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miti sul parapetto, e stette alcun tempo in silenzio guardando. Il sole cadente, mezzo ascoso fra le più alte cime d'un bosco lontano, tingea la vasta uniforme pianura frapposta d'una luce squallida, inerte, non rotta da altro che da rade inamabili ombre d'un qualche salcio che sorgeva qua e là per l' uliginoso terreno. L'aria greve e morta era piena d'uno sterminato, nojoso gracidar di rane: dai pantani, dai lagumi, dai canneti, dai paludacci che occupavano tutta quella campagna, quanto era grande, si alzava frattanto un nebbione grigio, che, stendendo a poco a poco un velo sugli oggetti vicini, offuscava più sempre di mano in mano quelli che si venivano scostando, e toglieva affatto la vista dei più lontani. Alcuni raggi di sole attraversa vano da prima a fatica quel freddo e crasso nuvolone; ma si venivano ad ogni poco smorzando e ritraendo indietro, a somiglianza degli sguardi d' un agonizzante; finchè soverchiando i vapori, e cadendo il sole, ogni luce fu spenta, e parve il chiudersi degli occhi dell' uomo nella morte.

Un tramonto tanto diverso da quelli così splendidi, così sfoggiati, che l'infelice era solita contemplare dalle sue montagne, richiamò dolorosamente fra quelle il cuore di lei, che togliendosi dal verone, tornò al tavolino, su cui ardeva d'un lume rossastro e nebuloso la lucerna stata accesa da Lauretta1 un momento prima: e si abbandonò sulla seggiola, e sclamò: Oh Signore! il mio tormento è troppo!

-

Stettero per un istante ambedue in silenzio; poscia la buona ancella andò al terrazzino per chiuderne le imposte; quand' ecco si sente il suono d'un liuto; Lauretta riman sospesa con una mano sul battente; la padrona si mette un dito sulla bocca, tende l'orecchio, e sta in ascolto. Quell'aria malinconica non le è nuova; si leva in piedi rinfrancata, move i passi leggera leggera, viene al veroncello, sporgendo il capo per poter coglier meglio ogni nota, poi dice sotto voce a Lauretta: - È il preludio della Rondinella: ma sta', che incomincia la canzone. - In fatti si sentì una Voce un po' velata dalla distanza, che accordandosi alla flebile melodía delle corde intonò questo lamento:

Rondinella pellegrina

Che ti posi in sul verone,

La fida e affettuosa cameriera di Bice.

MESTICA.

- II.

17

Ricantando ogni mattina
Quella flebile canzone,

Che vuoi dirmi in tua favella,
Pellegrina rondinella?
Solitaria nell' obblio,

Dal tuo sposo abbandonata,
Piangi forse al pianto mio
Vedovetta sconsolata?

Piangi, piangi in tua favella,
Pellegrina rondinella.
Pur di me manco infelice

Tu alle penne almen t'affidi,
Scorri il lago e la pendice,
Empi l'aria de' tuoi gridi,
Tutto il giorno in tua favella
Lui chiamando, o rondinella.
O se anch' io!... Ma lo contende
Questa bassa, angusta volta,
Dove sole non risplende,
Dove l'aria ancor m'è tolta,
Donde a te la mia favella
Giunge appena, o rondinella.
Il settembre innanzi viene
E a lasciarmi ti prepari :
Tu vedrai lontane arene,
Nuovi monti, nuovi mari,
Salutando in tua favella,
Pellegrina rondinella :
Ed io tutte le mattine

Rïaprendo gli occhi al pianto,
Fra le nevi e fra le brine
Crederò d'udir quel canto,
Onde par che in tua favella
Mi compianga, o rondinella.
Una croce a primavera

Troverai su questo suolo:
Rondinella, in su la sera
Sovra lei raccogli il volo:
Dimmi pace in tua favella,
Pellegrina rondinella.

[Capitolo XXVI.]

[DALLA NOVELLA] ILDEGONDA.

[1820.]

Morte d'Ildegonda.*

Poi le dice: Ecco affrettasi il momento
Che darà fine a questa lunga guerra:
Già nelle membra travagliate sento
Una voce che chiamami sotterra.
Forse mi cercherai domani, e spento

Quel raggio in me che tanto amasti in terra,
Mi troverai, e non avrai presente
Fuor che un freddo cadavere indolente.
E tu, sorella, tu il cadaver mio

Toccherai sola; tanto imploro, o cara;
Tu lo componi in atto umíle e pio
Con le tue man sulla funerea bara;
E orando sovra lui prega da Dio
La pace che a' suoi giusti Egli prepara.
L'altra a risponder si movea, ma intanto
Pietà la vinse e ruppe in un gran pianto.

- Non pianger, proseguia la rassegnata,
Non pianger me, che alfine arrivo in porto.
Che fare' io deserta e travagliata

In tanto mare, senza alcun conforto,
Or che tolta mi fu la madre amata,

Che il mio Rizzardo, il mio Rizzardo è morto?
A tutti in odio, fuor che il pianto, in questa
Misera valle, dimmi, or che mi resta?

E in così dir, l'amica accarezzando,

Le asciuga gli occhi e bacia in fronte spesso;

E: Mel concedi quel che ti domando?

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Lo farai? dunque lo prometti adesso?
Così insistente supplicava; e quando
Quella il capo inchinando ebbel promesso,
Mercè te n'abbia il Ciel, sorella mia:
Oh di che amor mi amasti!

e proseguia :

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* Ildegonda, languendo, malata a morte, sul suo letticciuolo, parla a Idelbene la sola amica sua fra tutte le suore. - Vedi, in questo volume, biografia del Grossi, pag. 241.

V. 8. Indolente. Fatto insensibile al dolore; ma è senso strano da quello che tal voce ha nell'uso comune letterario e popolare.

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Mi vestirai di quella veste bianca
Che mi trapunse la mia madre invano,
Nei tristi giorni quando afflitta e stanca
L'aspettato piangea sposo lontano:
Il mio rosario ponmi nella manca,

35

Il Crocifisso nella destra mano,

E di quel nastro annodami le chiome

Su che intrecciato il mio sta col tuo nome.

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Se fuor verrò portata dal convento,

Siccome prego e supplico che sia,
Mi porran nell' antico monumento
Della famiglia con la madre mia:
Che se dato non m'è tanto contento,
Mi seppelliscan qui presso la zia
Nella chiesa de' morti, sotto al sasso
Che terzo troveran, venendo al basso.
E tu, allor che involandoti alla schiera

Delle infelici che non han mai pianto,
Verrai soletta, quando si fa sera,
Celatamente in quell'asilo santo,
Próstrati, o cara, nella tua preghiera,
Sul sepolcro di lei che t'amò tanto:
Sentiran dal profondo della fossa

La tua presenza e esulteran quest' ossa.

Il commosso ministro sulla pia

De' morenti le preci proferendo,
Devotamente ad or ad or la gia
Nel nome di Gesù benedicendo,
Finchè il tocco feral dell' agonia
Fra'l sopor che l'aggrava ella sentendo,
Balzò commossa, girò gli occhi intorno,
E domandò s'era spuntato il giorno.

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Le fu risposto esser la notte ancora,

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Ma che indugiar però più lungamente

Non puote ad apparir nel ciel l'aurora,
Chè già svanian le stelle in orïente.

Tale di riveder la luce allora

Surse desio nel cor della morente,

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Che fe' schiuder le imposte, e fu veduta

Guardar gran tempo il ciel cupida e muta.

Si scosse finalmente, e vista accesa

Starle la face benedetta accanto,

Le preghiere ascoltando della Chiesa
Che ripeteale quel ministro santo,

E la campana funerale intesa,

Che di squillar non desisteva intanto,
Dolce alzò gli occhi ad Idelbene in viso,
Ed Ecco, le dicea con un sorriso,

Ecco l'istante che da lungo agogno.

Ma un affanno improvviso qui l'oppresse,
E levarla a sedersi fu bisogno,
Chè rïaver l'anelito potesse.

- Oh me contenta! questo non è un sogno,
Disse, poichè il vigor glielo concesse;
Chè il dì de' morti rammentava, quando
Spirar tranquilla si credea sognando.
E furon queste l'ultime parole.
Il capo, a guisa di persona stanca,
Lene lene inchinò, siccome suole
Tenero fior cui nutrimento manca.
Le sorge a fronte luminoso il sole,
E quella faccia più che neve bianca
Col primo raggio incontra, e la riveste
D'una luce purissima celeste.

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[Parte quarta.]

[DAL POEMA] I LOMBARDI ALLA PRIMA CROCIATA.

[1821-1826.]

Giselda nel serraglio di Antiochia.

Ove più bella la minor collina

Che d'Antiochia sorge entro le mura,
Il largo fianco lentamente inchina
Cosparso di fioretti e di verzura,
Salutato dall' aura mattutina,
Dalla prima del sol luce più pura,
L'altera fronte un bel palagio estolle
Fra boschi ameni sovra l'erba molle.
Portici ed atrii in maestoso giro

Tra il verde si confondon delle piante;
Ivi i bei marmi splendono che usciro

V. 81. Da lungo. Vedi nota 30 a pag. 223 di questo volume.

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V. 89-96. In questa ottava si sente una libera imitazione felice del

Petrarca nelle terzine dei Trionfi su la morte di Laura.

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