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sarebbe un gran sollazzo a sentire quello che vi direste fra voi, se poteste parlare insieme.

Morto. Quando anche potessimo, non sentiresti nulla; perchè non avremmo che ci dire.

Ruysch. Mille domande da farvi mi vengono in mente. Ma perchè il tempo è corto, e non lascia luogo a scegliere, datemi ad intendere in ristretto, che sentimenti provaste di corpo e d'animo nel punto della morte.

Morto. Del punto proprio della morte, io non me ne accorsi.

Gli altri morti. Nè anche noi.

Ruysch. Come non ve n' accorgeste?

Morto. Verbigrazia, come tu non ti accorgi mai del momento che tu cominci a dormire, per quanta attenzione ci vogli porre.

Ruysch. Ma l'addormentarsi è cosa naturale.

Morto. E il morire non ti pare naturale? mostrami un uomo, o una bestia, o una pianta, che non muoia.

Ruysch. Non mi maraviglio più che andiate cantando e parlando, se non vi accorgeste di morire.

Così colui, del colpo non accorto,
Andava combattendo, ed era morto,

dice un poeta italiano. Io mi pensava che sopra questa faccenda della morte, i vostri pari ne sapessero qualche cosa più che i vivi. Ma dunque, tornando sul sodo, non sentiste nessun dolore in punto di morte?

Morto. Che dolore ha da essere quello del quale chi lo prova, non se n'accorge?

Ruysch. A ogni modo, tutti si persuadono che il sentimento della morte sia dolorosissimo.

Morto. Quasi che la morte fosse un sentimento, e non piuttosto il contrario.

Ruysch. E tanto quelli che intorno alla natura dell'anima si accostano col parere degli Epicurei, quanto quelli che tengono la sentenza comune, tutti, o la più parte, concorrono in quello ch' io dico; cioè nel credere che la morte sia per natura propria, e senza nessuna comparazione, un dolore vivissimo.

Morto. Or bene, tu domanderai da nostra parte agli uni e agli altri: se l'uomo non ha facoltà di avvedersi del punto in cui le operazioni vitali, in maggiore o minor parte, gli restano non più che interrotte, o per sonno o per letargo o per sincope o per qualunque causa; come si avvedrà di quello in cui le medesime operazioni cessano del tutto, e non per poco spazio di tempo, ma in perpetuo? Oltre di ciò, come può essere che un sentimento vivo abbia luogo nella morte?

anzi, che la stessa morte sia per propria qualità un sentimento vivo? Quando la facoltà di sentire è, non solo debilitata e scarsa, ma ridotta a cosa tanto minima, che ella manca e si annulla, credete voi che la persona sia capace di un sentimento forte? anzi questo medesimo estinguersi della facoltà di sentire, credete che debba essere un sentimento grandissimo? Vedete pure che anche quelli che muoiono di mali acuti e dolorosi, in sull' appressarsi della morte, più o meno tempo avanti dello spirare, si quietano e si riposano in modo, che si può conoscere che la loro vita, ridotta a piccola quantità, non è più sufficiente al dolore, sicchè questo cessa prima di quella. Tanto dirai da parte nostra a chiunque si pensa di avere a morir di dolore in punto di morte.

Ruysch. Agli Epicurei forse potranno bastare coteste ragioni. Ma non a quelli che giudicano altrimenti della sostanza dell' anima; come ho fatto io per lo passato, e farò da ora innanzi molto maggiormente, avendo udito parlare e cantare i morti. Perchè stimando che il morire consista in una separazione dell' anima dal corpo, non comprenderanno come queste due cose, congiunte e quasi conglutinate tra loro in modo, che constituiscono l'una e l'altra una sola persona, si possano separare senza una grandissima violenza, e un travaglio indicibile.

Morto. Dimmi: lo spirito è forse appiccato al corpo con qualche nervo, o con qualche muscolo o membrana, che di necessità si abbia a rompere quando lo spirito si parte? o forse è un membro del corpo, in modo che n' abbia a essere schiantato o reciso violentemente? Non vedi che l'anima in tanto esce di esso corpo, in quanto solo è impedita di rimanervi, e non v' ha più luogo; non già per nessuna forza che ne la strappi e sradichi? Dimmi ancora: forse nell' entrarvi, ella vi si sente conficcare o allacciare gagliardamente, o come tu dici, conglutinare? Perchè dunque sentirà spiccarsi all' uscirne, o vogliamo dire proverà una sensazione veementissima? Abbi per fermo, che l'entrata e l'uscita dell' anima sono parimente quiete, facili e molli.

Ruysch. Dunque che cosa è la morte, se non è dolore? Morto. Piuttosto piacere che altro. Sappi che il morire, come l'addormentarsi, non si fa in un solo istante, ma per gradi. Vero è che questi gradi sono più o meno, o maggiori o minori, secondo la varietà delle cause e dei generi della morte. Nell' ultimo di tali istanti la morte non reca nè dolore nè piacere alcuno, come nè anche il sonno. Negli altri precedenti non può generare dolore; perchè il dolore è cosa viva, e i sensi dell' uomo in quel tempo, cioè cominciata che è la morte, sono moribondi, che è quanto dire estremamente attenuati di forze. Può bene esser causa di piacere: perchè

il piacere non sempre è cosa viva; anzi forse la maggior parte dei diletti umani consistono in qualche sorta di languidezza. Di modo che i sensi dell' uomo sono capaci di piacere anche presso all' estinguersi; atteso che spessissime volte la stessa languidezza è piacere; massime quando vi libera da patimento; poichè ben sai che la cessazione di qualunque dolore o disagio, è piacere per sè medesima. Sicchè il languore della morte debbe essere più grato secondo che libera l'uomo da maggior patimento. Per me, se bene nell'ora della morte non posi molta attenzione a quel che io sentiva, perchè mi era proibito dai medici di affaticare il cervello; mi ricordo però che il senso che provai, non fu molto dissimile dal diletto che è cagionato agli uomini dal languore del sonno, nel tempo che si vengono addormentando.

Gli altri morti. Anche a noi pare di ricordarci altrettanto.

Ruysch. Sia come voi dite: benchè tutti quelli coi quali ho avuta occasione di ragionare sopra questa materia, giudicavano molto diversamente: ma, che io mi ricordi, non allegavano la loro esperienza propria. Ora ditemi: nel tempo della morte, mentre sentivate quella dolcezza, vi credeste di morire, e che quel diletto fosse una cortesia della morte; o pure immaginaste qualche altra cosa?

Morto. Finchè non fui morto, non mi persuasi mai di non avere a scampare di quel pericolo; e se non altro, fino all'ultimo punto che ebbi facoltà di pensare, sperai che mi avanzasse di vita un' ora o due: come stimo che succeda a molti, quando muoiono.

Gli altri morti. A noi successe il medesimo.

Ruysch. Così Cicerone dice che nessuno è talmente decrepito, che non si prometta di vivere almanco un anno. Ma come vi accorgeste in ultimo, che lo spirito era uscito del corpo? Dite: come conosceste d'essere morti? Non rispondono. Figliuoli, non m' intendete? Sarà passato il quarto d'ora. Tastiamogli un poco. Sono rimorti ben bene: non è pericolo che mi abbiano da far paura un' altra volta: torniamocene a letto.

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DETTI MEMORABILI

DI FILIPPO OTTONIERI.

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CAPITOLO PRIMO.

Filippo Ottonieri, del quale prendo a scrivere alcuni ragionamenti notabili, che parte ho uditi dalla sua propria bocca, parte narrati da altri; nacque, e visse il più del tempo, a Nubiana, nella provincia di Valdivento; dove anche morì poco addietro; e dove non si ha memoria d'alcuno che fosse ingiuriato da lui, nè con fatti nè con parole. Fu odiato comunemente da' suoi cittadini; perchè parve prendere poco piacere di molte cose che sogliono essere amate e cercate assai dalla maggior parte degli uomini; benchè non facesse alcun segno di avere in poca stima o di riprovare quelli che più di lui se ne dilettavano e le seguivano. Si crede che egli fosse in effetto, e non solo nei pensieri, ma nella pratica, quel che gli altri uomini del suo tempo facevano professione di essere; cioè a dire filosofo. Perciò parve singolare dall'altra gente, benchè non procurasse e non affettasse di apparire diverso dalla moltitudine in cosa alcuna. Nel quale proposito diceva, che la massima singolarità che oggi si possa trovare o nei costumi, o negl' instituti, o nei fatti di qualunque persona civile; paragonata a quella degli uomini che appresso agli antichi furono stimati singolari, non solo è di altro genere, ma tanto meno diversa che non fu quella, dall'uso ordinario de' contemporanei, che quantunque paia grandissima ai presenti, sarebbe riuscita agli antichi o menoma o nulla, eziandio ne' tempi e nei popoli che furono anticamente più inciviliti o più corrotti. E misurando la singolarità di Gian Giacomo Rousseau, che parve singolarissimo ai nostri avi, con quella di Democrito e dei primi filosofi cinici, soggiungeva, che oggi chiunque vivesse tanto diversamente da noi quanto vissero quei filosofi dai Greci del loro tempo, non sarebbe avuto per uomo singolare, ma nella opinione pubblica, sarebbe escluso, per dir così, dalla specie umana. E giudicava che dalla misura assoluta della singolarità possibile a trovarsi nelle persone di un luogo o di un tempo qualsivoglia, si possa conoscere la misura della civiltà degli uomini del medesimo luogo e tempo.

Nella vita, quantunque temperatissimo, si professava epicureo, forse per ischerzo più che da senno. Ma condannava Epicuro; dicendo che ai tempi e nella nazione di colui, molto

LEOPARDI.

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maggior diletto si poteva trarre dagli studi della virtù e della gloria, che dall' ozio, dalla negligenza, e dall' uso delle voluttà del corpo; nelle quali cose quegli riponeva il sommo bene degli uomini. Ed affermava che la dottrina epicurea, proporzionatissima all' età moderna, fu del tutto aliena dal

l'antica.

Nella filosofia, godeva di chiamarsi socratico; e spesso, come Socrate, s' intratteneva una buona parte del giorno ragionando filosoficamente ora con uno ora con altro, e massime con alcuni suoi familiari, sopra qualunque materia gli era somministrata dall' occasione. Ma non frequentava, come Socrate, le botteghe de' calzolai, de' legnaiuoli, de' fabbri e degli altri simili; perchè stimava che se i fabbri e i legnaiuoli di Atene avevano tempo da spendere in filosofare, quelli di Nubiana, se avessero fatto altrettanto, sarebbero morti di fame. Nè anche ragionava, al modo di Socrate, interrogando e argomentando di continuo; perchè diceva che, quantunque i moderni sieno più pazienti degli antichi, non si troverebbe oggi chi sopportasse di rispondere a un migliaio di domande continuate, e di ascoltare un centinaio di conclusioni. E per verità non avea di Socrate altro che il parlare talvolta ironico e dissimulato. E cercando l'origine della famosa ironia socratica, diceva: Socrate nato con animo assai gentile, e però con disposizione grandissima ad amare; ma sciagurato oltre modo nella forma del corpo; verisimilmente fino nella giovanezza disperò di potere essere amato con altro amore che quello dell' amicizia, poco atto a soddisfare un cuore delicato e fervido, che spesso senta verso gli altri un affetto molto più dolce. Da altra parte, con tutto che egli abbondasse di quel coraggio che nasce dalla ragione, non pare che fosse fornito bastantemente di quello che viene dalla natura, nè delle altre qualità che in quei tempi di guerre e di sedizioni, e in quella tanta licenza degli Ateniesi, erano necessarie a trattare nella sua patria i negozi pubblici. Al che la sua forma ingrata e ridicola gli sarebbe anche stata di non piccolo pregiudizio appresso a un popolo che, eziandio nella lingua, faceva pochissima differenza dal buono al bello, e oltre di ciò deditissimo a motteggiare. Dunque in una città libera, e piena di strepito, di passioni, di negozi, di passatempi, di ricchezze e di altre fortune; Socrate povero, rifiutato dall' amore, poco atto ai maneggi pubblici; e nondimeno dotato di un ingegno grandissimo, che aggiunto a condizioni tali, doveva accrescere fuor di modo ogni loro molestia; si pose per ozio a ragionare sottilmente delle azioni, dei costumi e delle qualità de' suoi cittadini: nel che gli venne usata una certa ironia; come naturalmente doveva accadere a chi si trovava impedito di aver parte, per dir così, nella vita. Ma la mansuetudine e la

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