Che veramente è rea, che de' mortali Siccom'è il vero, ed ordinata in pria Tutti fra sè confederati estima Valida e pronta ed aspettando aita Dell' uomo armar la destra, e laccio porre Stolto crede così, qual fôra in campo Gl' inimici obbliando, acerbe gare Imprender con gli amici, E sparger fuga e fulminar col brando Infra i propri guerrieri. Così fatti pensieri Quando fien, come fur, palesi al volgo, E quell' orror che primo Contra l'empia natura Strinse i mortali in social catena Fia ricondotto in parte Da verace saper, l' onesto e il retto Conversar cittadino, E giustizia e pietade altra radice Avranno allor che non superbe fole, Così star suole in piede Quale star può quel c' ha in error la sede. Sovente in queste piagge, Che, desolate, a bruno Veste il flutto indurato, e par che ondeggi, Seggo la notte; e su la mesta landa In purissimo azzurro Veggo dall' alto fiammeggiar le stelle, Il mare, e tutto di scintille in giro Per lo vôto seren brillare il mondo. E poi che gli occhi a quelle luci appunto, Ch'a lor sembrano un punto, E sono immense in guisa Che un punto a petto a lor son terra e mare Veracemente; a cui L'uomo non pur, ma questo Sconosciuto è del tutto: e quando miro Ch' a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo Del numero infinite e della mole, Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle O sono ignote, o così paion come Essi alla terra, un punto Di luce nebulosa; al pensier mio Dell' uomo? E rimembrando Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno Il suol ch' io premo; e poi dall' altra parte, Credi tu data al Tutto, e quante volte Sembra tutte avanzar; qual moto allora, Come d'arbor cadendo un picciol pomo, Cui là nel tardo autunno Maturità senz' altra forza atterra, Con gran lavoro, e l'opre, E le ricchezze ch' adunate a prova In un punto; così d'alto piombando, Scagliata al ciel profondo Di ceneri, di pomici e di sassi Di bollenti ruscelli, O pel montano fianco Di liquefatti massi E di metalli e d' infocata arena Le cittadi che il mar là su l'estremo E infranse e ricoperse In pochi istanti: onde su quelle or pasce Sorgon dall' altra banda, a cui sgabello L' arduo monte al suo piè quasi calpesta. Dell' uom più stima o cura Ch' alla formica: e se più rara in quello Non avvien ciò d' altronde Fuor che l' uom sue prosapie ha men feconde. Ben mille ed ottocento Anni varcâr poi che spariro, oppressi E il villanello intento Ai vigneti che a stento in questi campi Sospettoso alla vetta Fatal, che nulla mai fatta più mite Il meschino in sul tetto Dell' ostel villereccio, alla vagante Sull' arenoso dorso, a cui riluce E di Napoli il porto e Mergellina. E se appressar lo vede, o se nel cupo Suo nido, e il picciol campo Che gli fu dalla fame unico schermo, Che crepitando giunge, e inesorato Dopo l'antica obblivion, l' estinta Avarizia o pietà rende all' aperto; Diritto infra le file De' mozzi colonnati il peregrino Ch' alla sparsa ruina ancor minaccia. Per li templi deformi e per le rotte Che per vôti palagi atra s' aggiri, Rosseggia e i Tochi intorno intorno tinge. Così, dell' uomo ignara, e dell' etadi Ch' ei chiama antiche, e del seguir che fanno Dopo gli avi i nepoti, Sta natura ognor verde, anzi procede Per si lungo cammino, Che sembra star. Caggiono i regni intanto, Che di selve odorate Queste campagne dispogliate adorni, Già noto, stenderà l'avaro lembo Ma non piegato insino allora indarno |