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ALLA PRIMAVERA.

Nel doloroso amplesso

Dafne e la mesta Filli, o di Climene
Pianger credè la sconsolata prole

Quel che sommerse in Eridano il sole.
Nè dell' umano affanno,
Rigide balze, i luttuosi accenti

Voi negletti ferîr mentre le vostre
Paurose latebre Eco solinga,
Non vano error de' venti,

Ma di ninfa abitò misero spirto,

Cui grave amor, cui duro fato escluse
Delle tenere membra. Ella per grotte,
Per nudi scogli e desolati alberghi,
Le non ignote ambasce e l' alte e rotte
Nostre querele al curvo

Etra insegnava. E te d' umani eventi
Disse la fama esperto,

Musico augel che tra chiomato bosco
Or vieni il rinascente anno cantando,
E lamentar nell' alto

Ozio de' campi, all' aer muto e fosco,
Antichi danni e scellerato scorno,
E d'ira e di pietà pallido il giorno.
Ma non cognato al nostro

Il gener tuo; quelle tue varie note
Dolor non forma, e te di colpa ignudo,
Men caro assai la bruna valle asconde.
Ahi ahi, poscia che vote

Son le stanze d'Olimpo, e cieco il tuono
Per l'atre nubi e le montagne errando,
Gl' iniqui petti e gl' innocenti a paro
In freddo orror dissolve; e poi ch' estrano
Il suol nativo, e di sua prole ignaro

Le meste anime educa;

Tu le cure infelici e i fati indegni
Tu de' mortali ascolta,

Vaga natura, e la favilla antica
Rendi allo spirto mio; se tu pur vivi,
E se de' nostri affanni

Cosa veruna in ciel, se nell' aprica
Terra s' alberga o nell' equoreo seno,
Pietosa no, ma spettatrice almeno.

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VIII.

INNO AI PATRIARCHI,

DE PRINCIPII DEL GENERE UMANO.

E voi de' figli dolorosi il canto, Voi dell' umana prole incliti padri, Lodando ridirà; molto all' eterno Degli astri agitator più cari, e molto Di noi men lacrimabili nell' alma Luce prodotti. Immedicati affanni Al misero mortal, nascere al pianto, E dell' etereo lume assai più dolci Sortir l'opaca tomba e il fato estremo, Non la pietà, non la diritta impose Legge del cielo. E se di vostro antico Error, che l' uman seme alla tiranna Possa de' morbi e di sciagura offerse, Grido antico ragiona, altre più dire Colpe de' figli, e irrequieto ingegno, E demenza maggior l'offeso Olimpo N'armaro incontra, e la negletta mano Dell' altrice natura; onde la viva Fiamma n'increbbe, e detestato il parto Fu del grembo materno, e violento Emerse il disperato Erebo in terra.

Tu primo il giorno, e le purpuree faci
Delle rotanti sfere, e la novella
Prole de' campi, o duce antico e padre
Dell' umana famiglia, e tu l' errante
Per li giovani prati aura contempli:
Quando le rupi e le deserte valli
Precipite l' alpina onda fería
D' inudito fragor; quando gli ameni
Futuri seggi di lodate genti
E di cittadi romorose, ignota
Pace regnava; e gl' inarati colli

Solo e muto ascendea l'aprico raggio
Di Febo e l' aurea luna. Oh fortunata,
Di colpe ignara e di lugúbri eventi,
Erma terrena sede! Oh quanto affanno
Al gener tuo, padre infelice, e quale
D' amarissimi casi ordine immenso

Preparano i destini! Ecco di sangue
Gli avari côlti e di fraterno scempio
Furor novello incesta, e le nefande
Ali di morte il divo etere impara.
Trepido, errante il fratricida, e l'ombre
Solitarie fuggendo e la secreta
Nelle profonde selve ira de' venti,
Primo i civili tetti, albergo e regno
Alle macere cure, innalza1; e primo
Il disperato pentimento i ciechi
Mortali egro, anelante, aduna e stringe
Ne' consorti ricetti: onde negata
L'improba mano al curvo aratro, e vili
Fur gli agresti sudori; ozio le soglie
Scellerate occupò, ne' corpi inerti
Domo il vigor natio, languide, ignave
Giacquer le menti; e servitù le imbelli
Umane vite, ultimo danno, accolse.

E tu dall' etra infesto e dal mugghiante
Su i nubiferi gioghi equoreo flutto
Scampi l' iniquo germe, o tu cui prima
Dall' aer cieco e da' natanti poggi
Segno arrecò d' instaurata speme
La candida colomba, e dell' antiche
Nubi l'occiduo Sol naufrago uscendo,
L' atro polo di vaga iri dipinse.

Riede alla terra, e il crudo affetto e gli empi
Studi rinnova e le seguaci ambasce

La riparata gente. Agl' inaccessi

Regni del mar vendicatore illude

Profana destra, e la sciagura e il pianto

A novi liti e nove stelle insegna.

Or te, padre de' pii, te giusto e forte,

E di tuo seme i generosi alunni

Medita il petto mio. Dirò siccome

Sedente, oscuro, in sul meriggio all' ombre
Del riposato albergo, appo le molli
Rive del gregge tuo nutrici e sedi,
Te de' celesti peregrini occulte

Beâr l'eteree menti; e quale, o figlio
Della saggia Rebecca, in su la sera,
Presso al rustico pozzo e nella dolce
Di pastori e di lieti ozi frequente
Aranitica valle, amor ti punse

1 Egressusque Cain a facie Domini, habitavit profugus in terra ad orientalem plagam Eden. Et ædificavit civitatem. Genes, c. 4, v. 16.

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IX.

ULTIMO CANTO DI SAFFO.

Placida notte, e verecondo raggio

Della cadente luna; e tu che spunti boud forks
Fra la tacita selva in su la rupe,

Nunzio del giorno; oh dilettose e care
Mentre ignote mi fur l' erinni e il fato,
Sembianze agli occhi miei; già non arride
Spettacol molle ai disperati affetti.
Noi l'insueto allor gaudio ravviva
Quando per l'etra liquido si volve
E per li campi trepidanti il flutto
Polveroso de Noti, e quando il carro,
Grave carro di Giove a noi sul capo
Tonando, il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
Natar giova tra' nembi, e noi la vasta
Fuga de' greggi sbigottiti, o d'alto
Fiume alla dubbia sponda

Il suono e la vittrice ira dell' onda.

Bello il tuo manto, o divo cielo; e bella
Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
Infinita beltà parte nessuna

Alla misera Saffo i numi e l' empia
Sorte non fenno. A' tuoi superbi regni
Vile, o Natura, e grave ospite addetta,
E dispregiata amante, alle vezzose
Tue forme il core e le pupille invano
Supplichevole intendo. A me non ride
L'aprico margo, e dall' eterea porta
Il mattutino albor; me non il canto
De' colorati augelli, e non de' faggi
Il murmure saluta: e dove all' ombra
Degl' inchinati salici dispiega
Candido rivo il puro seno, al mio
Lubrico piè le flessuose linfe
Disdegnando sottragge,

E preme in fuga l' odorate spiagge.

Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
In che peccai bambina, allor che ignara
Di misfatto è la vita, onde poi scemo
Di giovinezza, e disfiorato, al fuso

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