E duolsi del suo stato, e si querela [Canto I, st. 26-89.] I. GIOVANNI TORTI. Giovanni Torti milanese, nato il 28 giugno del 1774, nella prima giovinezza studiando sotto la disciplina di Giuseppe Parini, professore nel Ginnasio di Brera, da lui bevve l'amore alle lettere e il culto della casta e virile poesia col disprezzo della dominante scuola frugoniana e col mezzo di lui ottenne quindi dal cardinale Durini il mantenimento nel Seminario di Milano, dove compì il corso di filosofia ed imprese quello degli studî teologici. Se non che, nella primavera del 1796, scosso al grido di libertà e di repubblica, acclamata con l'arrivo del vittorioso generale Bonaparte, salutò anch'egli giovanilmente l'alba de' nuovi tempi con un inno che fu cantato dai seminaristi il giorno che nel loro cortile. piantarono, secondo l'uso d'allora, l'albero della libertà. Abbandonata dipoi la carriera ecclesiastica, nel primo triennio repubblicano tenne l'ufficio di segretario del Comitato preposto alla pubblica istruzione; ma, d'animo intemerato e temperatissimo, rifuggiva dalla prevalente licenza. Dopo le vittorie degli Austriaci e dei Russi nella primavera del 1799, per la perdita dell' ufficio trovandosi impotente a mantenere la madre cieca ed inferma, fu sovvenuto dalla generosità di Francesco Melzi, e quindi da lui, vicepresidente della repubblica italiana, assunto segretario al dicastero dell'istruzione pubblica: nel quale ufficio, per la sua costante riservatezza, potè durare fino al 1843, in cui ottenne la pensione. Sollevatasi nel 1848 l'Italia agli alti propositi e fatti per la libertà e l'indipendenza nazionale, egli dopo la sollevazione di Milano. dettò un Inno intitolato Le cinque giornate, anche più debole del Cantico del Grossi, e datolo alle stampe insieme con quello e con l'ode patriottica del Manzoni,1 n' ebbe guai; poichè, seguíta poco appresso per la forza delle armi la restaurazione del governo austriaco, benchè vecchissimo dovette esulare. Avendo riparato a Genova, dal governo piemontese fu nominato rettore dell' Università, e da tutti riverito, tenne quell' alto ufficio fino alla morte, che lo colse quasi ottuagenario nel 15 febbrajo del 1852. - II. Fu scrittore di versi lirici e didascalici principalmente. Venuto dalla scuola del Parini tenne su le prime al classicismo severo del suo maestro; e acquistò reputazione fin dal 1809 con l' Epistola sui Sepolcri di Ugo Foscolo e di Ippolito Pindemonte, soggetto opportuno piuttosto a un lavoro critico in prosa; e difatti le parti veramente poetiche dell' Epistola sono quelle dove la critica o non è toccata o v'entra per poco. L'indole sua affettuosamente malinconica e il sentimento religioso, inoltre l'intimità col Manzoni, col Grossi e coi letterati del Conciliatore lo portarono quindi ad abbracciare fervidamente le dottrine romantiche, esplicatesi a Milano tra il 1816 e il 1820; e mentre altri le esponevano in prosa, egli ne verseggiò alcune parti in quattro Sermoni Sulla Poesia (1818), che hanno tratti belli per naturalezza e temperata vivacità; ma in generale, anche per la natura didascalica del soggetto, hanno pochi e scarsi lumi poetici. Già due anni prima aveva pubblicato un Carme Sulla Passione di Gesù Cristo; posteriormente, volle tentare anche la novella poetica, come l'Ildegonda e la Pia; e nel 1829 mandò fuori un poema di otto canti in ottava rima, intitolato La Torre di Capua su i fatti di Cesare Borgia, lavoro poco felice per difetto di organismo, e per fiacchezza di stile. Nel suo poemetto in quattro capitoli, Scetticismo e Religione, l'ultimo su la vecchierella ha pregio per affettuosa semplicità, nel genere più umile della poesia narrativa e patetica; del resto si può lodare la buona intenzione, ma chi potrebbe chiamar poesia questa, o solo nominarla, a paragone del Fausto, del Giovine Aroldo e del Fiore del deserto, ai In questo vol., pagg. 140 (nota 2) e 243. quali egli intese contrappor con la sua una sana dottrina? Tanto è vero che questa a far buona poesia non basta. L'Epistola in morte della moglie, lunga oltremodo, co' suoi brevi e radi bei tratti non può compensare la languidezza del tutto. Pochi e valenti, disse il Manzoni nel suo romanzo,' i versi di Giovanni Torti; e allora, verso il 1826 quando si stampavano quelle parole, essi erano pochi davvero; ma poi col divenir molti (poichè il Torti continuò a verseggiare fin nella tarda vecchiezza) scaddero generalmente dal pregio, non insigne, di quei pochi. Questo poeta, lodato troppo, nella rappresentazione dei teneri e miti affetti e anche delle norme dell'arte per lo più riesce felicemente, con purezza di lingua e castigatezza di forma, ma gli avviene di guastare ciò che fa bene, cadendo ad ora ad ora nel prolisso e nel prosaico; quando poi tenta d' inalzarsi dà nello sforzo; lavora sopra ideali angusti, l'ascetico sentimento religioso non sa ritemprare nel civile ed umanitario, e difetta d'ispirazione profonda. La sua non è vena poetica, ma un rivoletto. [DALL'] EPISTOLA SUI SEPOLCRI DI UGO FOSCOLO E DI IPPOLITO PINDEMONTE. Tua giovinezza e l'invido recinto, Che fu de' tuoi primi anni a guardia eletto, Ti vietaro il mirar sovra gl' infermi Fianchi e l'infermo piè proceder lente 5 Nel cap. XXIX: « [L'innominato] radunò i servitori che gli eran rimasti, pochi e valenti come i versi di Torti.» Giovi qui rammentare che il popolo fiorentino, del cui uso vivente il Manzoni s'era fatto legge, adopera (e benissimo) il cognome con l'articolo innanzi. Poesie complete di Giovanni Torti con un discorso di G. B. Cereseto. Genova, Grondona, 1853. Un vol. in 16° di pagg. xxx-452. V. 2. Parla a Giambattista De Cristoforis milanese, chiamandolo Delio, il quale, essendo stato messo a studiare nel Collegio detto allora de' Nobili, non potè frequentare la scuola del Parini, che insegnava belle lettere nel Ginnasio di Brera. Di sotto agli archi dell' augusto ciglio. Porgea soccorso; ed anco, oh maraviglia!, 10 15 20 Ah! poichè d'oro a me copia non venne, 25 Di ch'io far possa all' alta ingiuria ammenda, Arte de' versi ordir si nobil opra, Che alle più tarde età di lui ragioni, E quanto io l' adorai sempre ridica? 30 Or quando, o Delio, ella è impossibil cosa, Il pietoso desio d'altro s' appaghi. 35 40 Sguardi e sorrisi, ecco l'eterna notte 45 Premerti il latte dal suo petto, e, al lungo Studio sedendo dell' amata culla, Consolar di sue voci i tuoi vagiti. Il poetare del Foscolo e del Pindemonte. Tu vedi ben quai vie Piacquer diverse ai duo diversi ingegni. Al ciel levando, ad or ad or sorride; Sua più diletta laude, e apparir gode E v' ha cui sembri oltra il dover profuso; Pur le mie labbra; nè il vedrei lo sguardo, Torcer da me, se al generoso petto Debito certo avrai. Sol ti ricordi Ch'uomo ad uomini parli; e foggiar gli altri V. 5. Ippolito Pindemonte. V. 9. Ugo Foscolo. |