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E tornami a doler di mia sventura.

O natura, o natura,

Perchè non rendi poi

Quel che prometti allor? perchè di tanto Inganni i figli tuoi?

Tu pria che l' erbe inaridisse il verno, Da chiuso morbo combattuta e vinta, Perivi, o tenerella. E non vedevi Il fior degli anni tuoi;

Non ti molceva il core

La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Nè teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d'amore.

Anche perìa fra poco

La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati

La giovinezza. Ahi come,

Come passata sei,

Cara compagna dell' età mia nova,
Mia lacrimata speme!

Questo è quel mondo? questi

I diletti, l'amor, l' opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte delle umane genti?
All' apparir del verno

Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.

XXII.

LE RICORDANZE.

Vaghe stelle dell' Orsa, io non credea
Tornare ancor per uso a contemplarvi
Sul paterno giardino scintillanti,
E ragionar con voi dalle finestre
Di questo albergo ove abitai fanciullo,
E delle gioie mie vidi la fine.

Quante immagini un tempo, e quante fole
Creommi nel pensier l' aspetto vostro
E delle luci a voi compagne! allora

Che, tacito, seduto in verde zolla,
Delle sere io solea passar gran parte
Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
Della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
E in su l'aiuole, susurrando al vento
I viali odorati, ed i cipressi

Là nella selva; e sotto al patrio tetto
Sonavan voci alterne, e le tranquille
Opre de' servi. E che pensieri immensi,
Che dolci sogni mi spirò la vista

Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
Che di qua scopro, e che varcare un giorno
Io mi pensava, arcani mondi, arcana
Felicità fingendo al viver mio!
Ignaro del mio fato, e quante volte
Questa mia vita dolorosa e nuda
Volentier con la morte avrei cangiato.

Nè mi diceva il cor che l' età verde
Sarei dannato a consumare in questo
Natio borgo selvaggio, intra una gente
Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,

Son dottrina e saper; che m' odia e fugge,
Per invidia non già, che non mi tiene
Maggior di sè, ma perchè tale estima
Ch' io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
A persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
Senz' amor, senza vita; ed aspro a forza
Tra lo stuol de' malevoli divengo:
Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
E sprezzator degli uomini mi rendo,

Per la greggia c'ho appresso: e intanto vola
Il caro tempo giovanil; più caro

Che la fama e l' allôr, più che la pura
Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
Senza un diletto, inutilmente, in questo
Soggiorno disumano, intra gli affanni,
O dell' arida vita unico fiore.

Viene il vento recando il suon dell' ora
Dalla torre del borgo. Era conforto

Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Quando fanciullo, nella buia stanza,

Per assidui terrori io vigilava,

Sospirando il mattin. Qui non è cosa

Ch' io vegga o senta, onde un' immagin dentro

Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per sè; ma con dolor sottentra
Il pensier del presente, un van desio
Del passato, ancor tristo, e il dire: io fuî.
Quella loggia colà, vòlta agli estremi
Raggi del dì; queste dipinte mura,
Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
Su romita campagna, agli ozi miei
Porser mille diletti allor che al fianco
M' era, parlando, il mio possente errore
Sempre, ov' io fossi. In queste sale antiche,
Al chiaror delle nevi, intorno a queste
Ampie finestre sibilando il vento,
Rimbombaro i sollazzi e le festose
Mie voci al tempo che l' acerbo, indegno
Mistero delle cose a noi si mostra
Pien di dolcezza; indelibata, intera
Il garzoncel, come inesperto amante,
La sua vita ingannevole vagheggia,
E celeste beltà fingendo ammira.

O speranze, speranze; ameni inganni
Della mia prima età! sempre, parlando,
Ritorno a voi; chè per andar di tempo,
Per variar d'affetti e di pensieri,
Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
Son la gloria e l' onor; diletti e beni
Mero desio; non ha la vita un frutto,
Inutile miseria. E sebben vòti
Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
Il mio stato mortal, poco mi toglie
La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
A voi ripenso, o mie speranze antiche,
Ed a quel caro immaginar mio primo;
Indi riguardo il viver mio sì vile
E sì dolente, e che la morte è quello
Che di cotanta speme oggi m' avanza;
Sento serrarmi il cor, sento ch' al tutto
Consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
Sarammi allato, e sarà giunto il fine
Della sventura mia; quando la terra
Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
Fuggirà l'avvenir; di voi per certo
Risovverrammi; e quell' imago ancora
Sospirar mi farà, farammi acerbo
L' esser vissuto indarno, e la dolcezza
Del dì fatal tempererà d' affanno.

E già nel primo giovanil tumulto
Di contenti, d'angosce e di desio,
Morte chiamai più volte, e lungamente
Mi sedetti colà su la fontana

Pensoso di cessar dentro quell' acque
La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
Malor, condotto della vita in forse,
Piansi la bella giovanezza, e il fiore
De' miei poveri dì, che sì per tempo
Cadeva: e spesso all' ore tarde, assiso
Sul conscio letto, dolorosamente
Alla fioca lucerna poetando,

Lamentai co' silenzi e con la notte
Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
In sul languir cantai funereo canto.
Chi rimembrar vi può senza sospiri,

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Vezzosi, inenarrabili, allor quando
Al rapito mortal primieramente
Sorridon le donzelle; a gara intorno
Ogni cosa sorride; invidia tace,
Non desta ancora ovver benigna; e quasi
(Inusitata maraviglia!) il mondo
La destra soccorrevole gli porge,
Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
Suo venir nella vita, ed inchinando
Mostra che per signor l'accolga e chiami?
Fugaci giorni! a somigliar d'un lampo
Son dileguati. E qual mortale ignaro
Di sventura esser può, se a lui già scorsa
Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
O Nerina! e di te forse non odo
Questi luoghi parlar? caduta forse
Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
Che qui sola di te la ricordanza
Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
Questa terra natal: quella finestra,
Ond' eri usata favellarmi, ed onde
Mesto riluce delle stelle il raggio,
È deserta. Ove sei, che più non odo
La tua voce sonar, siccome un giorno,
Quando soleva ogni lontano accento

Del labbro tuo, ch' a me giungesse, il volto
Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
Fûro, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
Il passar per la terra oggi è sortito,

E l'abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
Fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte
La gioia ti splendea, splendea negli occhi
Quel confidente immaginar, quel lume
Di gioventù, quando spegneali il fato,
E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
Se a radunanze io movo, infra me stesso
Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti recando alle fanciulle,
Dico: Nerina mia, per te non torna
Primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita

Piaggia ch' io miro, ogni goder ch' io sento,
Dico: Nerina or più non gode; i campi,
L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
Sospiro mio: passasti: e fia compagna
D'ogni mio vago immaginar, di tutti
I miei teneri sensi, i tristi e cari
Moti del cor, la rimembranza acerba.

XXIII.

CANTO NOTTURNO

DI UN PASTORE ERRANTE DELL' ASIA '.

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai,

Contemplando i deserti; indi ti posi.

Ancor non sei tu paga

Di rïandare i sempiterni calli?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

Di mirar queste valli?

Somiglia alla tua vita

La vita del pastore.

Plusieurs d'entre eux (parla di una delle nazioni erranti dell' Asia) passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins. Il Barone di Meyendorff, «Voyage d'Orenbourg à Boukhara, fait en 1820», appresso il Journal des Savans 1826, septembre p. 518.

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