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LA VITA SOLITARIA.

Anzi rovente. Con sua fredda mano
Lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è vòlto
Nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo
Che mi scendesti in seno. Era quel dolce
E irrevocabil tempo, allor che s' apre
Al guardo giovanil questa infelice
Scena del mondo, e gli sorride in vista
Di paradiso. Al garzoncello il core
Di vergine speranza e di desio

Balza nel petto; e già s' accinge all' opra
Di questa vita come a danza o gioco
Il misero mortal. Ma non sì tosto,
Amor, di te m' accorsi, e il viver mio
Fortuna avea già rotto, ed a questi occhi
Non altro convenia che il pianger sempre.
Pur se talvolta per le piagge apriche,
Su la tacita aurora quando al sole
Brillano i tetti e i poggi e le campagne,
Scontro di vaga donzelletta il viso;
O qualor nella placida quiete

D' estiva notte, il vagabondo passo
Di rincontro alle ville soffermando,
L'erma terra contemplo, e di fanciulla
Che all' opre di sua man la notte aggiunge
Odo sonar nelle romite stanze

L'arguto canto; o palpitar si move
Questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna
Tosto al ferreo sopor; ch' è fatto estrano
Ogni moto soave al petto mio.

O cara luna, al cui tranquillo raggio
Danzan le lepri nelle selve; e duolsi
Alla mattina il cacciator, che trova
L'orme intricate e false, e dai covili
Error vario lo svia; salve, o benigna
Delle notti reina. Infesto scende

Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro

A deserti edifici, in su l'acciaro

Del pallido ladron ch' a teso orecchio

Il fragor delle rote e de' cavalli

Da lungi osserva o il calpestio de' piedi
Sulla tacita via; poscia improvviso

Col suon dell' armi e con la rauca voce
E col funereo ceffo il core agghiaccia
Al passegger, cui semivivo e nudo

Lascia in breve tra' sassi. Infesto occorre
Per le contrade cittadine il bianco

Tuo lume al drudo vil, che degli alberghi

Va radendo le mura e la secreta
Ombra seguendo, e resta, e si spaura
Delle ardenti lucerne e degli aperti
Balconi. Infesto alle malvage menti:
A me sempre benigno il tuo cospetto
Sarà per queste piagge, ove non altro
Che lieti colli e spaziosi campi

M' apri alla vista. Ed ancor io soleva,
Bench' innocente io fossi, il tuo vezzoso
Raggio accusar negli abitati lochi,

Quand' ei m' offriva al guardo umano, e quando
Scopriva umani aspetti al guardo mio.
Or sempre loderollo, o ch' io ti miri
Veleggiar tra le nubi, o che serena
Dominatrice dell' etereo campo,
Questa flebil riguardi umana sede.
Me spesso rivedrai solingo e muto
Errar pe' boschi e per le verdi rive,
O seder sovra l'erbe, assai contento
Se core e lena a sospirar m'avaṇza.

XVII.
CONSALVO.

Presso alla fin di sua dimora in terra,
Giacea Consalvo; disdegnoso un tempo
Del suo destino, or già non più, chè a mezzo
Il quinto lustro, gli pendea sul capo
Il sospirato obblio. Qual da gran tempo,
Così giacea nel funeral suo giorno
Dai più diletti amici abbandonato:
Ch' amico in terra a lungo andar nessuno
Resta a colui che della terra è schivo.
Pur gli era al fianco, da pietà condotta
A consolare il suo deserto stato,

Quella che sola e sempre eragli a mente,
Per divina beltà famosa Elvira ;

Conscia del suo poter, conscia che un guardo
Suo lieto, un detto d' alcun dolce asperso,
Ben mille volte ripetuto e mille

Nel costante pensier, sostegno e cibo

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Rinacerbir col niego; anzi la vinse
Misericordia dei ben noti ardori.

E quel volto celeste, e quella bocca,
Già tanto desiata, e per molt anni
Argomento di sogno e di sospiro,
Dolcemente appressando al volto afflitto
E scolorato dal mortale affanno,
Più baci e più, tutta benigna e in vista
D'alta pietà, su le convulse labbra
Del trepido, rapito amante impresse.

Che divenisti allor? quali appariro
Vita, morte, sventura agli occhi tuoi,
Fuggitivo Consalvo? Egli la mano,
Ch' ancor tenea, della diletta Elvira
Postasi al cor, che gli ultimi battea
Palpiti della morte e dell' amore,
Oh, disse, Elvira, Elvira mia! ben sono
In su la terra ancor; ben quelle labbra
Fur le tue labbra, e la tua mano io stringo!
Ahi vision d' estinto, o sogno, o cosa
Incredibil mi par. Deh quanto, Elvira,
Quanto debbo alla morte! Ascoso innanzi
Non ti fu l'amor mio per alcun tempo;
Non a te, non altrui; chè non si cela
Vero amore alla terra. Assai palese
Agli atti, al volto sbigottito, agli occhi,
Ti fu: ma non ai detti. Ancora e sempre
Muto sarebbe l' infinito affetto

Che governa il cor mio, se non l'avesse
Fatto ardito il morir. Morrò contento
Del mio destino omai, nè più mi dolgo
Ch' aprii le luci al dì. Non vissi indarnò,
Poscia che quella bocca alla mia bocca
Premer fu dato. Anzi felice estimo

La sorte mia. Due cose belle ha il mondo:
Amore e morte. All' una il ciel mi guida
In sul fior dell' età; nell' altro, assai
Fortunato mi tengo. Ah, se una volta,
Solo una volta il lungo amor quïeto
E pago avessi tu, fôra la terra

Fatta quindi per sempre un paradiso
Ai cangiati occhi miei. Fin la vecchiezza,
L' abborrita vecchiezza, avrei sofferto
Con riposato cor: chè a sostentarla
Bastato sempre il rimembrar sarebbe
D'un solo istante, e il dir: felice io fui
Sovra tutti i felici. Ahi, ma cotanto

Esser beato non consente il cielo

A natura terrena. Amar tant' oltre
Non è dato con gioia. E ben per patto
In poter del carnefice ai flagelli,
Alle ruote, alle faci ito volando
Sarei dalle tue braccia; e ben disceso
Nel paventato sempiterno scempio.

O Elvira, Elvira, oh lui felice, oh sovra
Gl' immortali beato, a cui tu schiuda
Il sorriso d' amor! felice appresso

Chi per te sparga con la vita il sangue!
Lice, lice al mortal, non è già sogno
Come stimai gran tempo, ahi lice in terra
Provar felicità. Ciò seppi il giorno

Che fiso io ti mirai. Ben per mia morte
Questo m' accadde. E non però quel giorno
Con certo cor giammai, fra tante ambasce,
Quel fiero giorno biasimar sostenni.

Or tu vivi beata, e il mondo abbella,
Elvira mia, col tuo sembiante. Alcuno
Non t' amerà quant' io t' amai. Non nasce
Un altrettale amor. Quanto, deh quanto
Dal misero Consalvo in sì gran tempo
Chiamata fosti, e lamentata, e pianta!
Come al nome d' Elvira, in cor gelando,
Impallidir; come tremar son uso
All' amaro calcar della tua soglia,
A quella voce angelica, all aspetto

Di quella fronte, io ch' al morir non tremo!
Ma la lena e la vita or vengon meno

Agli accenti d' amor. Passato è il tempo,
Nè questo di rimemorar m' è dato.
Elvira, addio. Con la vital favilla
La tua diletta immagine si parte

Dal mio cor finalmente. Addio. Se grave
Non ti fu quest' affetto, al mio feretro
Dimani all' annottar manda un sospiro.

Tacque: nè molto andò, che a lui col suono

Mancò lo spirto; e innanzi sera il primo
Suo di felice gli fuggìa dal guardo.

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