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(<«< Amor, che muovi...»); ora rivolto ad Amore in atto di parlargli («< Amor, tu vedi ben... ») ecc. Ma di questi lo schizzo più caratteristico, e il solo che c'interessa, è

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quello che accompagna la canzone « Amor dacchè... » (a carta 166), scritta, come dice l'argomento, per « una crudel donna di Casentino », dove Dante è rappresentato (si veda il facsimile qui accanto) tra quattro colli che lo circondano, mentre la faccia è rivolta ad Amore e le mani accennano un colloquio. Sembra ch' egli deplori la sua straordinaria condizione d'animo e si raccomandi ad Amore, chè lo sovvenga. Ma mentre negli altri schizzi il Poeta non è mai immaginato tra colli, ed è sempre in età giovanile con la

faccia tonda ed imberbe, in questo invece apparisce già avanzato negli anni e con la barba. (1) Per noi dunque lo schizzo è della massima importanza. Tutti questi particolari riuniti insieme sono la conferma di quanto già sapevamo; che cioè quest' amore fu in Casentino, come dice l'argomento della canzone, «< per una crudel donna di Casentino », in mezzo ai colli delle Alpi (dell'Appennino), che lo tenevano stretto <«<come calcina pietra », e fu in età avanzata, quando ormai Dante aveva la barba, come dirà Beatrice (Purg., XXXI, 68). Sicchè chi scriveva quel codice era abbastanza informato: Egli doveva conoscere l'epistola a Moroello, e forse altre testimonianze che noi ignoriamo. Sebbene, in fondo, ne sapeva meno di noi; perchè mentre noi siamo riusciti a dimostrare che la canzone « Amor dacchè......» va riunita con le altre rime esaminate, egli invece credeva che facesse parte a sè, e nulla avesse che vedere con esse. Rimase ingannato dallo schema e dall' allegoria del Convito.

Il manoscritto dunque viene a confermare tutte le conclusioni, alle quali eravamo pervenuti. Ravviciniamo pertanto quanto già ricavammo dallo studio delle rime, con le confessioni che Dante stesso ci fa nella D. Commedia, e vedremo che tutto concorda mirabilmente. Dinanzi a Beatrice Dante non poteva mentire, perchè essa vedeva tutto in Dio; egli parlava commosso e «pieno di confusione »>: Ma quando scoppia dalla propria gota L'accusa del peccato, in nostra corte Rivolge sè contro il taglio la rota.

Purg., XXXI, 40.

(1) Tutti questi schizzi sono fatti con quel medesimo inchiostro con cui fu scritto il codice. La canzone «Io son venuto... » ha soltanto un quarto di rota stellata. Lo schizzo che accompagnava la canzone << Tre donne...» e <«< Doglia mi reca...» fu rubato, come apparisce dalle carte mutile.

Beatrice, perchè Dante senta meglio la vergogna del suo peccato, e in seguito non presti più orecchio al canto delle sirene, gli rimprovererà tra « le vanità di breve uso » l'amore per la Pargoletta. Quell' amore l'aveva fatto attaccare troppo vilmente alle cose della terra, quando ormai era tempo di distaccarsene; quando la barba (l'età matura) e i colpi della sorte, l'avrebbero dovuto sollevare a ciò che non

muore:

Tuttavia, perchè me' vergogna porte
Del tuo errore, e perchè altra volta.
Udendo le Sirene sie più forte,

Pon giù il seme del piangere ed ascolta;

Ben ti dovevi, per lo primo strale
Delle cose fallaci, levar suso,

Diretro a me, che non era più tale.
Non ti dovea gravar le penne in giuso,
Ad aspettar più colpi, o pargoletta,
O altra vanità con sì breve uso.

Quale i fanciulli, vergognando, muti,
Con gli occhi a terra, stannosi ascoltando,
E sè riconoscendo e ripentuti,

Tal mi stav'io. Ed ella disse: Quando
Per udir se' dolente, alza la barba, (1)
E prenderai più doglia riguardando.
Con men di resistenza si dibarba

Robusto cerro, o vero al nostral vento,
O vero a quel della terra di Iarba,

(1) Benvenuto da Imola intese il vero significato di queste parole: - Oh, senex delire, qui es barbatus jam per multos annos (Purg., c. XXXI). Comentum super Dantis Adighery comoediam, Florentiae, Barbera, 1837.

Ch'io non levai al suo comando il mento;
E quando per la barba il viso chiese,
Ben conobbi il velen dell' argomento.

Purg., XXXI, 43-75.

Rimandare quest'amore al 1311, quando Dante si trovava al castello di Poppi, non è possibile, discordando quel tempo con quanto s'è detto finora, e col contenuto delle rime esaminate. Quello dovette essere per Dante e per tutti i suoi compagni di sventura, che battevano ancora la via dell'esilio in mezzo alle angustie e alle strettezze economiche, un periodo fortunato di sogni e di speranze, di aspettative e d'illusioni. L'Alighieri in quel tempo, e quanti Bianchi o Ghibellini provavano il peso del potere malamente esercitato, dovettero rialzare gli animi abbattuti nella visione dell'angelo provvidenziale, che stava per discendere a loro consolazione. Il cuore del nostro Poeta, che sanguinava ancora per le recenti trafitte, non avrebbe potuto cantare con le rime della disperazione e del dolore; doveva pure sorridergli qualche istante di allegrezza e di gioia.

Dopo l'atto di omaggio reso all'imperatore Arrigo VII, ch'egli, fuori di sè per la commozione, era andato ad ossequiare insieme all'amico Moroello e ad altri compagni, si sentiva un altro. Conscio dell'alta missione che Iddio gli aveva affidato, s'era fatto banditore di pace e di fratellanza; aveva alzato la voce, come un antico veggente, per annunziare con franca parola il tempus acceptabile e i giorni sospirati del conforto. Solo nell'agosto del 1313, quando Arrigo VII moriva a Buonconvento, o forse qualche mese prima, quando andarono a vuoto i suoi primi tentativi contro Firenze, dovette sentire di nuovo tutta la gravezza del suo stato e piangere lacrime di sangue più dolorose delle prime,

essendo svanita per sempre la fugace speranza che l'aveva sostenuto. Ma poco dopo quell'epoca, quasi sdegnando quei luoghi, dove aveva trascorso nell'ansia i giorni più belli e le ore più tristi della vita, lasciando il Casentino, partirà per altre regioni in cerca di sollievo, fuggiasco e ramingo, senza una sede fissa dove attaccare il proprio cuore.

Questo tempo dunque non potè essere adatto all'amore da noi studiato. Vi pensò solo il Todeschini,(1) parlando della canzone << Amor dacchè ... », ma lo disse di passaggio, senza saperne egli stesso la ragione, e quindi senza darne alcuna prova. Noi non ce ne occuperemo. E sebbene potrei servirmi di molti argomenti per dimostrare che quest' amore non potè aver luogo dal 1311 al 1314, non lo farò, stimandolo inutile. Chi si è formato un concetto esatto della materia, ne dovrà convenire.

Ma se l'amore per la Pargoletta va riportato all'esilio, e precisamente al 1307, com'è che Beatrice lo rimprovera a Dante nel 1300, come cosa già accaduta? Si tratta forse di un altro amore? No, la donna che nomina Beatrice, la pargoletta, che gli fece « gravare le penne in giuso » (Purg., XXXI, 59), è appunto la giovane del Casentino, la Pietra crudele. Dante finge nel 1300 quello che invece era avvenuto più tardi. Egli scrivendo la D. Commedia sotto la viva impressione degli avvenimenti, per quanto cercasse di riferirsi sempre all'epoca della visione, non poteva fare astrazione da tutti quei fatti che s'erano svolti in seguito, e che pure costituivano la parte più bella e più importante di sè. La Pargoletta aveva lasciato nella sua mente un segno indelebile.

Ma forse, s'io non erro, fu anche un'altra la ragione che l'indusse a riportare quell'avvenimento al 1300: il desiderio di confondere in uno i suoi vari amori; quel medesimo desiderio che l'aveva spinto a ideare il Convito. Dante

(1) Loc. cit.

« ÖncekiDevam »