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talmente l'ossa e le midolle che le nevi della montagna non gli furono più sopportabili, nell' acerbezza de' suoi dolori, egli si chiamò tradito da quegli uomini e da quella natura stessa che aveva già benedetta, dispregiò gli uni e maledisse l' altra; e, benchè insino alle lacrime dolentissimo de' suoi cari congiunti, il più costante desiderio della sua vita fu d'andarne a vivere altrove.

Spinto da così fieri stimoli, nel novembre del 22 venne a Roma, dove contemplò avidamente nelle eterne cose quella più che umana antichità ch' egli aveva tanto contemplata negli eterni volumi. Poscia s' involse non meno avidamente fra i codici, massime della Barberiniana, v' imprese un catalogo dei manoscritti greci, ed altri gravi e stupendi lavori; e se la natura e la fortuna non gli avessero così iniquamente mancato, l'immortale Mai, ch' egli tanto e tanto meritamente ammirò, non sarebbe stato più solo. Visitato e carezzato a ventiquattro anni dai più gravi oltramontani che dimoravano allora in quella città, il sommo Niebuhr faceva pubblica fede al mondo della presente e futura grandezza del giovane recanatese; ed in nome della dottissima Germania, che egli così nobilmente rappresentava, gli offerì indarno in Prussia, quel che non gli avrebbe offerto indarno e mai non gli offerò l' infelicissima Italia, una cattedra di filosofia greca. Poscia, vagando tuttavia solitario, interrogò lungamente quei silenzi e quelle ruine, e lungamente, in sul tramonto del dì, pianse, al lontano pianto delle campane, la passata e morta grandezza. E nel maggio del 23 si ritrasse mesto e taciturno alla solitudine natia.

Quivi, mentre l' inesorabile natura avanzava, senza mai posare, nel suo mortifero lavoro, egli pianse, oltre a due anni, i desiderii e le speranze perdute; e nel luglio del 25 gli parve trarsi dagli artigli della morte quando viaggiò, per Bologna, a Milano, dove il tipografo Stella l' invocava come prezioso ed inesausto tesoro di erudizione. Quindi gl'indizi e la fama anticipata d'un gran freddo futuro lo risospinsero a Bologna, ch' era stanza allora d' ospitalità, d' onesta letizia e di sapere. In Bologna, com'è variata Italia nella sua divina bellezza, s' innebriò di cordialità, non altrimenti che in Roma s' era innebbriato di grandezza; v' attese con diletto alla correzione delle sue poesie, che si stampavano quivi stesso, e delle sue prose, che si stampavano in Milano: e (salva una breve corsa a Ravenna, ove si compiacque di contemplare gli ultimi aneliti dell' antichità) vi dimorò insino al novembre del 26, che si rimise in Recanati.

Ma quell' incomprensibile, e quasi più che umano, dolore, che fu principio e fine di tutto l' essere del Leopardi, non lo lasciava mai riposare fra le dolcezze familiari, che sono pur sempre o il maggior bene o il minor male che gli uomini

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suoi amici di Toscana, dedicò tutti i suoi più preziosi tesori, le sue poesie e le sue prose nella bella edizione che ne diede, e il suo alto dolore nell' affettuosa lettera che vi prepose.

Ma nè gli amici, nè la primavera o la state, nè la Toscana stessa e i suoi incanti, valsero a fermare o a pur mitigare l'improba mano della matrigna natura, che veniva da sè stessa spietatamente distruggendo il più delicato de' suoi lavori. Il male del Leopardi era indefinibile, perchè, consistendo nelle più riposte fonti della vita, era, come la vita stessa, inesplicabile. Le ossa si rammollivano e disfacevano ogni dì più, e negavano il loro ancorchè debole sostegno alle misere carni che le ricoprivano. Le carni stesse dimagravano e isterilivano ogni dì, perchè i visceri del nutrimento ne rifiutavano loro l'assimilazione. I polmoni, stretti in troppo angusto spazio, e parte non sani, si dilatavano a fatica. A fatica il cuore si sprigionava dalla linfa, onde uno stanco riassorbimento lo gravava. Il sangue, che mal si rinnovava nello stentato ed affannoso respiro, si rivolgeva freddo, bianco e lentissimo per le vene affievolite. E, in somma, tutto il misterioso circolo della vita, che a così grande stento si moveva, sembrava ad ora ad ora di dover fermare per sempre. Forse che la grande spugna cerebrale, principio e fine di quel misterioso circolo, aveva succhiato prepotentemente tutte le forze vitali, e consumato, ella sola, e in poco d' ora, quel ch' era destinato a bastare, per gran tempo, al tutto. Ma, che che si sia, la vita del Leopardi non era più un correre, come in tutti gli uomini, ma più veramente un precipitare verso la morte.

Valicato, per un gran mare di dolore materiale ed intellettuale, tutto l'inverno fra il 30 e il 31, afferrò l' invocata primavera, e parve ancora qualche momento risorgere. Ma la sopravvegnente estate l' aggravò sì fattamente, che l' approssimare dell' autunno e, più ancora, dell' altro inverno, empì gli amici di spavento. I quali consigliatolo di ridursi a passare in Roma le due temute stagioni, vi si ridusse docilmente ai primi dì dell' ottobre. E sospirata alcun dì la grazia e la leggiadria toscana, dopo che si fu riavuto e rifatto di quell'aria e di quella luce, ricominciò l'antico vagare per quelle eterne bellezze, e un dì, pronunziò sorridendo, che s'era riconciliato con Roma. Non gli accadde, a questa volta, di fremere o di piangere, perchè l' età del fremito e del pianto era fuggita: ma sorrideva amaramente del tristo fine a cui riesce ogni cosa più grande e dei fastidiosi e lugubri vermi che si generano dalla putrefazione dei più nobili cadaveri. E nondimeno non conobbe mai una primavera toscana chi non intende che ai primi fiori ch' egli vide spuntare fra quelle ruine, desiderò irresistibilmente di ricondursi in Firenze dove giunse in effetto sul primo appropinquare dell' aprile.

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INTORNO AGLI SCRITTI, ALLA VITA ED AI COSTUMI

Quivi, finchè i germi di vita e di sanità che gli si erano innestati nel Mezzodì prosperarono, traversò recipientemente la primavera e la state. E fu talora che, nell' ebbra stupefazione di quell' aure odorose ed incantatrici, sospirò l' ultima volta a una felicità sovrumana alla quale non giunse mai nessun uomo, e dalle cui ombre (quando l'autunno e il verno ebbero mortificate quell' aure e consumati e uccisi quei germi) precipitò nelle più atroci realtà dell' inesorabile morbo che lo distruggeva.

Se Roma ha potuto tanto, che cosa non potrà Napoli?.... Questo fu il pensiero che soccorse alla mente de' suoi medici e de' suoi più affezionati amici, in tanta disperazione d' ogni altro umano rimedio. Nè egli fu già duro o indocile al loro affetto: e scampato, come per miracolo, dai rigori dell' inverno, e veduto, nella primavera e nell' estate seguente, che nè quei fiori nè quelle grazie erano più bastanti a mitigare la fierezza de' suoi mali, in sui primi dì di settembre del 33 si partì, che sentiva tuttavia di febbre, di Firenze, e, venuto a piccolissime giornate per la via di Perugia, lasciò la febbre agli alberghi, e pervenne, mediocremente sollevato, in Roma. Quivi dimorò il rimanente del settembre; ed, abbracciato, per l' ultima volta, il suo amorosissimo cugino Melchiorri, giunse in Napoli il secondo di dell' ottobre.

Quivi è incredibile a dire quanto si confortasse e si ricreasse di quella stagione, dell' aere e di quel vivere rigoglioso ed allegro. Abitò comunemente il poggio suburbano di Capodimonte se non se il maggio e l' ottobre, che si riduceva a un casinuccio in su le falde del Vesuvio. Minacciato, per istrana vicenda, ora di tisico, ora d' idropisia, schermiva alternatamente l' una colla sottigliezza dell' aria del Vesuvio, l' altro colla dolcezza dell' aria di Capodimonte. Passeggiava ora per Toledo, ora lungo il curvo e spazioso lido del mare. Visitava assai frequentemente ora Mergellina e Posilipo, ora Pozzuoli e Cuma. Scendeva da Capodimonte alle catacombe, e dal Vesuvio a Pompei o ad Ercolano: e come in Roma aveva apostrofato agli antichi o in mezzo al foro o sotto gli archi trionfali, quivi ragionava dimesticamente con loro nelle loro più segrete stanze e nei loro ricetti più occulti.

La novità e la salubrità squisitissima dell' aria, l'affettuosa compagnia di alcuni paesani, la visitazione continua e diversa di tutti i più dotti stranieri ch' ivi abbondantemente capitavano, e quel suo nuovo vivere aperto e sciolto e al tutto fuori dell'uso della sua abituale disposizione, parvero allentare, e forse allentarono effettivamente, per quattro lunghi anni, l' operosa e instancabile attività del malore. Egli riebbe miracolosamente l' ordinato esercizio di molte operazioni vitali che insino dalla prima infanzia aveva provate disordinatissime;

e cominciò a pronosticarsi una vita delle più lunghe. L'efficienza malefica della natura cominciò a parergli, se non al tutto placata, almeno in parte assopita; e questo concetto, o vero o falso, l' avrebbe forse sostenuto ancora qualche tempo in vita, s' egli non si fosse presupposto, in un modo al tutto inopinato ed insanabile, che la pestilenza colerica (ampliatasi allora in tutto l'Occidente) era fatalmente deputata o a rinnasprirla di nuovo o a ridestarla.

Era l'agosto del 36, quando, al primo ed ancora lontano annunzio del morbo, desiderò di ridursi nel suo casinuccio all'aperto della campagna, donde non consentì di tornare a Capodimonte se non nel febbraio del 37. Quivi moltiplicarono i sintomi dell' idropisia, come alla più aperta campagna erano moltiplicati i sintomi dell' etica. E parte la pestilenza, che nel verno parve dileguata del tutto, risorta assai più fiera e spaventevole nella primavera, rinnovò nell' egra fantasia i terrori d' un modo di morte incognito ed abbominoso, già sventuratamente innestatigli dal celebre poeta tedesco, Platen, che i medesimi terrori avevano ucciso (assai prima che il morbo vi giungesse) in Siracusa. Tutti i consigli dei più gravi ed esperimentati medici della città, fra i quali l' aureo Mannella e il Postiglione, tutti i più vigorosi ed estremi partiti della scienza, furono indarno. E il mercoledì 14 di giugno, alle ore cinque dopo il mezzodì, mentre una carrozza l'attendeva, per ricondurlo (ultima e disperata prova) al suo casino, ed egli divisava future gite e future veglie campestri, le acque, che già da gran tempo tenevano le vie del cuore, abbondarono micidialmente nel sacco che lo ravvolge, ed oppressa la vita alla sua prima origine, quel grande uomo rendette sorridendo il nobilissimo spirito fra le braccia di un suo amico che lo amò e lo pianse senza fine.

Così contemplò l'universo, così visse e così morì Giacomo Leopardi, uno dei più grandi scrittori, e (se avesse sortito il nascere altrove) uno dei più grandi uomini che sieno surti in questi ultimi tempi, non solo in Italia, ma in Europa. Grande per maraviglioso e quasi sovrumano ingegno, grande per isterminati e quasi incredibili studi e per prose e poesie altissime ed inimitabili, fu grandissimo e facilmente unico per la modestia e l' innocenza de' suoi costumi. Quest' uomo degno per tutte le parti di un secolo migliore, si portò intatto nel sepolcro il fiore della sua verginità; e, per questo medesimo, amò due volte (benchè senza speranza) come mai nessun uomo aveva amato sulla terra. Giusto, umano, liberale, magnanimo e lealissimo, s'immaginò da principio che gli uomini fossero in tutto buoni. Tradito e disingannato del soverchio che ne aveva sperato, concluse da ultimo ch' erano in tutto cattivi. E solo la prematura morte l' impedì di giungere a quella terza

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