'artigiano a mirar l' umido cielo,
Con l'opra in man, cantando,
Fassi in su l'uscio; a prova
Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua
Della novella piova;
E l'erbaiuol rinnova
Di sentiero in sentiero
Il grido giornaliero.

Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
Apre terrazzi e logge la famiglia:
E, dalla via corrente, odi lontano
Tintinnio di sonagli ; il carro stride
Del passegger che il suo cammin ripiglia.
Si rallegra ogni core.

Si dolce, si gradita

Quand' è, com' or, la vita?
Quando con tanto amore
L'uomo a' suoi studi intende?

O torna all'opre? o cosa nova imprende?
Quando de' mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d' affanno;

Gioia vana, ch'è frutto

Del passato timore, onde si scosse

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LA donzelletta vien dalla campagna,
In sul calar del sole,

Col suo fascio dell' erba; e reca in mano
Un mazzolin di rose e di viole,
Onde, siccome suole,

Ornare ella si appresta

Dimani, al di di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine

Su la scala a filar la vecchierella,
Incontro là dove si perde il giorno;
E novellando vien del suo buon tempo,
Quando ai di della festa ella si ornava,
Ed ancor sana e snella

Solea danzar la sera intra di quei
Ch' ebbe compagni dell' età più bella.
Già tutta l'aria imbruna,

Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre
Giù da' colli e da' tetti,

Al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
Della festa che viene;
Ed a quel suon diresti
Che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
Su la piazzuola in frotta,
E qua e là saltando,

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Di tua natura arcana
Chi non favella? il suo poter fra noi
Chi non senti? Pur sempre

Che in dir gli elletti suoi

Le umane lingue il sentir propio sprona, Par novo ad ascoltar ciò ch' ei ragiona. Come solinga è fatta

La mente mia d'allora

Che tu quivi prendesti a far dimora! Ratto d'intorno intorno al par del lampo Gli altri pensieri miei

Tutti si dileguar. Siccome torre

In solitario campo,

Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei.
Che divenute son, fuor di te solo,
Tutte l'opre terrene,

Tutta intera la vita al guardo mio!
Che intollerabil noia

Gli ozi, i commerci usati,
E di vano piacer la vana spene,
Allato a quella gioia,

Gioia celeste che da te mi viene!
Come da' nudi sassi
Dello scabro Apennino

A un campo verde che lontan sorrida
Volge gli occhi bramoso il pellegrino;
Tal io dal secco ed aspro
Mondano conversar vogliosamente,
Quasi in lieto giardino, a te ritorno,
E ristora i miei sensi il tuo soggiorno.
Quasi incredibil parmi

Che la vita infelice e il mondo sciocco
Già per gran tempo assai

Senza te sopportai;

Quasi intender non posso
Come d'altri desiri,

Fuor ch'a te somiglianti, altri sospiri.
Giammai d'allor che in pria
Questa vita che sia per prova intesi,
Timor di morte non mi strinse il petto.
Oggi mi pare un gioco

Quella che il mondo inetto,

Talor lodando, ognora abborre e trema,
Necessitade estrema ;

E se periglio appar, con un sorriso
Le sue minacce a contemplar m'affiso.
Sempre i codardi e l'alme

Ingenerose abbiette

[gno

Ebbi in dispregio. Or punge ogni atto indeSubito i sensi miei;

Move l'alma ogni esempio

Dell'umana viltà subito a sdegno.

Di questa età superba,

Che di vote speranze si nutrica,

Vaga di ciance, e di virtù nemica; Stolta, che l'util chiede,

E inutile la vita

Quindi più sempre divenir non vede;
Maggior mi sento. A scherno
Ho gli umani giudizi; e il vario volgo
A' bei pensieri infesto,

E degno tuo disprezzator, calpesto.
A quello onde tu movi,
Quale affetto non cede?
Anzi qual altro affetto

Se non quell' uno intra i mortali ha sede ?
Avarizia, superbia, odio, disdegno,
Studio d'onor, di regno,
Che sono altro che voglie

Al paragon di lui? Solo un affetto

Vive tra noi quest'uno,

Prepotente signore,

Dieder l'eterne leggi all'uman core.

Pregio non ha, non ha ragion la vita Se non per lui, per lui ch' all' uomo è tutto; Sola discolpa al fato,

Che noi mortali in terra

Pose a tanto patir senz'altro frutto;
Solo per cui talvolta,

Non alla gente stolta, al cor non vile
La vita della morte è più gentile.

Per cor le gioie tue, dolce pensiero, Provar gli umani affanni,

E sostener molt' anni
Questa vita mortal, fu non indegno;
Ed ancor tornerei,

Così qual son de' nostri mali esperto,
Verso un tal segno a incominciare il corso:
Che tra le sabbie e tra il vipereo morso,
Giammai finor si stanco

Per lo mortal deserto

Non venni a te, che queste nostre pene
Vincer non mi paresse un tanto bene.
Che mondo mai, che nova
Immensità, che paradiso è quello
Là dove spesso il tuo stupendo incanto
Parmi innalzar! dov'io,

Sott'altra luce che l'usata errando,
Il mio terreno stato

E tutto quanto il ver pongo in obblio!
Tali son, credo, i sogni

Degl' immortali. Ahi finalmente un sogno
In molta parte onde s' abbella il vero
Sei tu, dolce pensiero;

Sogno e palese error. Ma di natura,

Infra i leggiadri errori,

Divina sei; perchè si viva e forte,
Che incontro al ver tenacemente dura,
E spesso al ver s'adegua,

Ne si dilegua pria, che in grembo a morte.
E tu per certo, o mio pensier, tu solo
Vitale ai giorni miei,

Cagion diletta d'infiniti affanni,

Meco sarai per morte a un tempo spento: Ch'a vivi segni dentro l' alma io sento Che in perpetuo signor dato mi sei. Altri gentili inganni

Soleami il vero aspetto

Più sempre infievolir. Quanto più torno
A riveder colei

Della qual teco ragionando io vivo,
Cresce quel gran diletto,

Cresce quel gran delirio, ond' io respiro.
Angelica beltade!

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FRATELLI, a un tempo stesso, Amore e
Morte

Ingenerò la sorte.
Cose quaggiù si belle

Altre il mondo non ha, non han le stelle.
Nasce dall' uno il bene,
Nasce il piacer maggiore

Che per lo mar dell' essere si trova;
L'altra ogni gran dolore,
Ogni gran male annulla.
Bellissima fanciulla,
Dolce a veder, non quale

La si dipinge la codarda gente,
Gode il fanciullo Amore
Accompagnar sovente;

E sorvolano insiem la via mortale,
Primi conforti d'ogni saggio core.
Ne cor fu mai più saggio

Che percosso d'amor, nè mai più forte
Sprezzò l'infausta vita,

Ne per altro signore

Come per questo a perigliar fu pronto :
Ch'ove tu porgi aita,

Amor, nasce il coraggio,
O si ridesta; e sapiente in opre,
Non in pensiero invan, siccome suole,

Divien l'umana prole.

Quando novellamente
Nasce nel cor profondo
Un amoroso alletto,

Languido e stanco insiem con esso in petto
Un desiderio di morir si sente:
Come, non so: ma tale

D'amor vero e possente è il primo effetto.
Forse gli occhi spaura

Allor questo deserto: a se la terra
Forse il mortale inabitabil fatta
Vede omai senza quella
Nova, sola, infinita

Felicità che il suo pensier figura :
Ma per cagion di lei grave procella
Presentendo in suo cor, brama quiete,
Brama raccorsi in porto

Dinanzi al fier disio,

[ra.

Che già, rugghiando, intorno intorno oscuPoi, quando tutto avvolge

La formidabil possa,

E fulmina nel cor l'invitta cura,
Quante volte implorata

Con desiderio intenso,

Morte, sei tu dall' aflannoso amante!
Quante la sera, e quante

Abbandonando all'alba il corpo stanco,
Se beato chiamò s'indi giammai
Non rilevasse il fianco,

Ne tornasse a veder l'amara luce!
E spesso al suon della funebre squilla,
Al canto che conduce

La gente morta al sempiterno obblio,
Con più sospiri ardenti

Dall' imo petto invidio colui

Che tra gli spenti ad abitar sen giva.
Fin la negletta plebe,

L'uom della villa, ignaro
D'ogni virtù che da saper deriva,
Fin la donzella timidetta e schiva,
Che già di morte al nome
Senti rizzar le chiome,

Osa alla tomba, alle funeree bende
Fermar lo sguardo di costanza pieno,
Osa ferro e veleno
Meditar lungamente,
E nell'indotta mente

La gentilezza del morir comprende.
Tanto alla morte inclina

D'amor la disciplina. Anco sovente,
A tal venuto il gran travaglio interno
Che sostener nol può forza mortale,
O cede il corpo frale

Ai terribili moti, e in questa forma

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