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s'era trasformato; un segreto rimorso e un'immensa vergogna l'aveva preso a dominare, per quella passione da cui s'era lasciato vincere per tanto tempo. La vergogna lo possedeva; e già, di girone in girone, come un'anima purgante nel sacro monte dell'espiazione, aveva provato i benefici influssi della grazia, e tra le fiamme salutari della settima cornice, purificandosi al grido di «beati mundo corde », aveva lasciato lo scoglio della lussuria, mentre una voce celeste, soave come una carezza, gli susurrava: «< Venite, benedicti patris mei » (Purg., XXVII).

VI.

CHI FU LA PARGOLETTA?

Che la donna sia reale non può esservi dubbio. Tant'impeto lirico e tanta verità nella descrizione di quest'amore, nemmeno ci permette di sospettarne; tanta costanza e tanta vena non avrebbe potuto tenere occupato e sospeso per un tempo così lungo l'animo d'un uomo. Certe cose si possono scrivere solo sotto l'ardenza della passione e col cuore addolorato, altrimenti nemmeno vi si riesce, per quanto uno se lo voglia imporre. Come il pianto e la gioia, che non sono cose volute ed imposte, ma vengono spontanee, quando altre occasioni le determinano. Un bell'esempio ce lo diede Dante stesso con la prosa del Convito, ch'egli forse fu costretto a sospendere per mancanza d'ispirazione.

Io qui, nelle rime studiate, non mi dilungherò a dimostrare l'impossibilità d'un'allegoria, perchè dovrei dir troppo, nè saprei dove mettermi le mani, non essendovene una che non accenni in modo chiaro a un fatto reale e veramente accaduto. La filosofia e la donna gentile sono state adoperate un po' troppo spesso a riempire, mi si perdoni la frase, tutti quei vuoti che la critica da sola era stata incapace di ricolmare. A Beatrice stessa si ricorse troppo spesso per spiegare le occasioni, che avrebbero spinto in vari tempi il Poeta a comporre. Dell'allegoria è bene servirci, come ci avvertì Dante nell' epistola a Cangrande; ma questa non si deve

rendere eccessiva coll' introdurla da per tutto, dov' essa non può entrare.

Strana è l'opinione del Kraus(1) a proposito delle rime pietrose. Egli affermò che in esse vedeva un riposto fine politico, riferendole a Firenze, la bella città idolatrata con impeti d'innamorato, la dura pietra che gli avea serrato in faccia le porte con crudeltà inaudita. E gli parve di trovare un riscontro nell'episodio di Brunetto Latini, dove si deplora che la città dell'Arno avesse accolto numeroso quell' ingrato popolo maligno, che teneva ancor del monte del macigno (Inf., XV, 61). Ma cos'ha che vedere quell'accenno con le rime pietrose?

M. Scherillo (2) avanzò un'ipotesi ancora più strana, affermando che le rime pietrose si debbono considerare come tante esercitazioni metriche, che il Poeta si sarebbe proposto per desiderio d'introdurre novità. E l'Imbriani (3) scrisse che l'Alighieri, nel tremendo imperversare della passione, per calmare alcun poco il sangue bollente e distrarsi, si sarebbe imposto appositamente dei rompicapi, tentando metri ardui e novità. Non troppo bella distrazione invero! Ma io su tali ipotesi, quando specialmente non presentano alcun' apparenza di probabilità, ho dichiarato più d'una volta che non intendo fermarmi. E cadono infatti, quando si riflette che nessuna divisione possiamo introdurre nel gruppo delle poesie studiate, le quali vanno riferite tutte a una medesima donna, si chiami questa col nome di Pietra, o di Pargoletta, o di Violetta.

(1) F. X. KRAUS. Dante, Sein Leben und sein Werke, Berlin, Grote, 1897.

(2) Alcuni capitoli della biografia di Dante, Torino, Loescher, 1896. (3) Le rime pietrose di Dante, Propugnatore, voll. X-XI. E vedi anche gli Studi danteschi, Firenze, Sansoni, 1891, pagg. 427-528.

(4) Per l'ipotesi dello Scherillo basterebbe, per esempio, osservare che «Cosi nel mio parlar...» non presenta alcuna novità, sebbene appartenga al gruppo pietroso.

Ma il vocabolo pietra, che ricorre tanto di frequente in alcune poesie, cosa significa? Rappresenta un nome proprio di donna, o no? Quasi tutti i critici, nel vedere le varie applicazioni di questo vocabolo in figura e in rima, e l'insistenza con la quale il Poeta vi torna sopra, furono concordi nell'ammettere che si trattasse d'un nome proprio. E certo non sarebbe questo il primo esempio, se si pensa ai giuochi di parola che troviamo nel Vangelo (Tu es Petrus et super hanc petram, ecc.), ai bisticci adoperati dal Petrarca sul lauro e sull'aura, agli scherzi e bisticci di Ludovico Ariosto sul nome di Ginevra e sul ginepro conifero, a quelli di Cino da Pistoia sul nome di Selvaggia, di Iacopo Caviceo e di altri. Ma dovremo proprio ammettere che tutte queste donne avessero un nome da prestarsi ad altro senso? Ed è poi sempre vero e giustificato questo doppio senso, che vi si volle trovare?

Se non che nel caso nostro la questione cambia, perchè, come già fu notato, Dante stesso ci dichiara ch' egli non volle si sapesse il nome della donna. Egli fece del tutto perchè non trapelasse a persona viva il minimo sospetto del suo

amore.

Perchè non ti ritemi

Rodermi così il core a scorza a scorza,
Com' io di dire altrui chi ten dà forza?

« Cosi nel mio parlar...», 24.

Che più mi trema il cor, qualora io penso
Di lei in parte, ov'altri gli occhi induca,
Per tema non traluca

Lo mio pensier di fuor sì, che si scopra,
Ch'io non fo della morte, che ogni senso
Colli denti d'Amor già mi manduca.

Ivi, 27.

Simili parole, ripiene di tanta sincerità e di così profonda evidenza, bastano per farci ritenere impossibile che Dante gettasse là, aperto a tutti e alla berlina, il nome vero della Pargoletta. Leggendo questi versi, mi viene ripensato a quel sonetto di Cino da Pistoia, nel quale pure si dichiara di voler tenere celato il nome di «colei che nella mente ha pinta ». E allora, se Dante, come dice egli stesso, cercò di tenere nascosto il vero nome della sua donna, vuol dire che l'appellativo pietra, il quale ricorre spesso in queste poesie, fu da lui adoperato perchè gli parve adatto a indicare alcune qualità proprie di lei. E questo è appunto ciò ch' io mi propongo dimostrare, avendo elementi sufficienti per farlo.

E ch' io abbia colto nel segno, ne fanno fede i versi seguenti:

Sicchè non par ch'ell' abbia cuor di donna,
Ma di qual fiera l'ha d'amor più freddo.
Chè, per lo tempo caldo e per lo freddo,
Mi fa sembiante pur com' una donna,
Che fosse fatta d'una bella pietra,

Per man di quel, che me' intagliasse in pietra.

« Amor, tu vedi ben...», 7.

In questi versi, è chiaro, il Poeta ci viene a dire quale fosse l'impressione, che di quella donna si era venuta determinando a poco a poco nella sua mente. Quella giovane insensibile gli parve quasi un essere inanimato, che non sente e non si scuote per nulla; gli diede l'aspetto d'una bellissima statua, che incanta chi la mira, ma che manca di vita. Era infatti bellissima, una Venere in persona, fatta da chi meglio avesse conosciuto l'arte dello scalpello (Per man di

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