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natura e dove questi tali casi non sono occorsi, veggiamo che i popoli sono ancora barbari; con tutto che abbiano altrettanta età quanta i popoli civili. Dico io dunque: se l'uomo barbaro mostra di essere inferiore per molti capi a qualunque altro animale; se la civiltà, che è l'opposto della barbarie, non è posseduta nè anche oggi se non da una piccola parte del genere umano; se oltre di ciò, questa parte non è potuta altrimenti pervenire al presente stato civile, se non dopo una quantità innumerabile di secoli, e per beneficio massimamente del caso, piuttosto che di alcun' altra cagione; all'ultimo, se il detto stato civile non è per anche perfetto; considera un poco se forse la tua sentenza circa il genere umano fosse più vera acconciandola in questa forma: cioè dicendo che esso è veramente sommo tra i generi, come tu pensi; ma sommo nell' imperfezione, piuttosto che nella perfezione: quantunque gli uomini nel parlare e nel giudicare, scambino continuamente l' una coll' altra; argomentando da certi cotali presupposti che si hanno fatto essi, e tengonli per verità palpabili. Certo che gli altri generi di creature fino nel principio furono perfettissimi ciascheduno in sè stesso. E quando eziandio non fosse chiaro che l' uomo barbaro, considerato in rispetto agli altri animali, è meno buono di tutti; io non mi persuado che l' essere naturalmente imperfettissimo nel proprio genere, come pare che sia l' uomo, s' abbia a tenere in conto di perfezione maggiore di tutte l' altre. Aggiungi che la civiltà umana, così difficile da ottenere, e forse impossibile da ridurre a compimento, non è anco stabile in modo, che ella non possa cadere: come in effetto si trova essere avvenuto più volte, e in diversi popoli, che ne avevano acquistato una buona parte. In somma io conchiudo che se tuo fratello Epimeteo recava ai giudici il modello che debbe avere adoperato quando formò il primo asino o la prima rana, forse ne riportava il premio che tu non hai conseguito. Pure a ogni modo io ti concederò volentieri che l'uomo sia perfettissimo, se tu ti risolvi a dire che la sua perfezione si rassomigli a quella che si attribuiva da Plotino al mondo: il quale, diceva Plotino, è ottimo e perfetto assolutamente; ma perchè il mondo sia perfetto, conviene che egli abbia in sè, tra le altre cose, anco tutti i mali possibili; però in fatti si trova in lui tanto male, quanto vi può capire. E in questo rispetto forse io concederei similmente al Leibnizio che il mondo presente fosse il migliore di tutti i mondi possibili.

Non si dubita che Prometeo non avesse a ordine una risposta in forma distinta, precisa e dialettica a tutte queste ragioni; ma è parimente certo che non la diede: perchè in questo medesimo punto si trovarono sopra alla città di Londra: dove scesi, e veduto gran moltitudine di gente concorrere alla

LEOPARDI.

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porta di una casa privata, messisi tra la folla, entrarono nella casa, e trovarono sopra un letto un uomo disteso supino, che avea nella ritta una pistola; ferito nel petto, e morto; e accanto a lui giacere due fanciullini, medesimamente morti. Erano nella stanza parecchie persone della casa, e alcuni giudici, i quali le interrogavano, mentre che un officiale scriveva.

Prometeo. Chi sono questi sciagurati?
Famiglio. Il mio padrone e i figliuoli.
Prometeo. Chi gli ha uccisi?

Famiglio. Il padrone tutti e tre.

Prometeo. Tu vuoi dire i figliuoli e sè stesso?
Famiglio. Appunto.

Prometeo. Oh che è mai cotesto! qualche grandissima sventura gli doveva essere accaduta.

Famiglio. Nessuna, che io sappia.

Prometeo. Ma forse era povero, o disprezzato da tutti, o sfortunato in amore, o in corte?

Famiglio. Anzi ricchissimo, e credo che tutti lo stimassero; di amore non se ne curava, e in corte aveva molto favore. Prometeo. Dunque come è caduto in questa disperazione? Famiglio. Per tedio della vita, secondo che ha lasciato

scritto.

Prometeo. E questi giudici che fanno?

Famiglio. S'informano se il padrone era impazzito o no: che in caso non fosse impazzito, la sua roba ricade al pubblico per legge e in verità non si potrà fare che non ricada.

Prometeo. Ma, dimmi, non aveva nessuno amico o parente, a cui potesse raccomandare questi fanciulli, in cambio d' ammazzarli?

Famiglio. Si aveva; e tra gli altri, uno che gli era molto intrinseco, al quale ha raccomandato il suo cane 1.

Momo stava per congratularsi con Prometeo sopra i buoni effetti della civiltà, e sopra la contentezza che appariva ne risultasse alla nostra vita; e voleva anche rammemorargli che nessun altro animale fuori dell' uomo, si uccide volontariamente esso medesimo, nè spegne per disperazione della vita i figliuoli: ma Prometeo lo prevenne; e senza curarsi di vedere le due parti del mondo che rimanevano, gli pagò la scommessa.

1 Questo fatto è vero.

DIALOGO

DI UN FISICO E DI UN METAFISICO.

Fisico. Eureca, eureca1.

Metafisico. Che è? che hai trovato?
Fisico. L'arte di vivere lungamente
Metafisico. E cotesto libro che porti?

Fisico. Qui la dichiaro: e per questa invenzione, se gli altri vivranno lungo tempo, io vivrò per lo meno in eterno; voglio dire che ne acquisterò gloria immortale.

Metafisico. Fa' una cosa a mio modo. Trova una cassettina di piombo, chiudivi cotesto libro, sotterrala, e prima di morire ricòrdati di lasciar detto il luogo, acciocchè vi si possa andare, e cavare il libro, quando sarà trovata l'arte di vivere felicemente.

Fisico. E in questo mezzo?

Metafisico. In questo mezzo non sarà buono' da nulla. Più lo stimerei se contenesse l'arte di viver poco.

Fisico. Cotesta è già saputa da un pezzo; e non fu difficile a trovarla.

1 Famose voci di Archimede, quando egli ebbe trovato la via di conoscere il furto fatto dall' artefice nel fabbricare la corona votiva del re Gerone.

2 I desiderosi di quest' arte potranno in effetto, non so se apprenderla, ma studiarla certamente in diversi libri, non meno moderni che antichi: come, per modo di esempio, nelle Lezioni dell' arte di prolungare la vita umana scritte ai nostri tempi in tedesco dal signor Hufeland, state anco volgarizzate e stampate in Italia. Nuova maniera di adulazione fu quella di un Tommaso Giannotti medico da Ravenna, detto per soprannome il filologo, e stato famoso a' suoi tempi; il quale nell' anno 1550 scrisse a Giulio terzo, assunto in quello stesso anno al pontificato, un libro de vita hominis ultra CXX annos protrahenda, molto a proposito dei Papi, come quelli che quando incominciano a regnare, sogliono essere di età grande. Sarebbe libro da ridere, se non fosse oscurissimo. Dice il medico, averlo scritto a fine principalmente di prolungare la vita al nuovo Pontefice, necessaria al mondo; confortato anche a scriverlo da due Cardinali, desiderosi oltremodo dello stesso effetto. Nella dedicatoria, vives igitur, dice, beatissime pater, ni fallor, diutissime. E nel corpo dell' opera, avendo cercato in un capitolo intero cur Pontificum supremorum nullus ad Petri annos pervenerit, ne intitola un altro in questo modo: Iulius III papa videbit annos Petri et ultra; huius libri, pro longaeva hominis vita ac christianae religionis commodo, immensa utilitate. Ma il Papa morì cinque anni appresso, in età di sessantasette. Quanto a sè, il medico prova che se egli per caso non passerà o non toccherà il centoventesimo anno dell' età sua, non sarà sua colpa, e i suoi precetti non si dovranno disprezzare per questo. Si conchiude il libro con una ricetta intitolata, Iulii III vitae longaevae ac semper sanae consilium.

Metafisico. In ogni modo la stimo più della tua.
Fisico. Perchè?

Metafisico. Perchè se la vita non è felice, che fino a ora non è stata, meglio ci torna averla breve che lunga.

Fisico. Oh cotesto no: perchè la vita è bene da sè medesima, e ciascuno la desidera e l'ama naturalmente.

Metafisico. Così credono gli uomini, ma s'ingannano : come il volgo s' inganna pensando che i colori sieno qualità degli oggetti: quando non sono degli oggetti, ma della luce. Dico che l'uomo non desidera e non ama se non la felicità propria. Però non ama la vita, se non in quanto la reputa instrumento o subbietto di essa felicità. In modo che propriamente viene ad amare questa e non quella, ancorchè spessissimo attribuisca all' una l'amore che porta all' altra. Vero è che questo inganno e quello dei colori sono tutti e due naturali. Ma che l'amore della vita negli uomini non sia naturale, o vogliamo dire non sia necessario, vedi che moltissimi ai tempi antichi elessero di morire potendo vivere, e moltissimi ai tempi nostri desiderano la morte in diversi casi, e alcuni si uccidono di propria mano. Cose che non potrebbero essere se l'amore della vita per sè medesimo fosse natura dell' uomo. Come essendo natura di ogni vivente l'amore della propria felicità, prima cadrebbe il mondo, che alcuno di loro lasciasse di amarla e di procurarla a suo modo. Che poi la vita sia bene per sè medesima, aspetto che tu me lo provi, con ragioni o fisiche o metafisiche di qualunque disciplina. Per me, dico che la vita felice, saria bene senza fallo; ma come felice, non come vita. La vita infelice, iu quanto all' essere infelice, è male; e atteso che la natura, almeno quella degli uomini, porta che vita e infelicità non si possono scompagnare, discorri tu medesimo quello che ne segua.

Fisico. Di grazia, lasciamo cotesta materia, che è troppo malinconica; e senza tante sottigliezze, rispondimi sinceramente se l'uomo vivesse e potesse vivere in eterno; dico senza morire, e non dopo morto; credi tu che non gli piacesse ?

Metafisico. A un presupposto favoloso risponderò con qualche favola; tanto più che non sono mai vissuto in eterno, sicchè non posso rispondere per esperienza; nè anche ho parlato con alcuno che fosse immortale; e fuori che nelle favole, non trovo notizia di persone di tal sorta. Se fosse qui presente il Cagliostro, forse ci potrebbe dare un poco di lume; essendo vissuto parecchi secoli: se bene, perchè poi morì come gli altri, non pare che fosse immortale. Dirò dunque che il saggio Chirone, che era dio, coll' andar del tempo si annoiò della vita, pigliò licenza da Giove di poter morire, e

morì1. Or pensa, se l'immortalità rincresce agli Dei, che farebbe agli uomini. Gl' Iperborei, popolo incognito, ma famoso; ai quali non si può penetrare, nè per terra nè per acqua; ricchi di ogni bene; e specialmente di bellissimi asini, dei quali sogliono fare ecatombe; potendo, se io non m' inganno, essere immortali; perchè non hanno infermità nè fatiche nè guerre nè discordie nè carestie nè vizi nè colpe, contuttociò muoiono tutti: perchè, in capo a mille anni di vita o circa, sazi della terra, saltano spontaneamente da una certa rupe in mare, e vi si annegano 2. Aggiungi quest' altra favola. Bitone e Cleobi fratelli, un giorno di festa, che non erano in pronto le mule, essendo sottentrati al carro della madre, sacerdotessa di Giunone, e condottala al tempio; quella supplicò la dea che rimunerasse la pietà de' figliuoli col maggior bene che possa cadere negli uomini. Giunone, in vece di farli immortali, come avrebbe potuto; e allora si costumava; fece che l'uno e l'altro pian piano se ne morirono in quella medesima ora. Il simile toccò ad Agamede e a Trofonio. Finito il tempio di Delfo, fecero instanza ad Apollo che li pagasse il quale rispose volerli soddisfare fra sette giorni; in questo mezzo attendessero a far gozzoviglia a loro spese. La settima notte, mandò loro un dolce sonno, dal quale ancora s' hanno a svegliare; e avuta questa, non dimandarono altra paga. Ma poichè siamo in sulle favole, eccotene un' altra, intorno alla quale ti vo' proporre una questione. Io so che oggi i vostri pari tengono per sentenza certa, che la vita umana, in qualunque paese abitato, e sotto qualunque cielo, dura naturalmente, eccetto piccole differenze, una medesima quantità di tempo, considerando ciascun popolo in grosso. Ma qualche buono antico racconta che gli uomini di alcune parti dell' India e dell' Etiopia non campano oltre a quarant' anni; chi muore in questa età, muor vecchissimo; e le fanciulle di sette anni sono di età da marito. Il quale ultimo capo sappiamo che, appresso a poco, si verifica nella Guinea, nel Decan e in altri luoghi sottoposti alla zona torrida. Dunque, presupponendo per vero che si trovi una o più nazioni, gli uomini delle quali regolarmente non passino i quarant'anni di vita; e ciò sia per natura, non, come si è creduto degli Ottentotti, per altre cagioni; domando se in rispetto a questo, ti pare che i detti popoli debbano essere più miseri o più felici degli altri?

1 Vedi Luciano, Dial. Menip. et Chiron. opp. tom. 1, pag. 514.

2 Pindaro, Pyth. od. 10, r. 46 et seqq. Strabone, lib. 15, p. 710 et seqq. Mela, lib. 3, cap. 5. Plinio, lib. 4, cap. 12 in fine.

3 Plinio, lib. 6, cap. 30; lib. 7, cap. 2.

Arriano, Indic. cap. 9.

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