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lità dominanti.1 Chi mai aveva pensato di trarre tanta ricchezza d'ispirazione, tanta novità di poesia dal passero solitario, da un colle, dalla sera del dì di festa, dalla quiete dopo la tempesta, dal sabato del villaggio, da un bassorilievo, da un ritratto, dal tramonto della luna, dal fiore del deserto? E che potenza d'ingegno lirico e d'arte non è questa, per cui il poeta, soggiogando e trasformando la storia e le cose, si trasmuta ora in Bruto minore, ora in Saffo, ora in Consalvo, ora nel Pastore errante dell' Asia, or financo nel Passero solitario? Nè però, in mezzo a tanta varietà d'immagini e forme, cangia mai sè stesso.

XIII. Al genio per la lirica era congiunto nel Leopardi anche il genio per la satira, del quale appariscono i segni, prima di tutto negli stessi lavori poetici della fanciullezza, come il travestimento dell'Arte poetica d'Orazio e La Dimenticanza, quindi nella traduzione della Batracomiomachia, nei cinque Sonetti in persona di ser Pecora fiorentino (1817), posteriormente nella traduzione della Satira contro le donne (1823); e anche in molte delle sue Prose. Fra i canti approvati possono rassegnarsi a questo genere l'Epistola a Carlo Pepoli (1826), e meglio ancora la Palinodia a Gino Capponi (1833), soprattutto poi il poema eroicomico, intitolato Paralipomeni della Batracomiomachia, perchè in esso il poeta (rinnovando una denominazione che è nella Bibbia e nei poemi di Germano Valente e di Quinto Calabro, a continuazione del Libro dei Re, dell' Eneide e dell' Iliade) finge con felicissimo trovato di continuar quelle guerre omeriche, trasportandone l'azione nel secolo decimonono fra il 1815 e il 1821, a rappresentarvi gl' Italiani da una parte e i loro oppressori dall'altra in contesa, gli uni per ottenere la libertà nazionale e gli altri per impedirla. La materia però del poema non è tutta in questa contesa, altrimenti vi sarebbe davvero ragione di affermare che gli ultimi tre canti sono superflui; ma è ben più vasta. Perocchè essa si agita in mezzo a una società che ha certe istituzioni civili e religiose, cultura e scienza; e tutte queste cose il Leopardi rappresenta poeticamente, mostrando, conforme alla sua dottrina del pessimismo, niuna fiducia nel progresso umano e poca nelle istituzioni del governo libero, non per sè stesse, ma

1 Ne discorsi io per cenni nello scritto Il Verismo nella Poesia di Giacomo Leopardi (Nuova Antologia, 1° luglio 1880).

fo, come io sono mutato da quel ch'io fui, così gli studi sono mutati. Ogni cosa che tenga di affettuoso e di eloquente mi annoia, mi sa di scherzo e di fanciullaggine ridicola. Non cerco altro più fuorchè il vero, che ho già tanto odiato e detestato. Mi compiaccio di sempre meglio scoprire e toccar con mano la miseria degli uomini e delle cose e d'inorridire freddamente, speculando questo arcano infelice e terribile della vita dell'universo. M'avveggo ora bene che, spente che sieno le passioni, non resta negli studi altra fonte e fondamento di piacere che una vana curiosità, la soddisfazione della quale ha pur molta forza di dilettare: cosa che per l'addietro, finchè mi è rimasta nel cuore l'ultima scintilla, io non poteva comprendere. Ma questa scintilla, cioè la poesia, nel suo cuore non era morta, era sopita soltanto, e cominciò a ravvivarsi con l'Epistola a Carlo Pepoli, che è, come già si è detto, il principio del secondo periodo poetico dell'autore. Che se delle sue venticinque prose a questo secondo periodo poetico appartengono le ultime quattro soltanto, forse ad esso però appartengono principalmente i Pensieri, sebbene con tutta probabilità cominciati fin dall'adolescenza, centoundici in tutto, scelti fra moiti più che restano anc' oggi inediti nella massima parte; i quali rammentano le Maximes del La Rochefoucauld e più specialmente i Ricordi del Guicciardini, uno degli scrittori italiani prediletti al Leopardi. Donde s'inferisce. che egli fu poeta e prosatore contemporaneamente, e non in due periodi successivi, come fu detto per la smania incorreggibile di accomodare le cose a preconcetti giudizî; e contemporaneamente veniva esplicando il suo pessimismo nella poesia e nella prosa, facendosi nell' una per l'altra a vicenda commentatore di sè stesso. Nelle prose è acuto osservatore della natura umana, come può uno a cui è mancata l'esperienza larga e varia della vita pubblica; è ragionatore sottile, e, secondo i principî suoi, conseguente; ma spiega i suoi pensamenti a gruppi staccati e facenti parte ciascuno da sè. Quanto allo svolgimento e all'esposizione, in nessuna quasi delle sue Operette procede col metodo del trattato scientifico, ma poeticamente incarna le proprie concezioni e dottrine nella vita e nei discorsi di personaggi storici o imaginari, e di altri esseri figurati sotto apparenze umane, adoperandovi talvolta la forma narrativa e più spesso la dialogica, pura o mista; come Platone, Senofonte e Cicerone presso gli antichi, e fra i moderni il Castiglione, il Caro,

il Gelli, il Galilei, il Boccalini e il Gozzi. Oltre a ciò per entro a queste prose, come nelle poesie, rappresenta il più delle volte sè stesso; nè sono altro che lui l'alunno a cui favella il Parini, Filippo Ottonieri, Tristano e via discorrendo. Per le quali cose tutte riesce filosofo e artista insieme, ma artista principalmente. Nè si deve nell'enumerazione delle Prose lasciare indietro il suo Epistolario, che, oltre ad essere il principal documento storico per la sua vita civile e letteraria, costituisce anch'esso, complessivamente preso, un monumento d'arte, ed è uno de' più belli dopo quello di Annibal Caro; salvochè nel Marchigiano del cinquecento v'è più vivezza e una perfezione che si manifesta sin dal principio, avendo egli corretto da sè le sue lettere primamente consegnate alla stampa; laddove quelle del Leopardi furono raccolte dopo la sua morte, e le più giovanili sono lontane dall'eccellenza da lui conseguíta posteriormente.

XV. Quanto al pessimismo, professato da Giacomo Leopardi, non essendo questo il luogo per ragionarne di proposito, basti accennare ch'esso, quale risulta dalle sue opere in verso e in prosa compresovi anche l'Epistolario, si svolge sostanzialmente su questi principi. Nella vita, secondo l'autore, non v'è altro che male e dolore; e poichè questi tengoho perennemente insoddisfatti i nostri invincibili istinti della felicità e del piacere, escluso un mondo soprassensibile e una seconda vita immortale, non resta a desiderare che l'annullamento dell'esistenza. Tale è, a suo giudizio, la condizione di tutti gli esseri dotati di sensibilità; condizione tanto più grave per l'uomo, in quanto che, essendo egli dotato inoltre di ragione, apprende con essa l'impotenza sua contro questa legge fatale della natura; e viene quindi a riconoscere la natura stessa come sua grande nemica, e a detestare l'atra face del vero. A questa sconsolata filosofia il Leopardi aprì la mente a poco a poco, dopo essere stato fino ai primi anni dell'adolescenza sinceramente religioso; e se la professava con piena convinzione, non è men vero però, non ostante una sua protesta, che le misere condizioni fisiche e morali di lui, come da tanti luoghi delle sue opere si raccoglie, contribuirono ad avviarlo in essa e a tenervelo fermo. Che egli nella sua mente avesse esplicato e ridotto il pessimismo a un sistema rigoroso di cognizioni, insomma a una scienza, come il suo contemporaneo Arturo Schopenhauer e l'altro filosofo alemanno anche più recente

Edoardo Hartmann, dalle opere sue e di prosa e di verso a me non par che risulti. E sarebbe facile per tale rispetto mettere in contradizione il Leopardi con sè stesso, raffrontando varî luoghi delle poesie e dei versi fra loro, e certe massime degli scritti con alcuni sentimenti suoi e atti della sua vita; come, per esempio, in quanto a quest'ultimo punto, la si desiderata e invocata morte con. lo spavento grandissimo che gl'incuteva il colèra; il che non tanto prova l'istinto della conservazione, insito (checchè se ne dica su le carte) nella natura umana, e comune perciò a tutti gli uomini, quanto che nel Leopardi quelle massime avevano origine dalla sua infelicità individuale, e che anche in esso la natura a quelle si ribellava. Nè però si fa di lui un adeguato giudizio col riguardarlo come pessimista soltanto, e come se nella sua vita e ne' suoi scritti non ci sia altro che il più nero pessimismo sono queste le solite esagerazioni, che menano a conclusioni fallaci e, per conto del Leopardi, anche ingiuriose; come questa fra le altre, che quel suo pessimismo spegnesse in lui i sentimenti che più onorano la natura umana, l'amore della patria e il culto della virtù. Chi asserisce questo, vuol chiuder gli occhi su la vita del sommo scrittore e sul suo Epistolario che n'è specchio fedele; vuol fraintendere a forza tanti luoghi insigni delle sue Prose, de' suoi Canti e specialmente dei Paralipomeni, e confondere, per esempio, con la sua sfiducia nelle istituzioni politiche e nel progresso umano (sfiducia senza dubbio esagerata, ma non però senza fondamento di vero, e giustificata in parte dalle smisurate esagerazioni teoriche di filosofi e di politici anche dell'età sua) l'invitto suo desiderio del risorgimento d'Italia, al quale, e non già solo nel tempo delle prime canzoni politiche, ma assai dopo, voleva indirizzata la letteratura, e specialmente la prosa. < Andando dietro ai versi e alle frivolezze (cosi scriveva nel giugno 1826 al Puccinotti) noi facciamo espresso servizio ai nostri tiranni; perchè riduciamo a un giuoco e ad un passatempo la letteratura; dalla quale sola potrebbe aver sodo principio la rigenerazione della nostra patria. Nè diversamente pensava circa gli effetti di una buona educazione civile, scrivendone nel marzo del 1828 ad Antonietta Tommasini; nè dubitava di significare al padre stesso, nel febbraio 1836, il suo voto e presagio di prossime rivoluzioni per abbattere il dispotismo dominante allora in Italia. Che se nella Palinodia, e nei Paralipomeni segnatamente, sparge

il ridicolo anche su i liberali, compiacendosi di riguardarli altresì negli aspetti men belli e più difettivi (quali erano, per esempio, le gran barbe e le altisonanti bravate), senza di che l'eroicomico non poteva crearlo, fa però risaltare di tanto in tanto il suo amore per l'Italia e il desiderio della redenzione di essa dalla tirannia straniera e domestica con versi splendidissimi, che la brevità non ci consente di riferire; ed è poi sì acre e spietato beffeggiatore dei retrivi e dei despoti, che non si può senza manifesta ingiustizia e senza grave onta negargli quei sentimenti di patriottismo, che mentre visse gli furono da tutti, cominciando dalla sua famiglia, attribuiti costantemente. Quanto poi alla virtù, pochi la professarono a fatti con pari costanza e abnegazione fra privazioni e patimenti indicibili; e per averne le prove basta recarsi a mente questi e la vita sua. Nè la lettura delle sue opere, ci si consenta infine anche un' osservazione estrinseca, produce quegli effetti funesti nell'ordine morale e civile, che parrebbero dover derivare dalla professione del pessimismo. Il fatto è che dalle sue concezioni e dottrine spira sempre un alto sentimento del sacrifizio e un disprezzo, quasi a dire, biblico di tutte le grandigie mondane. Che se egli nell'infinita vanità del tutto comprendendo, oltre le cose terrene, anche le soprassensibili, va ben più oltre del vanitas vanitatis et omnia vanitas, la rappresentazione delle prime, fra le quali si agita realmente la vita, è quella che più veramente e più durevolmente colpisce; ed è una verità conforme pienamente all' altro detto biblico, Qui addit scientiam, addit et dolorem, il suo frequente lamentarsi che

... alla festosa fronte

I lugubri suoi lampi il ver baleni.

Quanto poi ai rispetti più strettamente politici, è un fatto storico da non dimenticarsi che dopo la morte di lui e la pubblicazione delle sue opere, e singolarmente delle poesie da esso approvate, la generazione che si levò con entusiasmo nel 1848, e più felicemente nel 1859, alla redenzione della patria, aveva tratti potenti stimoli anche dai Canti del Leopardi; parendoci allora di sentire nell' estetica significazione di quel misterioso dolore i patimenti e i gemiti dell' Italia.

XVI. All' eccellenza nell' arte venne col potentissimo ingegno, avvalorato da un ordine di studî, che, avendo portato sì mirabili effetti, è degno di essere me

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