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Senza sonno io giacea sul di novello,
E i destrier che dovean farmi deserto,
Battean la zampa sotto al patrio ostello.
Ed io timido e cheto ed inesperto,

Vèr lo balcone al buio protendea
L'orecchio avido e l'occhio indarno aperto,

La voce ad ascoltar, se ne dovea

Di quelle labbra uscir, ch' ultima fosse;
La voce, ch'altro il cielo, ahi mi togliea.
Quante volte plebea voce percosse

Il dubitoso orecchio, e un gel mi prese,
E il core in forse a palpitar si mosse!

E poi che finalmente mi discese

La cara voce al core, e de' cavai
E delle rote il romorio s' intese;

Orbo rimaso allor, mi rannicchiai

Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi,
Strinsi il cor con la mano, e sospirai.

Poscia traendo i tremuli ginocchi

Stupilamente per la muta stanza,

Ch'altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi?
Amarissima allor la ricordanza

Locommisi nel petto, e mi serrava

Ad ogni voce il core, a ogni sembianza.

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delle brevi locuzioni, scade assai; ma è compenso esuberante la bellezza delle nove terzine seguenti a questa.

V. 40. L'edizione del Le Monnier 1845, invece di sonno, ha senno, ma per errore tipografico, che da qualcuno è stato preso per lezione vera!

V. 40-42. Questa poesia porta anch'essa molte tracce del verismo, se è lecito dir così, locale. Lasciamo la realtà dell' amore suddetto, che è irrepu gnabile; ma quel particolare dei cavalli, che attaccati alla carrozza, nella mattina della partenza della bellissima Pesarese da Recanati, scalpitavano nell'atrio del palazzo Leopardi, è anch'esso una pretta realtà. difatti, avendone io mosso dubbio al conte Carlo, fratello del poeta, allorchè lo interrogavo su questo amore, egli francamente mi rispose: Quel particolare è verissimo; la carrozza, con la quale era venuta qua e ne riparti Geltrude Cassi, apparteneva alla casa Lazzari, dove essa era maritata, e similmente i due cavalli. E questi non erano mica come i cavalli de' vetturini, che per lo più son carogne, ma pieni di fuoco e sbuffanti, onde niuna maraviglia se appena tirati fuori dalle stalle e attaccati alla carrozza Battean la zampa sotto al patrio ostello. Quello scalpitare poi si sentiva benissimo dalle camere dove Giacomo e io dormivamo (Il Verismo ec. citato a pag. 20).

V. 46. Il ne riferiscilo a voce.

V. 48. La voce: poichè il cielo mi toglieva altro; cioè il conforto di vederla. Ma anche qui l'espressione è dura, e, per giunta, poco chiara. V. 60. Quale altra passione potrà più produrre in me alcun effetto, dopo questa sì potente?

V. 63. Dopo sembianza, come prima dopo voce, sottintendi, Di donna.

E lunga doglia il sen mi ricercava,
Com'è quando a distesa Olimpo piove
Malinconicamente e i campi lava.
Ned io ti conoscea, garzon di nove

E nove Soli, in questo a pianger nato
Quando facevi, amor, le prime prove.
Quando in ispregio ogni piacer, nè grato
M'era degli astri il riso, o dell' aurora
Queta il silenzio, o il verdeggiar del prato.
Anche di gloria amor taceami allora
Nel petto, cui scaldar tanto solea,
Chè di beltade amor vi fea dimora.
Nè gli occhi ai noti studi io rivolgea,
E quelli m'apparian vani per cui
Vano ogni altro desir creduto avea.
Deh come mai da me sì vario fui,

E tanto amor mi tolse un altro amore?
Deh quanto, in verità, vani siam nui!
Solo il mio cor piaceami, e col mio core
In un perenne ragionar sepolto,
Alla guardia seder del mio dolore.

E l'occhio a terra chino o in sè raccolto,

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V. 65, 66. Mi pare anche più bello dell' oraziano: Non semper imbres

nubibus hispidos - Manant in agros (Od., II, 9).

V. 67-69. Nè ti conosceva io giovinetto di diciotto Soli anni, e difatti li aveva compíti nel precedente giugno di quell'anno 1816], nato a piangere in questo (sottintendi) Sole (in quest'anno diciannovesimo), quando [in cui] ec. In questo non può significare, come altri interpreta, Frattanto; ma veramente tutta la locuzione è forzata.

V. 69. Male l'ediz. fior. del 1845 ha Amor con la majuscola, che non è in alcuna delle edizioni precedenti. Vedi anche v. 3.

V. 70-72. Questo medesimo concetto è espresso nell' Ultimo Canto di Saffo:.... Già non arride - Spettacol molle ai disperati affetti. E più sotto: .... A me non ride - L'aprico margo, e dall'eterea porta - Il mattutino albór ; me non il canto - De'colorati augelli, e non de' faggi - Il murmure saluta ec. Ed anche nell'epistola a Carlo Pepoli, come stato dell'età più matura: Or quando al tutto irrigidito e freddo - Questo petto sarà ec.

V. 73-75. Con minore semplicità il Foscolo nel Jacopo Ortis (4 dicembre 1798), figurandosi già Innamorato, diceva: «Gloria! tu mi corri sempre dinanzi, e così mi lusinghi a un viaggio, a cui le mie piante non reggono più. Ma dal giorno che tu più non sei la mia sola e prima passione, il tuo risplendente fantasma comincia a spegnersi e a barcollare. ▾

V. 79. Ritrae, ma fiaccamente, il virgiliano Quantum mutatus ab illo (En., II, 274).

V. 80. E un altro amore, cioè l'amore per bellissima donna, mi tolse tanto amore, cioè l'amore per la gloria che pur era sì grande? - Ammette dunque che il più grande amor suo abituale era la gloria (pag. 9).

V. 82-84. Piaceami solo il mio cuore, e standomi sepolto col mio cuore in un ragionar perenne, piaceami sedere ec. Forzature nei pensieri e nelle parole.

Di riscontrarsi fuggitivo e vago

Nè in leggiadro soffria nè in turpe volto:
Chè la illibata, la candida imago

Turbare egli temea pinta nel seno,
Come all' aure si turba onda di lago.
E quel di non aver goduto appieno
Pentimento, che l'anima ci grava,

E il piacer che passò cangia in veleno,
Per li fuggiti dì mi stimolava

Tuttora il sen: chè la vergogna il duro
Suo morso in questo cor già non oprava.
Al cielo, a voi, gentili anime, io giuro
Che voglia non m'entrò bassa nel petto,
Ch'arsi di foco intaminato e puro.
Vive quel foco ancor, vive l'affetto,
Spira nel pensier mio la bella imago,
Da cui, se non celeste, altro diletto
Giammai non ebbi, e sol di lei m'appago.

All' Italia.

[Autunno 1318.]

O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l'erme
Torri degli avi nostri,

Ma la gloria non vedo,

Non vedo il lauro e il ferro ond' eran carchi

I nostri padri antichi. Or fatta inerme,

Nuda la fronte e nudo il petto mostri.

Oimè quante ferite,

Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio,

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V. 86. Fuggitivo, qui vuol dire, Mobile, Che sogguarda e fugge, come fanno gl'innamorati peritosi e verecondi, e come faceva Silvia (v. 4 a pag. 89). Nel Consalvo (v. 77, fuggitivo Consalvo) e nelle Ricordanze (v. 117), Prossimo a morire o a fuggire; nella Ginestra (v. 85), Fuggiasco. Sensi vari, da non confondersi insieme. - Vago, cioè Bramoso di veder la persona amata. Altrove il poeta usa vago per Leggiadro; e similmente vaghezza nel duplice senso.

-

V. 87. Turpe sta per Brutto, in contrapposto di leggiadro.

V. 91-99. Dice in sostanza: Mi pento di non aver goduto, ne' trascorsi giorni, quanto potero, della vista della mia donna, ma non già per la puntura di alcun rimorso; poichè il mio amore (v. 97-99) era incontaminato. Intaminato è duro latinismo, da Orazio: Intaminatis fulget hono ribus (Od., II, 2).

Formosissima donna! Io chiedo al cielo
E al mondo: Dite, dite;

Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
Che di catene ha carche ambe le braccia;
Si che sparte le chiome e senza velo
Siede in terra negletta e sconsolata,
Nascondendo la faccia

Tra le ginocchia, e piange.

Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
Le genti a vincer nata

E nella fausta sorte e nella ria.

Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
Mai non potrebbe il pianto
Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
Chè fosti donna, or sei povera ancella.
Chi di te parla o scrive,

Che, rimembrando il tuo passato vanto,
Non dica: Già fu grande, or non è quella?
Perchè, perchè? dov'è la forza antica,
Dove l'armi e il valore e la costanza?

Chi ti discinse il brando?

Chi ti tradi? qual arte o qual fatica

O qual tanta possanza

Valse a spogliarti il manto e l'auree bende?

Come cadesti o quando

Da tanta altezza in così basso loco?

Nessun pugna per te? non ti difende

Nessun de' tuoi? L'armi, qua l'armi: io solo

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V. 10. Formosissima donna. Tiene dal virgiliano Forma pulcherrima Dido (En., I, 496), e Rerum pulcherrima Roma (Georg., II, 554). In questa personificazione, espressa e protratta con sovrabbondanza d'immagini, esclamazioni ed interrogazioni, mi par di sentire imitata quella pur dell'Italia nel Canto Il Beneficio di Vincenzo Monti, che comincia Una donna di forme alte e divine, men bello del semplice e dignitoso Formosissima donna.

V. 18. Ricorda il verso di Dante (Purg, VI): Or ti fa lieta, chè tu hai ben onde.

V. 19, 20. Il concetto di questi due versi, finora non bene interpretati, è; che l'Italia ha prevalso sempre alle altre nazioni, cioè nell'età antica con la potenza e la gloria di Roma, e poi nel medio evo con la dottrina e col mental suo lume, secondo l'espressione del poeta nei Paralipomeni; dove per entro alle st. 27-29 del canto primo, che possono servire di comento a questi versi, è splendidamente esposto il concetto stesso (pagg. 117, 118).

V. 24. Donna. Signora; nel senso latino di domina, da cui proviene. V. 37-40. L'armi, qua l'armi ec. Si cita come imitato il virgiliano Arma, viri, ferte arma; vocat lux ultima vietos (En., II, 668); e si potrebbe

Combatterò, procomberò sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco

Agl' italici petti il sangue mio.

Dove sono i tuoi figli? odo suon d'armi

E di carri e di voci e di timballi:

In estranie contrade

Pugnano i tuoi figliuoli.

Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,

Un fluttuar di fanti e di cavalli,

E fumo e polve, e luccicar di spade

Come tra nebbia lampi.

Nè ti conforti? e i tremebondi lumi
Piegar non soffri al dubitoso evento?

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anche citare, e forse più a proposito, la terzina del Monti nel Beneficio, dove sono rappresentati varf atteggiamenti delle indignate ombre romane uscenti dagli avelli, al vedere l'Italia calpestata dagli stranieri: Qual, ritto in piè spiccandosi, mettea - Tutta fuori dell' arca la persona, - E gridando vendetta armi chiedea. Pieni di vita e artistici supremamente, questi versi del giovane recanatese ben possono accompagnarsi coi pariniani: Me non nato a percuotere - Le dure illustri porte- Nudo accorrà, ma libero - Il regno della morte; magnificando gli uni l' indipendenza della patria, gli altri l'indipendenza dell' animo; e splendono insieme fra le più belle gemme della lirica italiana. Il procomberò esprime graficamente il cadere del forte in battaglia con la faccia rivolta al nemico; insomma è il Frangar, non flectar; ed erroneamente perciò nelle interpretazioni sostituirono ad esso, come sinonimo esplicativo, soccomberò, che è proprio di chi cede e si fiacca. E così in latino, donde i due verbi son derivati: per es., del valoroso Corebo, che con la spada in mano si era gettato medium periturus in agmen, Virgilio dice: Penelei dextra.... procumbit (En., II, 425, 426): ma a Didone, piegatasi per debolezza d'animo a nuovo amore, fa dire: Huic uni forsan potui succumbere culpæ (En., IV, 19). Di questo significato e uso diverso abbiamo un esempio lampante nel nostro poeta verso la fine della Ginestra, v. 300-309.

V. 41, ec. Qui giù allude alle guerre napoleoniche, dove combatterono, anche oltremonti, insieme con gli eserciti francesi i soldati italiani, e più specialmente alla spedizione di Russia, su la quale assai meglio nel canto Sopra il Monumento di Dante: Morian per le rutene - Piagge gl'itali prodi ec. Nei versi 41 e 42 si sente l'imitazione dei più vigorosi ed evidenti versi oraziani: Jam nunc minaci murmure cornuum - Perstringis aures: jam litui strepunt: Jam fulgor armorum fugaces - Terret equos equitumque vultus. (Od., II, 1).

V. 45. Attendi. Tendi l'orecchio, Sta' a sentire.

V. 45-48. Questa descrizione dell'esercito marciante in battaglia fatta con si rapidi tocchi e a forma di visione, e specialmente il luccicar di spade come tra nebbia lampi, ci ricorda la consimile descrizione che fa Ómero con larga e pacata spiegatura d'imagini e di pensieri; e i due luoghi possono servire di esempio a mostrare una delle differenze fra lo stile epico e il lirico: Siccome quando la vorace vampa Su la montagna una gran selva incende - Sorge splendor che lungi si propaga; Così al marciar delle falangi achive - Mandan l'armi un chiaror, che tutto intorno - Di tremuli baleni il ciclo infiamma (Пiade, II, 595-600, traduzione del Monti).

V. 46. A somiglianza di questo verso corrono i due settenari del Manzoni nel Cinque Maggio: E il lampo dei manipoli - E l'onda dei cavalli.

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