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per ungerla, o in acqua per lavarla, o in fascia, che ella se lo stringesse al seno, o in perla da portare al collo, o in calzare, che almeno ella lo premesse col piede; similmente io vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia della loro vita.

DIALOGO DI TRISTANO E DI UN AMICO.1

[1834.]

Amico. Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro solito.

Tristano. Sì, al mio solito.

Amico. Malinconico, sconsolato, disperato: si vede che questa vita vi pare una gran brutta cosa.

Tristano. Che v'ho a dire? io aveva fitta in capo questa pazzia, che la vita umana fosse infelice.

Amico. Infelice si forse. Ma pure alla fine....

Tristano. No no, anzi felicissima. Ora ho cambiata opinione. Ma quando scrissi cotesto libro, io aveva quella pazzia in capo, come vi dico. E n'era tanto persuaso, che tutt'altro mi sarei aspettato, fuorchè sentirmi volgere in dubbio le osservazioni ch'io faceva in quel proposito, parendomi che la coscienza d'ogni lettore dovesse rendere prontissima testimonianza a ciascuna di esse. Solo immaginai che nascesse disputa dell' utilità o del danno di tali osservazioni, ma non mai della verità: anzi mi credetti che le mie voci lamentevoli, per essere i mali comuni, sarebbero ripetute in cuore da ognuno che le ascoltasse. E sentendo poi negarmi, non qualche proposizione particolare, ma il tutto, e dire che la vita non è infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto d' infermità, o d'altra miseria mia particolare, da prima rimasi attonito, sbalordito, immobile come un sasso, e per più giorni credetti di trovarmi in un

Questo Dialogo, scritto l'anno 1834, fu stampato la prima volta nell'edizione fiorentina delle Operette morali fatta l'anno stesso dal Piatti. In ordine di tempo è l'ultima delle prose dell'autore, che vi si è rappresentato sotto il nome di Tristano.

Cotesto libro. Il cotesto qui è a proposito se s'immagini che il libro in quel momento lo teneva in mano l'Amico, come si arguisce anche dal passo a pag. 64, dove l'amico stesso dice: Che s'ha egli a fare di questo libro? Il libro poi s'intende che sia quello delle Operette morali nell'edizione milanese del 1827; dopo la quale nel 1834, al tempo dell'immaginato dialogo, non s'era ancor fatta la seconda, citata nella nota precedente.

altro mondo; poi, tornato in me stesso, mi sdegnai un poco; poi risi, e dissi: Gli uomini sono in generale come i mariti. I mariti, se vogliono viver tranquilli, è necessario che credano le mogli fedeli, ciascuno la sua; e così fanno; anche quando la metà del mondo sa che il vero è tutt'altro. Chi vuole o dee vivere in un paese, conviene che lo creda uno dei migliori della terra abitabile; e lo crede tale. Gli uomini universalmente, volendo vivere, conviene che credano la vita bella e pregevole; e tale la credono; e si adirano contro chi pensa altrimenti. Perchè in sostanza il genere umano crede sempre, non il vero, ma quello che è, o pare che sia, più a proposito suo. Il genere umano, che ha creduto e crederà tante scempiataggini, non crederà mai nè di non saper nulla, nè di non essere nulla, nè di non aver nulla a sperare. Nessun filosofo che insegnasse l'una di queste tre cose, avrebbe fortuna nè farebbe setta, specialmente nel popolo: perchè, oltre che tutte tre sono poco a proposito di chi vuol vivere, le due prime offendono la superbia degli uomini, la terza, anzi ancora le altre due, vogliono coraggio e fortezza d'animo a essere credute. E gli uomini sono codardi, deboli, d'animo ignobile e angusto; docili sempre a sperar bene, perchè sempre dediti a variare le opinioni del bene secondo che la necessità governa la loro vita; prontissimi a render l'arme, come dice il Petrarca, alla loro fortuna,' prontissimi e risolutissimi a consolarsi di qualunque sventura, ad accettare qualunque compenso in cambio di ciò che loro è negato o di ciò che hanno perduto, ad accomodarsi con qualunque condizione a qualunque sorte più iniqua e più barbara, e quando siano privati d'ogni cosa desiderabile, vivere di credenze false, così gagliarde e ferme, come se fossero le più vere o le più fondate del mondo. Io per me, come l'Europa meridionale ride dei mariti innamorati delle mogli infedeli, così rido del genere umano innamorato della vita; e giudico assai poco virile il voler lasciarsi ingannare e deludere come sciocchi, ed oltre ai mali che soffrono, essere quasi lo scherno della natura e del destino. Parlo sempre degl' inganni non dell'immaginazione, ma dell' intelletto. Se questi miei sentimenti nascano da malattia, non so: so che, malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogn' inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la

Nella Canz. Solca dalla fontana di mia vita. [L.]

privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell' infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera. La quale se non è utile ad altro, procura agli uomini forti la fiera compiacenza di vedere strappato ogni manto alla coperta e misteriosa crudeltà del destino umano. Io diceva queste cose fra me, quasi come se quella filosofia dolorosa fosse d'invenzione mia; vedendola così rifiutata da tutti, come si rifiutano le cose nuove e non più sentite. Ma poi, ripensando, mi ricordai ch'ella era tanto nuova, quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono pieni pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l'estrema infelicità umana; e chi di loro dice che l'uomo è il più miserabile degli animali; chi dice che il meglio è non nascere, e per chi è nato, morire in cuna; altri, che uno che sia caro agli Dei, muore in giovanezza,1 ed altri altre cose infinite su questo andare. E anche mi ricordai che da quei tempi insino a ieri o all' altr' ieri, tutti i poeti e tutti i filosofi e gli scrittori grandi e piccoli, in un modo o in un altro, avevano ripetute o confermate le stesse dottrine. Sicchè tornai di nuovo a maravigliarmi: e così tra la maraviglia e lo sdegno e il riso passai molto tempo: finchè, studiando, più profondamente questa materia, conobbi che l'infelicità dell' uomo era uno degli errori inveterati dell' intelletto, e che la falsità di questa opinione, e la felicità della vita, era una delle grandi scoperte del secolo decimonono. Allora m'acquetai, e confesso ch'io aveva il torto a credere quello ch' io credeva.

Amico. E avete cambiata opinione?

Tristano. Sicuro. Volete voi ch' io contrasti alle verità scoperte dal secolo decimonono?

Amico. E credete voi tutto quello che crede il secolo? Tristano. Certamente. Oh che maraviglia?

Amico. Credete dunque alla perfettibilità indefinita dell'uomo?

Tristano. Senza dubbio.

E la sentenza di Menandro registrata dal Leopardi in fronte al canto Amore e Morte: "Ον οἱ θεοὶ φιλοῦσιν, ἀποθνήσκει νέος ; e ivi tradotta col verso Muor giovane colui ch' al cielo è caro, poco rispondente alla felice disposizione delle idee e delle parole nel testo, che qui nella traduzione in prosa è ben mantenuta.

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Questi cenni su la filosofia del pessimismo mostrano che il Leopardi ne conosceva le prime origini e il procedimento storico.

Amico. Credete che in fatti la specie umana vada ogni giorno migliorando?

Tristano. Si certo. È ben vero che alcune volte penso che gli antichi valevano, delle forze del corpo, ciascuno per quattro di noi. E il corpo è l'uomo ;1 perchè (lasciando tutto il resto) la magnanimità, il coraggio, le passioni, la potenza di fare, la potenza di godere, tutto ciò che fa nobile e viva la vita, dipende dal vigore del corpo, e senza quello non ha luogo. Uno che sia debole di corpo, non è uomo, ma bambino; anzi peggio; perchè la sua sorte è di stare a vedere gli altri che vivono, ed esso al più chiacchierare, ma la vita non è per lui. E però anticamente la debolezza del corpo fu ignominiosa, anche nei secoli più civili. Ma tra noi già da lunghissimo tempo l'educazione non si degna di pensare al corpo, cosa troppo bassa e abbietta: pensa allo spirito; e appunto volendo coltivare lo spirito, rovina il corpo senza avvedersi che rovinando questo, rovina a vicenda anche lo spirito. E dato che si potesse rimediare in ciò all'educazione, non si potrebbe mai senza mutare radicalmente lo stato moderno della società, trovare rimedio che valesse in ordine alle altre parti della vita privata e pubblica, che tutte, di proprietà loro, cospirarono anticamente a perfezionare o a conservare il corpo, e oggi cospirano a depravarlo. L'effetto è che a paragone degli antichi noi siamo poco più che bambini, e che gli antichi a confronto nostro si può dire più che mai che furono uomini. Parlo così degl' individui paragonati agl' individui, come delle masse (per usare questa leggiadrissima parola moderna) paragonate alle masse. Ed aggiungo che gli antichi furono incomparabilmente più virili di noi anche ne' sistemi di morale e di metafisica. A ogni modo io non mi lascio muovere da tali piccole obbiezioni, credo costantemente che la specie umana vada sempre acquistando.

Amico. Credete ancora, già s' intende, che il sapere, o, come si dice, i lumi, crescano continuamente.

Tristano. Certissimo. Sebbene vedo che quanto cresce la volontà d'imparare, tanto scema quella di studiare. Ed è cosa che fa maraviglia a contare il numero dei dotti, ma veri dotti, che vivevano contemporaneamente cencinquant'anni addietro, e anche più tardi, e vedere quanto fosse smi

1 Esplica qui giù la sentenza del noto verso di Giovenale (Sat. X, 356): Orandum est ut sit mens sana in corpore sano; ma più sotto esagera il biasimo contro i moderni.

suratamente maggiore di quello dell' età presente. Nè mi dicano che i dotti sono pochi perchè in generale le cognizioni non sono più accumulate in alcuni individui, ma divise fra molti; e che la copia di questi compensa la rarità di quelli. Le cognizioni non sono come le ricchezze, che si dividono e si adunano, e sempre fanno la stessa somma. Dove tutti sanno poco, e' si sa poco; perchè la scienza va dietro alla scienza, e non si sparpaglia. L'istruzione superficiale può essere, non propriamente divisa fra molti, ma comune a molti non dotti. Il resto del sapere non appartiene se non a chi sia dotto, e gran parte di quello a chi sia dottissimo. E, levati i casi fortuiti, solo chi sia dottissimo, e fornito esso individualmente di un immenso capitale di cognizioni, è atto ad accrescere solidamente e condurre innanzi il sapere umano. Ora, eccetto forse in Germania, donde la dottrina non è stata ancora potuta snidare, non vi par egli che il veder sorgere di questi uomini dottissimi divenga ogni giorno meno possibile? Io fo queste riflessioni così per discorrere, e per filosofare un poco, o forse sofisticare; non ch' io non sia persuaso di ciò che voi dite. Anzi quando anche vedessi il mondo tutto pieno d'ignoranti impostori da un lato, e d'ignoranti presuntuosi dall' altro, nondimeno crederei, come credo, che il sapere e i lumi crescano di continuo.

Amico. In conseguenza, credete che questo secolo sia superiore a tutti i passati.

Tristano. Sicuro. Così hanno creduto di sè tutti i secoli, anche i più barbari; e così crede il mio secolo, ed io con lui. Se poi mi dimandaste in che sia egli superiore agli altri secoli, se in ciò che appartiene al corpo o in ciò che appartiene allo spirito, mi rimetterei alle cose dette dianzi.

Amico. In somma, per ridurre il tutto in due parole, pensate voi circa la natura e i destini degli uomini e delle cose (poichè ora non parliamo di letteratura nè di politica) quello che ne pensano i giornali ?

Queste osservazioni su l'istruzione, come le precedenti su l'educazione fisica, contengono grandi verità opportune più ancora oggidì cho d'istruzione e di educazione si discorre tanto, e tanto si lavora a moderarla con leggi, regolamenti, programmi e circolari; sicchè spesso a mezzo novembre - Non giunge quel che tu d'ottobre fili.

Il mio secolo: cioè, Questo secolo. Che abbia voluto usar mio per la ragione stessa per cui il Manzoni disse più esplicitamente al Monti l'età che fu tua?

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