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del tema con la prolissità e la prosaicità della forma. Quasi ogni componimento, specialmente nel genere affettivo e malinconico, ha di bei tratti, poetici veramente, sì per le cose e sì per lo stile; ma nessuno è da collocarsi fra i lavori estetici insigni. Nella struttura e nel ritmo del verso, che è tanta parte della poesia, il Pellico non è grande artista, e ad ora ad ora dà nel cascante. Questa imperfezione apparisce più sensibile nelle liriche, ove anche la squisitezza del metro vuol esser maggiore; come si vede in quelle del Foscolo, del Manzoni e del Leopardi. Sentir forte, sentir dilicato, armonia tra i pensieri e le parole, tra l'arte e la naturalezza; sono, a giudizio suo, le doti che principalmente dee possedere un poeta vero; ma più veramente son quelle che possedeva lui, salvochè il sentir forte gli era assai meno proprio che il delicato.

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VII. Le prose di Silvio Pellico, oltre gli articoli di morale e di critica, dei quali si è fatto cenno più addietro, sono le Mie prigioni, i Doveri degli uomini e l'Epistolario. Alla prima di queste opere, che è il suo capolavoro, egli pose mano qualche mese dopo tornato dal carcere decennale in Torino, per i conforti di un buon sacerdote, e in un anno e mezzo circa condottala a fine, nel novembre del 1832 la pubblicò con le stampe." Pochi libri hanno avuto mai (non ostante le contraddittorie censure di pochi, appartenenti a fazioni politiche eccessive e fra loro opposte) sì grande e universale efficacia. Al racconto di quelle ineffabili calamità e pa-. timenti, tradotto subito in ogni lingua, lagrimarono per tutto il mondo civile persone di ogni condizione, credenti e increduli, dotti e indotti, liberali e retrivi, e segnatamente il sesso gentile. L'Austria, maledetta nell'uno e nell' altro emisfero, n'ebbe più danno che da una battaglia perduta; essa, allora prima potenza militare d'Europa, fu costretta a chiudere per sempre l'abominato Spielberg; moralmente al suo dominio in Italia segnò la fine quel libro. Come opera d'arte esso fu ne' primi tempi levato a cielo, perchè confusone il

'Lett. a Pietro Giuria, 26 giugno 1840.

* La Censura ne approvò la stampa richiedendo dall'autore modificazioni di poco momento (Lett. a Cesare Balbo, 20 luglio [1832]). Quella prima edizione porta il seguente frontespizio: Le Mie Prigioni, Memorie di Silvio Pellico da Saluzzo. Homo natus de muliere, brevi vivens tempore, repletur multis miseriis. JOB. - Torino, presso Giuseppe Bocca, librajo ec., 1832 (tip. Chirio e Mina). Pagg. 339, in 8°.

valore intrinseco con l'effetto immenso.che produceva; poi fu strapazzato indegnamente, e si pretese perfino di farlo cadere nell'obblio. A considerarlo solo qual documento storico (benchè nel racconto vi siano omissioni, avendo l'autore per varî rispetti, e specialmente per non nuocere ai compagni gementi ancora nel carcere,' taciuti alcuni fatti e particolari, narrati poi dal Maroncelli e dall'Andryane), il libro ha sempre molta importanza; ma ben maggiore ne ha come lavoro d'arte. Il Pellico dalla sua anima sentimentale e riflessiva era portato al racconto della vita intima; il carcere di dieci anni con l'abituarlo alla meditazione nella solitudine e all' esame di sè stesso glielo rese familiare; il suo ingegno estetico veniva designando e svolgendo quella creazione naturalmente. L'opera d'arte rappresenta ad un tempo una storia intima e psicologica e una storia estrinseca, con tal misura però, che la seconda, sebbene costituisca l'orditura, e faccia più comparsa, in realtà prende vita e forma dall'elemento soggettivo, che è dominante. Per tutto il lavoro v'è una temperatezza veramente insigne, così nel rispetto estetico come nel morale; nulla d'incoerente, d'enfatico e di romoroso, nessun segno d'ira e risentimento, neanche una parola sdegnosa contro gli autori de' suoi martirî. Felice nella scelta delle cose da dire fra tante che n'ha omesse, fu poi felicissimo per aver saputo presentare alla fantasia del lettore un gran personaggio, benchè nominato due o tre volte appena e con tutta semplicità. L' imperatore d' Austria nelle Mie Prigioni si sente e s'immagina come nella tragedia dell'Alfieri il Dio (che però v'è nominato tante volte) punitore di Saul senza che comparisca mai su la scena: ingegnosità artistica di sommo pregio, e quanto ai maravigliosi effetti del libro, non ultima certo a promuoverli. Quello spettro imperiale nella lettura del libro si aggira sempre davanti alla nostra mente, fino al momento in cui l'artista lo suscita e fa giganteggiare sinistramente con un tocco terribile, allorchè passeggiando egli con altri reduci dello Spielberg, sotto custodia, ne' magnifici viali di Schoenbrunn, venne a passar quivi l'Imperatore; e allora il Commissario li fece ritirare, perchè la vista delle loro sparute persone non l'attristasse. Quanto alla politica, simile ad un amante

1 Lett. a Federigo Confalonieri, 17 maggio 1838; a Pietro Giuria, 21 febbrajo e 10 marzo 1842; a Cesare Cantù, aprile 1843.

Le Mie Prigioni, cap. XCII.

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maltrattato dalla sua bella, e dignitosamente risoluto di tenerle broncio, l'autore al cominciar del libro aveva protestato di volerla lasciare affatto in disparte, ma la politica dietro le scene domina, non solo nello spettro dell'innominato protagonista, ma in tutto quanto il soggetto e nel suo svolgimento, sia pur sempre a maniera indiretta. Lo stile semplice e senza ornamento aggiunge perfezione a un lavoro dove il sentimento sempre caldo vuole escluso ogni fronzolo, ogni artificio; salvochè talvolta trasmoda un po' nel sentimentalismo ascetico specialmente. Pregî consimili, meno luminosi per l' una parte, e scevri per l'altra da ogni sentimentalismo, ha il libriccino dei Doveri, che è scritto in forma di Discorso ad un giovane; lavoro più direttamente educativo, in cui l'idea del dovere ne' suoi più nobili oggetti è svolta con pensieri non peregrini, ma giusti e con affettuosità attraente. Si provò il Pellico per due volte nel romanzo storico; ma non ero ancora alla metà dell'opera (dice egli stesso) che il mio ardore venne meno, considerando a quale immensa distanza io mi rimanessi per sempre da capi d'opera che in questo genere possediamo, specialmente dai Promessi Sposi dell' inimitabile Manzoni.3» E tornato al genere prediletto, a cui appartiene il suo principale componimento, scrisse una sua Vita, che nel 1837 era già fatta, ma non ne restano che dodici capitoli da lui donati ad Antonio De Latour, che li pubblicò in francese nella ristampa (1843) della sua traduzione delle Mie Prigioni. Appartiene al genere stesso il suo Epistolario," il quale, non ostante la gran lacuna di un decennio, quando l' infelice prigioniero poteva carteggiar ben poco, è solamente sotto gli occhi dei soprastanti censori, non ostante che sia povero di notizie e di giudizî intorno al movimento letterario dei tempi, e anche agli studî dell'autore, porge una viva rappresentazione della sua vita morale e affettiva, e come tale è pur esso una storia importante completiva delle Memorie su la prigionia;

Le Mie Prigioni, cap. I.

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Dei Doveri degli uomini, Discorso ad un giovane, di Silvio Pellico da Saluzzo. Justitia enim perpetua est et immortalis. LIB. SAPIENTIÆ, c. I, v. 15. Torino, presso Giuseppe Bocca, librajo di S. S. R. M., 1834, in 8°. Capitoli aggiunti ec., cap. XII.

Lett. a monsieur Antoine De Latour, 7 novembre 1837; a Federico Confalonieri, 17 maggio 1838; a Pietro Giuria, 27 luglio 1844. Poi si pentì di averli pubblicati; lett. a Cesare Cantù, agosto 1843.

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* Epistolario di Silvio Pellico, ec. Firenze, Le Monnier, 1856.

MESTICA. - II.

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sebbene dopo la metà si renda un po' monotona, sex pre più restringendosi nell' ascetismo. Le sue lettere benchè rivelino più l'uomo che lo scrittore, anche artisticamente son belle, e spesso esemplari; lo stile è di una grande semplicità e limpidezza, e, senza menome affettazioni e volgarità, schiettamente moderno.

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Senti presto, e massimamente per le sventure, il disinganno di tutte le illusioni,' e perdette quasi ogni fiducia nel progresso umano, come Giacomo Leopardi; se non che fu a lui rifugio e conforto quella religione, che nell' altro a poco a poco mancò affatto. E la religione, dominandolo tutto, nella vita letteraria come nella morale, sopraffece in lui l'ideale politico per modo, che questo nelle sue produzioni artistiche resta scolorito e impotente; di là pure quel sentimentalismo ascetico nocivo all'arte, non solo come abbiamo già detto nel suo capolavoro, ma talvolta anche nelle poesie liriche e narrative. Silvio Pellico studiò la lingua negli autori, ma non fa mai sentir l'affettazione, nè mai ebbe la smania di toscaneggiare; nelle sue opere la lingua è quasi sempre purgata, lo stile è migliore anche della lingua. Non toccò in alcuno de' suoi lavori a superba altezza; ma fra gli scrittori di second' ordine primeggia; e la gloria indelebile del martirio conferisce alla maggior vitalità della letteraria. Modestissimo sempre, e non con simulazione, < Siate più giusti, scriveva egli ad alcuni suoi amici che lo avevano lodato troppo, e dite solo che se non mi sono alzato molto, forse i posteri vorranno in parte scusarmi, pensando a' miei anni di dolore. Certo avrei prodotto di più e con più forti studî.3 ›

'Lett. a suo padre, 18 maggio 1821.

2 Lett. a Federico Confalonieri, 11 settembre 1837.
3 Lett. a Giovanni Vico, 16 agosto 1841.

[DALLE] LETTERE.

Al conte Federico Confalonieri.1

Torino, 17 gennajo 1836.

Mio caro, mio sommamente caro Federico. Potrà questa mia lettera giungerti? potrò io finalmente rivedere i tuoi diletti caratteri? avrò io la consolazione d' intendere che la tua salute sia comportevole, e che ella si vada migliorando. colle maggiori cure che potrai averne ora, che, grazie al cielo, sei fuori da quell'albergo di stenti e di dolore? Oh! mio Federico, quanto ho sospirato per te la cessazione di quella grande sventura! quanto l' ho chiesta a Dio! quanto esulto che alfine ti possano sorridere giorni, ah! non lieti, no, ma pure men dolorosi, ed anzi misti a qualche viva e durevole dolcezza! Non lieti pur troppo, dopo la perdita che facesti di quell' angelica tua Teresa, che sarebbe stata la tua consolatrice di tutte le pene che troverai ancora sulla terra, e che avrebbe raddoppiato ogni tua contentezza! Forse il tuo cuore, mio buon Federico, avrà indovinato che fra gli amici, che piansero la morte di quella eroica donna,

Federico Confalonieri, nato a Milano nel 1776, avverso durante il regno italico al vicerè Eugenio, nel 1814 fu tra i principali fautori della costituzione di quel regno affatto indipendente dagli stranieri. Nel 1821 capo del rivolgimento patriottico che si ordiva in Lombardia contro l'Austria. Arrestato allora, fu poi condannato a morte; commutatagli la pena, per le suppliche di sua moglie Teresa Casati, corsa per tal fine a Vienna, nel carcere perpetuo allo Spielberg, ne uscì graziato nel 1836, dopo la morte di Francesco, dal nuovo imperatore Ferdinando. Trasportato in America, tornò quindi in Francia, e finalmente verso il 1840 a Milano, ma rovinato già nella salute morì nel 1847. La moglie, donna incomparabile, era morta prima ch'egli uscisse di prigione. Per lei Alessandro Manzoni dettò questa epigrafe:

Teresa, nata da Gaspare Casati e da Maria Orrigoni il XVIII Settembre MDCCLXXXVII, maritata a Federico Confalonieri il XIV Settembre MDCCCVI, amò modestamente la prospera sorte di Lui; l'afflitta soccorse coll'opera, e partecipò con l'animo quanto ad opera e ad animo umano è conceduto; consunta, ma non vinta dal cordoglio, morì sperando nel Signore dei desolati il XXVI Settembre MDCCCXXX.

Gabrio, Angelo, Camillo Casati alla sorella amatissima ed amabilissima eressero ed a sè prepararono questo monumento, per riposare tutti un giorno accanto alle ossa care e venerate.

Vale intanto, anima forte e soave, noi porgendo tuttavia preci, e offrendo sacrifizi per te, confidiamo che, accolta nell' eterna Luce, discerni ora i misteri di misericordia, nascosti quaggiù nei ricordi di Dio.

Il Confalonieri ricevette questa lettera a Vienna dopo uscito dallo Spielberg.

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