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sero; mi posi a cangiar luoghi e climi, per vedere se in alcuna parte della terra potessi non offendendo non essere offeso, e non godendo non patire. E a questa deliberazione fui mosso anche da un pensiero che mi nacque, che forse tu non avessi destinato al genere umano se non solo un clima della terra (come tu hai fatto a ciascuno degli altri generi degli animali, e di quei delle piante), e certi tali luoghi; fuori dei quali gli uomini non potessero prosperare nè vivere senza difficoltà e miseria; da dover essere imputate, non a te, ma solo a essi medesimi, quando eglino avessero disprezzati e trapassati i termini che fossero prescritti per le tue leggi alle abitazioni umane. Quasi tutto il mondo ho cercato, e fatta esperienza di quasi tutti i paesi; sempre osservando il mio proposito, di non dar molestia alle altre creature, se non il meno che io potessi, e di procurare la sola tranquillità della vita. Ma io sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall' incostanza dell'aria, infestato dalle commozioni degli elementi in ogni dove. Più luoghi ho veduto, nei quali non passa un dì senza temporale: che è quanto dire che tu dái ciascun giorno un assalto e una battaglia formata a quegli abitanti, non rei verso te di nessun' ingiuria. In altri luoghi la serenità ordinaria del cielo è compensata dalla frequenza dei terremoti, dalla moltitudine e dalla furia dei vulcani, dal ribollimento sotterraneo di tutto il paese. Venti e turbini smoderati regnano nelle parti e nelle stagioni tranquille dagli altri furori deil'aria. Talvolta io mi ho sentito crollare il tetto in sul capo pel gran carico della neve; tal altra, per l'abbondanza delle piogge, la stessa terra, fendendosi, mi si è dileguata di sotto ai piedi; alcune volte mi è bisognato fuggire a tutta lena dai fiumi, che m'inseguivano, come fossi colpevole verso loro di qualche ingiuria. Molte bestie salvatiche, non provocate da me con una menoma offesa, mi hanno voluto divorare; molti serpenti avvelenarmi; in diversi luoghi è mancato poco che gl' insetti volanti non mi abbiano consumato infino alle ossa. Lascio i pericoli giornalieri, sempre imminenti all' uomo, infiniti di numero; tanto che un filosofo antico 1 non trova contro al timore altro rimedio più valevole della considerazione che ogni cosa è da temere. Nè le infermità mi hanno perdonato; con tutto che io fossi, come sono ancora, non dico temperante, ma continente dei piaceri del corpo. Io soglio prendere non piccola ammirazione considerando come tu ci abbi infuso tanta e sì ferma e insaziabile avidità del piacere; disgiunta dal quale la nostra vita, come priva di ciò che ella

Seneca, Natural. Quaestion. lib. 6, cap. 2.

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desidera naturalmente, è cosa imperfetta; e da altra parte abbi ordinato che l'uso di esso piacere sia quasi di tutte le cose umane la più nociva alle forze e alla sanità del corpo, la più calamitosa negli effetti in quanto a ciascheduna persona, e la più contraria alla durabilità della stessa vita. Ma in qualunque modo, astenendomi quasi sempre e totalmente da ogni diletto, io non ho potuto fare di non incorrere in molte e diverse malattie: delle quali alcune mi hanno posto in pericolo della morte; altre di perdere l'uso di qualche membro, o di condurre perpetuamente una vita più misera che la passata; e tutte per più giorni o mesi mi hanno oppresso il corpo e l'animo con mille stenti e mille dolori. E certo, benchè ciascuno di noi sperimenti, nel tempo delle infermità, mali per lui nuovi disusati, e infelicità maggiore che egli non suole (come se la vita umana non fosse bastevolmente misera per l' ordinario); tu non hai dato all' uomo, per compensarnelo, alcuni tempi di sanità soprabbondante e inusitata, la quale gli sia cagione di qualche diletto straordinario per qualità e per grandezza. Ne' paesi coperti per lo più di nevi, io sono stato per accecare: come interviene ordinariamente ai Lapponi nella loro patria. Dal sole e dall'aria, cose vitali, anzi necessarie alla nostra vita, e però da non potersi fuggire, siamo ingiuriati di continuo da questa coll' umidità, colla rigidezza, e con altre disposizioni; da quello col calore, e colla stessa luce: tanto che l' uomo non può mai, senza qualche maggiore o minore incomodità o danno, starsene esposto all' una o all' altro di loro. In fine, io non mi ricordo aver passato un giorno solo della vita senza qualche pena, laddove io non posso numerare quelli che ho consumati senza pure un' ombra di godimento: mi avveggo che tanto ci è destinato e necessario il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria; e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c' insidii, ora ci minacci, ora ci assalti, ora ci pungi, ora ci percuoti, ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de' tuoi figliuoli, e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto rimango privo di ogni speranza; avendo compreso che gli uomini finiscono di perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna cagione, non lasci mai d'incalzarci, finchè ci opprimi. E già mi veggo vicino il tempo amaro e lugubre della vecchiezza; vero e manifesto male, anzi cumulo di mali e di miserie gravissime; e questo tuttavia non accidentale, ma destinato da te per legge a tutti i generi de' vi

LEOPARDI.

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venti, preveduto da ciascuno di noi fino nella fanciullezza, e preparato in lui di continuo, dal quinto suo lustro in là, con un tristissimo declinare e perdere senza sua colpa: in modo che appena un terzo della vita degli uomini è assegnato al fiorire, pochi instanti alla maturità e perfezione, tutto il rimanente allo scadere, e agl' incomodi che ne seguono.

Natura. Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l' intenzione a tutt' altro, che alla felicità degli uomini o all' infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n'avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.

Islandese. Ponghiamo caso che uno m' invitasse spontaneamente a una sua villa, con grande instanza; e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo pericolo di essere oppresso; umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia. Egli, non che si prendesse cura d' intrattenermi in alcun passatempo o di darmi alcuna comodità, per lo contrario appena mi facesse somministrare il bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare, schernire, minacciare e battere da' suoi figliuoli e dall' altra famiglia. Se querelandomi io seco di questi mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo servigio? e, bene ho altro a pensare che de' tuoi sollazzi, e di farti le buone spese a questo replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa villa per uso mio, così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma poichè spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Così dico ora. So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l'avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t' ho io forse pregato di pormi in questo universo?o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva sconsentirlo nè ripugnarlo, tu stessa, colle tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l'abitarvi non mi noccia? E questo che dico di me, dicolo

di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni

creatura.

Natura. Tu mostri non aver posto mente che la vita di questo universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sè di maniera, che ciascheduna serve continuamente all' altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l'una o l'altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento.

Islandese. Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poichè quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell' universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?

Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall' inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell' Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l' Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui disseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città d' Europa.

IL PARINI,

OVVERO

DELLA GLORIA.

CAPITOLO PRIMO.

Giuseppe Parini fu alla nostra memoria uno dei pochissimi Italiani che all' eccellenza nelle lettere congiunsero la profondità dei pensieri, e molta notizia ed uso della filosofia presente cose oramai sì necessarie alle lettere amene, che non si comprenderebbe come queste se ne potessero scompagnare, se di ciò non si vedessero in Italia infiniti esempi. Fu eziandio, come è noto, di singolare innocenza, pietà verso gl' infelici e verso la patria, fede verso gli amici, nobiltà d'animo,

e costanza contro le avversità della natura e della fortuna, che travagliarono tutta la sua vita misera ed umile, finchè la morte lo trasse dall' oscurità. Ebbe parecchi discepoli: ai quali insegnava prima a conoscere gli uomini e le cose loro, e quindi a dilettarli coll' eloquenza e colla poesia. Tra gli altri, a un giovane d' indole e di ardore incredibile ai buoni studi, e di espettazione maravigliosa, venuto non molto prima nella sua disciplina, prese un giorno a parlare in questa sentenza:

Tu cerchi, o figliuolo, quella gloria che solo, si può dire, di tutte le altre, consente oggi di essere colta da uomini di nascimento privato: cioè quella a cui si viene talora colla sapienza, e cogli studi delle buone dottrine delle buone lettere. Già primieramente non ignori che questa gloria, con tutto che dai nostri sommi antenati non fosse negletta, fu però tenuta in piccolo conto per comparazione alle altre: e bene hai veduto in quanti luoghi e con quanta cura Cicerone, suo caldissimo e felicissimo seguace, si scusi co' suoi cittadini del tempo e dell' opera che egli poneva in procacciarla; ora allegando che gli studi delle lettere e della filosofia non lo rallentavano in modo alcuno alle faccende pubbliche, ora che sforzato dalla iniquità dei tempi ad astenersi dai negozi maggiori, attendeva in quegli studi a consumare dignitosamente l'ozio suo; e sempre anteponendo alla gloria de' suoi scritti quella del suo consolato, e delle cose fatte da sè in beneficio della repubblica. E veramente se il soggetto principale delle lettere è la vita umana, e il primo intento della filosofia l'ordinare le nostre azioni; non è dubbio che l' operare è tanto più degno e più nobile del meditare e dello scrivere, quanto è più nobile il fine che il mezzo, e quanto le cose e i soggetti importano più che le parole e i ragionamenti. Anzi niun ingegno è creato dalla natura agli studi; nè l'uomo nasce a scrivere, ma solo a fare. Perciò veggiamo che i più degli scrittori eccellenti, e massime de' poeti illustri, di questa medesima età; come, a cagione di esempio, Vittorio Alfieri; furono da principio inclinati straordinariamente alle grandi azioni; alle quali ripugnando i tempi, e forse anche impediti dalla fortuna propria, si volsero a scrivere cose grandi. Nè sono propriamente atti a scriverne quelli che non hanno disposizione e virtù di farne. E puoi facilmente considerare, in Italia, dove quasi tutti sono d'animo alieno dai fatti egregi, quanto pochi acquistino fama durevole colle scritture. Io penso che l'antichità, specialmente romana o greca, si possa convenevolmente figurare nel modo che fu scolpita in Argo la statua di Telesilla, poetessa, guerriera e salvatrice della patria. La quale statua rappresentavala con un elmo in mano, intenta a mirarlo, con dimostrazione di compiacersene, in atto

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