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Quegli occhi di falco,
E allor gli s'offerse
D'altare, di palco,
D'usura,, di Cristo
Un vortice, un misto
Di cose diverse.
Cosi del malato
Non bene svegliato,
Col falso e col vero
Combatte il pensiero,
Guizzando nel laccio

Di qualche sognaccio.

E già la vision si disciogliea,

Quando da un lato della Chiesa sente
Incominciare un canto, e gli parea.

Superbo nel concetto e impertinente.
Si volta, e vede in aulica livrea
Gente che incoccia maledettamente
D'esser di carne come tutti siamo,

E vorrebbe per babbo un altro Adamo.
Vedea sbiadito il nastro degli ucchielli
E la fusciacca doventata bieca;
Uniformi ritinte, e de' giojelli
Il bugiardo baglior che non acceca.
Else e crascià riconoscea tra quelli,
E spallette tenute in ipoteca,

E Marchesi mandati in precipizio;
E più visi di bue che di patrizio.

(Qui ci vuole un certo imbroglio —
Di sussiego e di miseria

E il frasario dell' orgoglio

Adattato alla materia.
Fatto mantice il polmone
Spiri vento di Blasone.
Ma di modi arcigni e tronfi

Non ho copia in casa mia,

145

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Nè un bisnonno che mi gonfi
Di fastosa idropisia,

V. 161-172. La vecchia nobiltà boriosa e fallita, che guarda in exgnesco il nobile nuovo. - Bicca. Stravolta e sgualeita. - Crascià dal francese crachat). Placca, distintivo dei cavalieri appartenenti agli ordini superiori. Spallette. Spalline militari, quelle che avevano anche i cavalieri di Santo Stefano.

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A impancarsi co' signori?

Si vedrà dunque un figuro,

Nato al fango e al letamajo,
Intorbare il sangue puro
Col suo sangue bottegajo?
E farà questo plebeo
Tanto insulto al Galateo?
Usurai crucesignati

Che si comprano di lei,
Tra i patrizi scavalcati
Passeranno in tiro a sei

A esalar l'anima ciuca
A sinistra del Granduca?
Rifiniti dal mestiere,

C'è chi paga i Ciambellani
Con un calcio nel sedere;
E rifà di pelacani,

Che il delitto insignorì,

Il vivajo dei Balì.

E di più, ridotto a zero

Il patrizio è condannato

A succhiarsi il vitupero

V. 188. Colpa ec. E colpa ec.

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V. 191. Un mercatino. Uomo di mercato, e più generalmente, Uomo di costumi villani e plebei.

V. 195. Dal banco. Sottintendi, della sua bottega di droghiere.

V. 203, 204. Usurai fatti cavalieri, che in conseguenza del titolo acquistato a suon di danari si fanno dare del lei.

V. 209-214. Il Sovrano paga (c'è chi paga) con un calcio nel sedere i vecchi nobili che consumarono la vita nel mestiere di ciambellano, e rifà il vivajo dei futuri Balì coi pelacani (propriamente Conciatori di pelli, qui, Vil genia e più specialmente, Usurai).

MESTICA.

II. 2a

33

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V. 217, 218. Nella solennità della vestizione il nuovo cavaliere era vestito dai cavalieri vecchi.

V. 224. Si tornò a pigione. È dell'uso popolare fiorentino invece del più corretto, Si ando a pigione.

V. 225, 226. L'anima dei nostri avi (i morti eroi del v. 221) cerchi il birbon che ora possiede, avendole comperate da noi, quelle abitazioni.

V. 233, 234. Allude al personaggio del Barbiere di Siviglia, che in una certa scena sbalordisce (resta di sasso), perchè i soldati riconoscendo il Conte d'Almaviva travestito da manescalco del reggimento, invece di arrestarlo, gli fanno onore.

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V. 249, 250. Camaldoli e Mercato (vecchio), due quartieri di Firenze abitati dal popolino; il secondo dei quali ora sta per esser demolito.

Vedea concorrere

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In una lega,
Portando l'alito
Della bottega;
Sbracciati, in zoccoli
E scalzi e sbrici,

E musi laidi

Di vecchi amici;
E Crezie e Catere,
E Bobi e Beco,
Su per le bettole
Cresciuti seco.
Questa combriccola
Strana di gente
Agglomerandosi

Confusamente,
Lasciate le idee,

Le frasi ampollose,

Con urla plebee

Rincara la dose,

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E lo striglia così nel suo vernacolo

Senza tanto rispetto al Tabernacolo:

Salute a Bécero,

Viva il Droghiere;

Bellino, in maschera

Di Cavaliere!

O come domine,

Se giorni sono
Vendevi zenzero
Per pepe bono,
Oggi ci reciti

Col togo addosso
Questa commedia

V. 256. Sbrici. Straccioni, Con gli abiti stracciati.

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V. 259, 260. Diminutivi popolareschi di Lucrezia, Caterina, Zanobi e Domenico.

V. 270. Rincara la dose. Sottintendi, Dei vituperi detti al droghiere dal vecchio nobilume.

V. 271. Nel suo vernacolo. E difatti nei versi posti in bocca a questi béceri si sente più vivo l'uso popolare fiorentino, nè vi mancano idiotismi e forme irregolari come domine (come mai), togo (toga), loja (sudiciume inveterato), ciacchero (uomo tristo e furbaccio), sbarazzino (giovinastro audace e rissoso), fécemo (facemmo), lustrissimo (illustrissimo), aresti (avresti), stare in aria (tener superbia), logiche (gli zerbinotti, e romanescamente, i paini), po' poi (alla fine), ec.

Del cencio rosso?
Ah, tra lo zucchero,
Col tuo pestello
Eri in carattere,
Eri più bello.
Or tra lo strascico
E l'albagia
Un chiappanuvoli
Par che tu sia.
Eh torna Bécero,
Torna Droghiere,
Leva la maschera
Di Cavaliere.
Se per il solito
Quando ragioni
Dici spropositi
Da can barboni,
Come discorrere
Potrai con gente
Che saprà leggere
Sicuramente?
Ah torna Bécero,
Torna Droghiere,
Leva la maschera
Di Cavaliere.
Se schifo ai nobili
Non fa la loja
Di certi ciaccheri

Scappati al Boja;

Se i Preti a crederti

Son tanto bovi

Con codest' anima
Che ti ritrovi;

Se per lo scandalo

Di questa festa
Non ti precipita
La chiesa in testa;
O in oggi ha credito

Lo sbarazzino,
O Santo Stefano
Tira al quattrino.
Ma noi che fécemo
Teco il mestiere,

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