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ditato. Prima di tutto, una profonda conoscenza e familiarità, acquistate fin dall' adolescenza, della lingua e letteratura greca e latina; contemporaneamente ed appresso, l'esercizio delle traduzioni dei classici, incessanti tentativi diversi di composizioni in prosa e in poesia, lo studio dei trecentisti per la lingua italiana, degli scrit-. tori susseguenti e dell'uso moderno. E per ammonimento soprattutto di coloro che con tanto minori attitudini di natura e d'arte pretendono di avere imparato in fretta lo scriver bene, giova anche ricordare che il suo perfezionamento fu graduale e lentissimo, e nelle prose più che nelle poesie, a considerar però i suoi scritti dalla fanciullezza; chè, guardando solo gli approvati da lui, nelle prose lo stile sin dalle prime è men lontano dall'eccellenza; cosa naturale ove si consideri che le poesie cominciano dal 1816, e le prose quasi tutte stanno fra il 1823 e 1827, quando era già artista. E pure anche la Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto e la Storia del genere umano, benchè non abbiano, a ragguaglio, le mende de' primi canti, a me pajono inferiori notabilmente alle altre prose, forse per l'originalità e certamente per lo stile, che mi riesce in esse men flessibile e piuttosto pesante. Proseguendo sempre in meglio co' nuovi scritti, su i già composti adoperava, per le edizioni posteriori, assiduamente la lima, attendendo a minuzie che ai profani dell'arte sembrerebbero inezie o pedanterie; all'eliminazione di parole e maniere che tenessero dell' affettato, alla ricerca di maggiore proprietà, precisione e concisione, della naturalezza, della semplicità e spigliatezza moderna, nei modi che per sè domandano diversamente la poesia e la prosa. E notabile però che in nessun componimento le correzioni non riguardano quasi mai al contenuto, salvochè in lievissimi punti, mai all' organismo del lavoro; il che prova che le sue concezioni erano profondamente meditate e delineate esteticamente. E difatti ha ciascuno di quei componimenti, e i poetici a maniera più insigne, si giusta compitezza nello svolgimento del soggetto, si bilanciata economia nelle parti e nel tutto, e tale succosissima parsimonia, che anche per questi pregî il Leopardi può solo paragonarsi coi primi scrittori di ogni tempo. Del resto quanto allo stile, le sue poesie, come già si è detto, in parecchi dei canti anteriori al 1824 e in quasi tutti i posteriori sono perfette. Le Operette morali per la proprietà e castigatezza della lingua e della elocuzione sono

inappuntabili quasi sempre, per lo stile poi, anche a giudizio di Alessandro Manzoni, non vi è forse niente di meglio nella prosa italiana moderna.' Che se alcune di esse a riuscir più attraenti vorrebbero maggiore sveltezza e brio, fino a quanto può ammetterne l'esposizione letteraria di dottrine austere, molte però hanno pur queste doti, e ve ne sono di quelle che possono additarsi per esemplari di perfezione; come l'Elogio degli uccelli, non ostante qualche rarissima e lieve affettazioncella che ha comune con altre prose, e il Dialogo di Tristano e di un Amico. Riguardate poi tutte complessivamente, e l'una in rispetto dell'altra, recano una grande varietà di forme; anzi le forme della prosa, quali più, quali meno esplicate, vi sono tutte. Quanto alla materia, ove se ne faccia paragone con le poesie, non si può negare che nelle prose la dottrina del pessimismo è spiegata per alcune parti più nettamente; ma la progressione di esso nella mente dell'autore, insomma l'occulta trasformazione del pensiero leopardiano è rappresentata nelle poesie con uno svolgimento più graduale. Oltre a ciò quella sconsolata filosofia. le prose ce la mostrano in tutta la sua terribile nudità trasparente come da tenuissimo velo; le poesie la presentano e la fanno sfolgorare coi vivi colori dell'immaginazione, e soprattutto del sentimento, e con la luminosa rapidità dello stile. Infine, quel pessimismo, come lo aveva concepito il Leopardi, per natura sua è lirico essenzialmente; il giudizio stesso della posterità lo ha consacrato per tale, qualificando il Recanatese come poeta del dolore. Perciò nella rappresentazione di questo, in poesia come in prosa, il Leopardi vuole essere accompagnato non tanto coi filosofi alemanni, che hanno elevato oggidì il pessimismo a scienza, quanto coi grandi poeti del suo tempo, specialmente col Goethe e col Platen, col Byron e con lo Shelley, che variamente e con forme artistiche le più diverse nella prima metà di questo secolo lo hanno espresso qual sentimento proprio di loro e delle generazioni uscite dai travagliosi e torbidi rivolgimenti, filosofici e politici e sociali, del settecento. Fra i moderni scrittori d'Italia come artista è il primo.

1 SAINTE-BEUVE, Portraits contemporains, IV, pag. 385. Vous connaissez Leopardi, disait-il [Manzoni] vers 1830 à un voyageur, avez-vous lu ses essais de prose? on n'a pas assez fait attention à ce petit volume; comme style, on n'a peut-être rien écrit de mieux dans la prose italienne de nos jours.

[DALLE] LETTERE.

A Pietro Giordani, a Milano.

Recanati, 30 aprile 1817.

A me parea che, quanto alle parole e alla lingua, fosse più difficile assai il conservare quella proprietà senza affettazione e con piena scioltezza e disinvoltura nella prosa che nel verso; perchè nella prosa l'affettazione e lo stento si vedono (dirò alla fiorentina) come un bufalo nella neve, e nella poesia non così facilmente: primo, perchè moltissime cose sono affettazioni e stiracchiature nella prosa e nella poesia no, e pochissime che nella prosa nol sono, lo sono in poesia; secondo, perchè anche quelle, che in poesia son o veramente affettazioni, dall' armonia e dal linguaggio poetico sono celate facilmente, tanto che appena si travedono. Io certo quando traduco versi, facilmente riesco (facendo anche quanto posso per conservare all' espressioni la forza che hanno nel testo) a dare alla traduzione un' aria d'originale e a velare lo studio; ma traducendo in prosa, per ottener questo, sudo infinitamente più, e alla fine probabilmente non l'ottengo. Però io avea conchiuso tra me che per tradur poesia vi vuole un' anima grande e poetica e mille e mille altre cose, ma per tradurre in prosa, un più lungo esercizio ed assai più lettura, e forse anche (che a me pare necessarissimo) qualche anno di dimora in paese dove si parli la buona lingua, qualche anno di dimora in Firenze.

Allo stesso, ivi.

Signore mio carissimo,

Recanati, 30 maggio 1817.

lo sapeva appuntino quanto ella mi dice dei non idioti fiorentini e toscani,1 e lo sapeva non solo per gli scritti loro,

Il Giordani, rispondendo il 15 maggio alla precedente lettera del giovinetto Leopardi, nel proposito della lingua parlata avea detto erroneamerte che chiunque in Toscana sa leggere non parla italiano, e questo rimane solo a quei più poveri e rozzi, che non sanno punto leggere; ma la conversazione di questi nulla potrebbe giovare a chi vuol farsi scrittore.

ma anco per altre cose. Facea conto però d' imparare dagli idioti, o più tosto di rendermi famigliare col mezzo loro quella infinità di modi volgari che spessissimo stanno tanto bene nelle scritture, e quella proprietà ed efficacia che la plebe per natura sua conserva tanto mirabilmente nelle parole, pensando a Platone che dice il volgo essere stato ad Alcibiade, e dover essere, maestro del buon favellare, e alla donnicciuola ateniese che alla parlata conobbe Teofrasto per forestiere, e al Varchi, che dice come anche al suo tempo per imparare la favella fiorentina bisognava tratto tratto rimescolarsi colla feccia del popolazzo di Firenze. Ma poichè ella non crede che gl' idioti fiorentini mi possano insegnar niente di buono, mi acquieto alla sua sentenza.1 E quanto all' accento, le dirò del mio Recanati cosa che ella dovrà credere a me, perchè della patria potrò, per tropp'odio, dir troppo male (e non so se questo pur possa), ma dir troppo bene, per troppo amore, non posso certo. Ella non può figurarsi quanto la pronunzia di questa città sia bella. È così piana e naturale e lontana da ogni ombra d'affettazione, che i Toscani mi pare, pel pochissimo che ho potuto osservare parlando con alcuni, che favellino molto più affettato, e i Romani senza paragone. Certo i pochi forestieri che si fermano qui riconoscono questa cosa e se ne meravigliano. E questa pronunzia che non tiene punto nè della leziosaggine toscana nè della superbia romana, è così propria di Recanati che basta uscir due passi del suo territorio per accorgersi di una notabile differenza, la quale in più luoghi pochissimo distanti, non che notabile è somma. Ma quello che mi pare più degno d'osservazione è che la nostra favella comune abbonda di frasi e motti e proverbi pretti toscani sì fattamente, che io mi maraviglio trovando negli scrittori una grandissima quantità di questi modi e idiotismi che ho imparati da fanciullo. E non mi fa meno stupore il sentire in bocca de' contadini e della plebe minuta parole che noi non usiamo nel favellare per fuggire l'affettazione, stimandole proprie dei soli scrittori, come mentovato, ingombro, recare, ragionare ed altre molte, ed alcune anche più singolari, di cui non mi sovviene. Questi modi e queste parole, caro signor mio, con singolare mio diletto le farò osservare se ella adempierà la bella speranza che mi ha data, e sarà questa una delle pochissime o niune cose

1 Non fu vero.

(mi perdoni questo barbarismo) che le potrò mostrare in Recanati. E potrebbe essere benissimo, perchè io non sono uscito mai del mio nido, che quello che io credo proprio di Recanati sia comune a tutta l'Italia o a molte sue parti, ed allora ella mi disingannerebbe. Con questa speranza, benchè lontana, la lascio, signor mio carissimo, e spero che non avrò bisogno di ricordarle che sono, ma con tutto il cuore, il suo attaccatissimo Giacomo Leopardi.

A Pietro Giordani, a Piacenza.

Recanati, 6 marzo 1820.

Mio carissimo, Dopo i 10 di decembre io ti ho scritto costa due lettere invano: della terza non so, perchè ai 15 di febbraio, quando mi scrivesti l'ultima volta, non ti poteva essere arrivata. Sto anch' io sospirando caldamente la bella primavera come l'unica speranza di medicina che rimanga allo sfinimento dell' animo mio; e poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro, un bel raggio di luna, e sentendo un' aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo. E in quel momento dando uno sguardo alla mia condizione passata, alla quale era certo di ritornare subito dopo, com'è seguíto, m' agghiacciai dallo spavento, non arrivando a comprendere come si possa tollerare la vita senza illusioni e affetti vivi, e senza immaginazione ed entusiasmo; delle quali cose un anno addietro si componeva tutto il mio tempo, e mi facevano così beato, non ostante i miei travagli. Ora sono stecchito e inaridito come una canna secca, e nessuna passione trova più l'entrata di questa povera anima, e la stessa potenza eterna e sovrana dell' amore è annullata a rispetto mio nell'età in cui mi trovo.3 In tanto io ti fo questi racconti che non farei a verun altro, in quanto mi rendo certo che non gli avrai per romanzeschi, sapendo com' io detesti

Vedi il canto Alla Primavera (pag. 84), e anche altri dove tornano questi concetti stessi.

Notabile per la conversione filosofica.

Nel canto XIII (La Vita Solitaria): Amore, amore, assai lungi volasti — Dalpetto mio, che fu sì caldo un giorno, Anzi rovente.

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