La gioia ti splendea, splendea negli occhi Quel confidente immaginar, quel lume Di gioventù, quando spegneali il fato, E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna L'antico amor. Se a feste anco talvolta, Se a radunanze io movo, infra me stesso Dico: o Nerina, a radunanze, a feste Tu non ti acconci più, tu più non movi. Se torna maggio, e ramoscelli e suoni Van gli amanti recando alle fanciulle, Dico Nerina mia, per te non torna Primaveva giammai, non torna amore. Ogni giorno sereno, ogni fiorita Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento, Dico: Nerina or più non gode; i campi, L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno Sospiro mio: passasti : e fia compagna D'ogni mio vago immaginar, di tutti I miei teneri sensi, i tristi e cari Moti del cor, la rimembranza acerba.
DI UN PASTORE ERRANTE DELL'ASIA (9).
CHE fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi. Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli? Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga Di mirar queste valli? Somiglia alla tua vita La vita del pastore. Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera. Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale ?
Vecchierel bianco, infermo, Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle, Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvam- L'ora, e quando poi gela, Corre via, corre, anela, Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s'affretta, Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto: Abisso orrido, immenso,
Ov' ei precipitando, il tutto obblia. Vergine luna, tale È la vita mortale.
Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento. Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato. Poi che crescendo viene,
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell' umano stato :
Altro officio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perchè dare al sole, Perchè reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga? Se la vita è sventura, Perché da noi si dura? Intatta luna, tale E lo stato mortale. Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina, Che si pensosa sei, tu forse intendi, Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia; Che sia questo morir, questo supremo Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno Ad ogni usata, amante compagnia. E tu certo comprendi
Il perché delle cose, e vedi il frutto Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo. Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci Il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri, Che son celate al semplice pastore. Spesso quand' io ti miro
Star cosi muta in sul deserto piano, Che, in suo giro lontano, al ciel confina; Ovver con la mia greggia Seguirmi viaggiando a mano a mano; E quando miro in cielo arder le stelle; Dico fra me pensando :
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo Infinito seren? che vuol dir questa Solitudine immensa ? ed io che sono? Cosi meco ragiono e della stanza Smisurata e superba,
E dell' innumerabile famiglia; Poi di tanto adoprar, di tanti moti D'ogni celeste, ogni terrena cosa, Girando senza posa,
Per tornar sempre la donde son mosse; Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo, Giovinetta immortal, conosci il tutto. Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri, Che dell'esser mio frale, Qualche bene o contento
Avrà fors' altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi; oh te beata, Che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi; Ma più perchè giammai tedio non provi. Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe, Tu se' queta e contenta; E gran parte dell' anno
Senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra, E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge Si che, sedendo, più che mai son lunge Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto. Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei. Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno. Se tu parlar sapessi, io chiederei : Dimmi perché giacendo
A bell' agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giacco in riposo, il tedio assale (10)?
Forse s' avess' io l'ale Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una, O come il tuono errar di giogo in giogo, Più felice sarei, dolce mia greggia, Più felice sarei, candida luna. O forse erra dal vero,
Mirando all' altrui sorte, il mio pensiero : Forse in qual forma, in quale Stato che sia, dentro covile o cuna, È funesto a chi nasce il di natale.
PASSATA è la tempesta :
Odo augelli far festa, e la gallina, Tornata in su la via,
Che ripete il suo verso. Ecco il serenc Rompe là da ponente, alla montagna; Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare. Ogni cor si rallegra, in ogni lato Risorge il romorio
Torna il lavoro usato.
L'artigiano a mirar l' umido cielo, Con l'opra in man, cantando, Fassi in su l'uscio; a prova Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua Della novella piova; E l'erbaiuol rinnova Di sentiero in sentiero Il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride Per li poggi e le ville. Apre i balconi, Apre terrazzi e logge la famiglia: E, dalla via corrente, odi lontano Tintinnio di sonagli ; il carro stride Del passegger che il suo cammin ripiglia. Si rallegra ogni core.
Si dolce, si gradita
Quand' è, com' or, la vita? Quando con tanto amore L'uomo a' suoi studi intende?
O torna all'opre? o cosa nova imprende? Quando de' mali suoi men si ricorda? Piacer figlio d' affanno;
Gioia vana, ch'è frutto
Del passato timore, onde si scosse
LA donzelletta vien dalla campagna, In sul calar del sole,
Col suo fascio dell' erba; e reca in mano Un mazzolin di rose e di viole, Onde, siccome suole,
Ornare ella si appresta
Dimani, al di di festa, il petto e il crine. Siede con le vicine
Su la scala a filar la vecchierella, Incontro là dove si perde il giorno; E novellando vien del suo buon tempo, Quando ai di della festa ella si ornava, Ed ancor sana e snella
Solea danzar la sera intra di quei Ch' ebbe compagni dell' età più bella. Già tutta l'aria imbruna,
Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre Giù da' colli e da' tetti,
Al biancheggiar della recente luna. Or la squilla dà segno Della festa che viene; Ed a quel suon diresti Che il cor si riconforta. I fanciulli gridando Su la piazzuola in frotta, E qua e là saltando,
Di tua natura arcana Chi non favella? il suo poter fra noi Chi non senti? Pur sempre
Che in dir gli elletti suoi
Le umane lingue il sentir propio sprona, Par novo ad ascoltar ciò ch' ei ragiona. Come solinga è fatta
La mente mia d'allora
Che tu quivi prendesti a far dimora! Ratto d'intorno intorno al par del lampo Gli altri pensieri miei
Tutti si dileguar. Siccome torre
In solitario campo,
Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei. Che divenute son, fuor di te solo, Tutte l'opre terrene,
Tutta intera la vita al guardo mio! Che intollerabil noia
Gli ozi, i commerci usati, E di vano piacer la vana spene, Allato a quella gioia,
Gioia celeste che da te mi viene! Come da' nudi sassi Dello scabro Apennino
A un campo verde che lontan sorrida Volge gli occhi bramoso il pellegrino; Tal io dal secco ed aspro Mondano conversar vogliosamente, Quasi in lieto giardino, a te ritorno, E ristora i miei sensi il tuo soggiorno. Quasi incredibil parmi
Che la vita infelice e il mondo sciocco Già per gran tempo assai
Senza te sopportai;
Quasi intender non posso Come d'altri desiri,
Fuor ch'a te somiglianti, altri sospiri. Giammai d'allor che in pria Questa vita che sia per prova intesi, Timor di morte non mi strinse il petto. Oggi mi pare un gioco
Quella che il mondo inetto,
Talor lodando, ognora abborre e trema, Necessitade estrema ;
E se periglio appar, con un sorriso Le sue minacce a contemplar m'affiso. Sempre i codardi e l'alme
Ingenerose abbiette
Ebbi in dispregio. Or punge ogni atto indeSubito i sensi miei;
Move l'alma ogni esempio
Dell'umana viltà subito a sdegno.
Che di vote speranze si nutrica,
Vaga di ciance, e di virtù nemica; Stolta, che l'util chiede,
Quindi più sempre divenir non vede; Maggior mi sento. A scherno Ho gli umani giudizi; e il vario volgo A' bei pensieri infesto,
E degno tuo disprezzator, calpesto. A quello onde tu movi, Quale affetto non cede? Anzi qual altro affetto
Se non quell' uno intra i mortali ha sede ? Avarizia, superbia, odio, disdegno, Studio d'onor, di regno, Che sono altro che voglie
Al paragon di lui? Solo un affetto
Vive tra noi quest'uno,
Prepotente signore,
Dieder l'eterne leggi all'uman core.
Pregio non ha, non ha ragion la vita Se non per lui, per lui ch' all' uomo è tutto; Sola discolpa al fato,
Che noi mortali in terra
Pose a tanto patir senz'altro frutto; Solo per cui talvolta,
Non alla gente stolta, al cor non vile La vita della morte è più gentile.
Per cor le gioie tue, dolce pensiero, Provar gli umani affanni,
E sostener molt' anni Questa vita mortal, fu non indegno; Ed ancor tornerei,
Così qual son de' nostri mali esperto, Verso un tal segno a incominciare il corso: Che tra le sabbie e tra il vipereo morso, Giammai finor si stanco
Per lo mortal deserto
Non venni a te, che queste nostre pene Vincer non mi paresse un tanto bene. Che mondo mai, che nova Immensità, che paradiso è quello Là dove spesso il tuo stupendo incanto Parmi innalzar! dov'io,
Sott'altra luce che l'usata errando, Il mio terreno stato
E tutto quanto il ver pongo in obblio! Tali son, credo, i sogni
Degl' immortali. Ahi finalmente un sogno In molta parte onde s' abbella il vero Sei tu, dolce pensiero;
Sogno e palese error. Ma di natura,
Infra i leggiadri errori,
Divina sei; perchè si viva e forte, Che incontro al ver tenacemente dura, E spesso al ver s'adegua,
Ne si dilegua pria, che in grembo a morte. E tu per certo, o mio pensier, tu solo Vitale ai giorni miei,
Cagion diletta d'infiniti affanni,
Meco sarai per morte a un tempo spento: Ch'a vivi segni dentro l' alma io sento Che in perpetuo signor dato mi sei. Altri gentili inganni
Soleami il vero aspetto
Più sempre infievolir. Quanto più torno A riveder colei
Della qual teco ragionando io vivo, Cresce quel gran diletto,
Cresce quel gran delirio, ond' io respiro. Angelica beltade!
FRATELLI, a un tempo stesso, Amore e Morte
Ingenerò la sorte. Cose quaggiù si belle
Altre il mondo non ha, non han le stelle. Nasce dall' uno il bene, Nasce il piacer maggiore
Che per lo mar dell' essere si trova; L'altra ogni gran dolore, Ogni gran male annulla. Bellissima fanciulla, Dolce a veder, non quale
La si dipinge la codarda gente, Gode il fanciullo Amore Accompagnar sovente;
E sorvolano insiem la via mortale, Primi conforti d'ogni saggio core. Ne cor fu mai più saggio
Che percosso d'amor, nè mai più forte Sprezzò l'infausta vita,
Ne per altro signore
Come per questo a perigliar fu pronto : Ch'ove tu porgi aita,
Amor, nasce il coraggio, O si ridesta; e sapiente in opre, Non in pensiero invan, siccome suole,
Divien l'umana prole.
Quando novellamente Nasce nel cor profondo Un amoroso alletto,
Languido e stanco insiem con esso in petto Un desiderio di morir si sente: Come, non so: ma tale
D'amor vero e possente è il primo effetto. Forse gli occhi spaura
Allor questo deserto: a se la terra Forse il mortale inabitabil fatta Vede omai senza quella Nova, sola, infinita
Felicità che il suo pensier figura : Ma per cagion di lei grave procella Presentendo in suo cor, brama quiete, Brama raccorsi in porto
Dinanzi al fier disio,
Che già, rugghiando, intorno intorno oscuPoi, quando tutto avvolge
La formidabil possa,
E fulmina nel cor l'invitta cura, Quante volte implorata
Con desiderio intenso,
Morte, sei tu dall' aflannoso amante! Quante la sera, e quante
Abbandonando all'alba il corpo stanco, Se beato chiamò s'indi giammai Non rilevasse il fianco,
Ne tornasse a veder l'amara luce! E spesso al suon della funebre squilla, Al canto che conduce
La gente morta al sempiterno obblio, Con più sospiri ardenti
Dall' imo petto invidio colui
Che tra gli spenti ad abitar sen giva. Fin la negletta plebe,
L'uom della villa, ignaro D'ogni virtù che da saper deriva, Fin la donzella timidetta e schiva, Che già di morte al nome Senti rizzar le chiome,
Osa alla tomba, alle funeree bende Fermar lo sguardo di costanza pieno, Osa ferro e veleno Meditar lungamente, E nell'indotta mente
La gentilezza del morir comprende. Tanto alla morte inclina
D'amor la disciplina. Anco sovente, A tal venuto il gran travaglio interno Che sostener nol può forza mortale, O cede il corpo frale
Ai terribili moti, e in questa forma
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