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studiai la cosmografia per fare quella grandissima navigazione cogli Argonauti: ma con tutto questo non trovo come abbia a pesare meno di prima.

Atlante. Della causa non so. Ma della leggerezza ch'io dico te ne puoi certificare adesso adesso, solo che tu voglia tôrre questa sulla mano per un momento, e provare il peso.

Ercole. In fe d' Ercole, se io non avessi provato, io non poteva mai credere. Ma che è quest' altra novità che vi scuopro? L'altra volta che io la portai, mi batteva forte sul dosso, come fa il cuore degli animali; e metteva un certo rombo continuo, che pareva un vespaio. Ma ora, quanto al battere, si rassomiglia a un oriuolo che abbia rotta la molla; e quanto al ronzare, io non vi odo un zitto.

Atlante. Anche di questo non ti so dire altro, se non ch' egli è già gran tempo, che il mondo finì di fare ogni moto e ogni romore sensibile: e io per me stetti con grandissimo sospetto che fosse morto, aspettandomi di giorno in giorno che m' infettasse col puzzo; e pensava come e in che luogo lo potessi seppellire, e l' epitaffio che gli dovessi porre. Ma poi veduto che non marciva, mi risolsi che di animale che prima era, si fosse convertito in pianta, come Dafne e tanti altri; e che da questo nascesse che non si moveva e non fiatava e ancora dubito che fra poco non mi gitti le radici per le spalle, e non vi si abbarbichi.

Ercole. Io piuttosto credo che dorma, e che questo sonno sia della qualità di quello di Epimenide, che durò un mezzo secolo e più; o come si dice di Ermotimo 2, che l'anima gli usciva del corpo ogni volta che voleva, e stava fuori molti anni, andando a diporto per diversi paesi, e poi tornava, finchè gli amici, per finire questa canzone, abbruciarono il corpo; e così lo spirito ritornato per entrare, trovò che la casa gli era disfatta, e che se voleva alloggiare al coperto, gliene conveniva pigliar un' altra a pigione, o andare al'osteria. Ma per fare che il mondo non dorma in eterno, e che qualche amico o benefattore, pensando che egli sia morto, non gli dia fuoco, io voglio che noi proviamo qualche modo di risvegliarlo.

Atlante. Bene, ma che modo?

Plinio, lib. 7, cap. 52. Diogene Laerzio, lib. 1, segm. 109. Apollonio, Hist. commentit. cap. 1. Varrone, de Ling. lat. lib. 7. Plutarco, an seni gerenda sit respub. opp. ed. Francof. 1620, tom. 2, p. 784. Tertulliano, de Anima cap. 44. Pausania, lib. 1, cap. 10, ed. Kuhn p. 35. Appendice vaticana dei Proverbi, centur 3, proverb. 97. Suida, voc. Enμeviors. Luciano, Timon. opp. ed. Amstel. 1687, tom. 1, pag. 69.

2 Apollonio, Hist. commentit. cap. 3. Plinio, lib. 7, cap. 52. Tertulliano, de Anima cap. 44. Luciano, Encom. Musc. opp tom. 2, pag. 376. Origene, contra Cels. lib. 3, cap. 32.

Ercole. Io gli farei toccare una buona picchiata di questa clava: ma dubito che lo finirei di schiacciare, e che io non ne facessi una cialda; o che la crosta, atteso che riesce così leggero, non gli sia tanto assottigliata, che egli mi scricchioli sotto il colpo come un uovo. E anche non mi assicuro che gli uomini che al tempo mio combattevano a corpo a corpo coi leoni e adesso colle pulci, non tramortiscano dalla percossa tutti in un tratto. Il meglio sarà ch' io posi la clava e tu il pastrano, e facciamo insieme alla palla con questa sferuzza. Mi dispiace ch'io non ho recato i bracciali o le racchette che adoperiamo Mercurio ed io per giocare in casa di Giove o nell' orto: ma le pugna basteranno.

Atlante. Appunto; acciocchè tuo padre, veduto il nostro giuoco e venutogli voglia di entrare in terzo, colla sua palla infocata ci precipiti tutti e due non so dove, come Fetonte nel Po.

Ercole. Vero, se io fossi, come era Fetonte, figliuolo di un poeta, e non suo figliuolo proprio; e non fossi anche tale, che se i poeti popolarono le città col suono della lira, a me basta l'animo di spopolare il cielo e la terra a suono di clava. E la sua palla, con un calcio che le tirassi, io la farei schizzare di qui fino all' ultima soffitta del cielo empireo. Ma sta' sicuro che quando anche mi venisse fantasia di sconficcare cinque o sei stelle per fare alle castelline, o di trarre al bersaglio con una cometa, come con una fromba, pigliandola per la coda, o pure di servirmi proprio del sole per fare il giuoco del disco, mio padre farebbe le viste di non vedere. Oltre che la nostra intenzione con questo giuoco è di far bene al mondo, e non come quella di Fetonte, che fu di mostrarsi leggero della persona alle Ore, che gli tennero il montatoio quando sali sul carro; e di acquistare opinione di buon cocchiere con Andromeda e Callisto e colle altre belle costellazioni, alle quali è voce che nel passare venisse gittando mazzolini di raggi e pallottoline di luce confettate; e di fare una bella mostra di sè tra gli Dei del cielo nel passeggio di quel giorno, che era di festa. In somma, della collera di mio padre non te ne dare altro pensiero, chè io m'obbligo, in ogni caso, a rifarti i danni; e senza più cávati il cappotto e manda la palla.

Atlante. O per grado o per forza, mi converrà fare a tuo modo; perchè tu sei gagliardo e coll' arme, e io disarmato e vecchio. Ma guarda almeno di non lasciarla cadere, che non se le aggiungessero altri bernoccoli, o qualche parte se le ammaccasse, o crepasse, come quando la Sicilia si schiantò dall' Italia e l'Affrica dalla Spagna; o non ne saltasse via qualche scheggia, come a dire una provincia o un regno, tanto che ne nascesse una guerra.

Ercole. Per la parte mia non dubitare.

Atlante. A te la palla. Vedi che ella zoppica, perchè l' è guasta la figura.

Ercole. Via, dálle un po' più sodo, chè le tue non arrivano.

Atlante. Qui la botta non vale, perchè ci tira garbino al solito, e la palla piglia vento, perch' è leggera.

Ercole. Cotesta è sua pecca vecchia, di andare a caccia del vento.

Atlante. In verità non saria mal fatto che ne la gonfiassimo, chè veggo che ella non balza d' in sul pugno più che un popone.

Ercole. Cotesto è difetto nuovo, chè anticamente ella balzava e saltava come un capriolo.

Atlante. Corri presto in là; presto ti dico; guarda per Dio, ch'ella cade: mal abbia il momento che tu ci sei venuto.

Ercole. Così falsa e terra terra me l' hai rimessa, che io non poteva essere a tempo se m'avessi voluto fiaccare il collo. Oimè, poverina, come stai? ti senti male a nessuna parte? Non s'ode un fiato e non si vede muovere un' anima, e mostra che tutti dormano come prima.

Atlante. Lasciamela per tutte le corna dello Stige, che io me la raccomodi sulle spalle; e tu ripiglia la clava, e torna subito in cielo a scusarmi con Giove di questo caso, ch'è seguito per tua cagione.

Ercole. Così farò. È molti secoli che sta in casa di mio padre un certo poeta, di nome Orazio, ammessoci come poeta di corte ad instanza di Augusto, che era stato deificato da Giove per considerazioni che si dovettero avere alla potenza dei Romani. Questo poeta va canticchiando certe sue canzonette, fra l'altre una dove dice che l'uomo giusto non si muove se ben cade il mondo. Crederò che oggi tutti gli uomini sieno giusti, perchè il mondo è caduto, e niuno s'è

mosso.

Atlante. Chi dubita della giustizia degli uomini? Ma tu non istare a perder più tempo, e corri su presto a scolparmi con tuo padre, chè io m' aspetto di momento in momento un fulmine che mi trasformi di Atlante in Etna.

DIALOGO

DELLA MODA E DELLA MORTE.

Moda. Madama Morte, Madama Morte.

Morte. Aspetta che sia l'ora, e verrò senza che tu mi chiami.

Moda. Madama Morte.

Morte. Vattene col diavolo. Verrò quando tu non vorrai.
Moda. Come se io non fossi immortale!
Morte.

Immortale?

Passato è già più che 'l millesim' anno,

che son finiti i tempi degl' immortali.

Moda. Anche Madama petrarcheggia come fosse un lirico italiano del cinque o dell' ottocento?

Morte. Ho care le rime del Petrarca, perchè vi trovo il mio Trionfo, e perchè parlano di me quasi dappertutto. Ma in somma levamiti d' attorno.

Moda. Via, per l'amore che tu porti ai sette vizi capitali, férmati tanto o quanto, e guardami.

Morte. Ti guardo.

Moda. Non mi conosci?

Morte. Dovresti sapere che ho mala vista, e che non posso usare occhiali, perchè gl' Inglesi non ne fanno che mi valgano, e quando ne facessero, io non avrei dove me gl' incavalcassi.

Moda. Io sono la Moda, tua sorella.

Morte. Mia sorella?

Moda. Si: non ti ricordi che tutte e due siamo nate dalla Caducità?

Morte. Che m'ho a ricordare io, che sono nemica capitale della memoria?

Moda. Ma io me ne ricordo bene; e so che l' una e l' altra tiriamo parimente a disfare e a rimutare di continuo le cose di quaggiù, benchè tu vada a questo effetto per una strada e io per un' altra.

Morte. In caso che tu non parli col tuo pensiero o con persona che tu abbi dentro alla strozza, alza più la voce é scolpisci meglio le parole; chè se mi vai borbottando tra' denti con quella vocina da ragnatelo, io t' intenderò domani, perchè l'udito, se non sai, non mi serve meglio che la vista.

Moda. Benchè sia contrario alla costumatezza, e in Francia non si usi di parlare per essere uditi, pure perchè siamo sorelle, e tra noi possiamo fare senza troppi rispetti, parlerò

come tu vuoi. Dico che la nostra natura e usanza comune è di rinnovare continuamente il mondo; ma tu fino da principio ti gittasti alle persone e al sangue; io mi contento per lo più delle barbe, dei capelli, degli abiti, delle masserizie, dei furnit palazzi e di cose tali. Ben è vero che io non sono però mancata e non manco di fare parecchi giuochi da paragonare ai tuoi, come verbigrazia sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi, e stracciarli colle bazzecole che io v' appicco per li fori; abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi che io fo che essi v'improntino per bellezza; formare le teste dei bambini con fasciature e altri ingegni, mettendo per costume che tutti gli uomini del paese abbiano a portare il capo di una figura, come ho fatto in America e in Asia 1; storpiare la gente colle calzature snelle; chiuderle il fiato e fare che gli occhi le scoppino dalla strettura dei bustini; e cento altre cose di questo andare. Anzi generalmente parlando, io persuado e costringo tutti gli uomini gentili a sopportare ogni giorno mille fatiche e mille disagi, e spesso dolori e strazi, e qualcuno a morire gloriosamente per l'amore che mi portano. Io non vo' dire nulla dei mali di capo, delle infreddature, delle flussioni di ogni sorta, delle febbri quotidiane, terzane, quartane, che gli uomini si guadagnano per ubbidirmi, consentendo di tremare dal freddo o affogare dal caldo secondo che io voglio, difendersi le spalle coi panni lani, e il petto con quei di tela, e fare d'ogni cosa a mio modo ancorchè sia con loro danno.

Morte. In conclusione io ti credo che mi sii sorella e, se tu vuoi, l'ho per più certo della morte, senza che tu me ne cavi la fede del parrocchiano. Ma stando così ferma, io svengo; e però, se ti dà l'animo di corrermi allato, fa' di non vi crepare, perch' io fuggo assai, e correndo mi potrai dire il tuo bisogno; se no, a contemplazione della parentela, ti prometto, quando io muoia, di lasciarti tutta la mia roba, è rimanti col buon anno.

Moda. Se noi avessimo a correre insieme il palio, non so chi delle due si vincesse la prova, perchè se tu corri, io vo meglio che di galoppo; e a stare in un luogo, se tu ne svieni, io me ne struggo. Sicchè ripigliamo a correre, e correndo, come tu dici, parleremo dei casi nostri.

In proposito di quest' uso, il quale è commune a molti popoli barbari, di transfigurare a forza le teste; è notabile un luogo d'Ippocrate, de Aere, Aquis et Locis, opp. ed Mercurial. class. 1, pag. 29, sopra una nazione del Ponto, detta dei Macrocefali, cioè Testelunghe; i quali ebbero per usanza di costringere le teste dei bambini in maniera, che elle riuscissero più lunghe che si potesse: e trascurata poi questa pratica, nondimeno i loro bambini nascevano colla testa lunga: perchè, dice Ippocrate, così erano i genitori.

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