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di maggio del 1830 la città natale, che non doveva più rivederlo, poneva dimora pochi giorni dopo a Firenze, dove con quel peculio potè tirare avanti per oltre a due anni. Fin però dal novembre del 1830, pensando a provvedersi per l'avvenire, avea fatto formale consegna di tutti i suoi scritti filologici al dotto ellenista svizzero Luigi De Sinner, professore di lingua greca a Parigi, venuto allora in Firenze; il quale gli diede a sperare che avrebbe pubblicato que' suoi lavori in Germania, e glie ne prometteva danari e un gran nome. > Ma, non essendo seguíti gli effetti, il Leopardi, indótto da necessità estrema, si piegò a chiedere al padre nel 1832 un assegnamento mensile di dodici scudi, e dopo averne dovuto scrivere alla madre, che era la padrona vera, l'ottenne. Quella piccola, e pure in rispetto ai tempi non del tutto spregevole provvisione, cominciata con l'ottobre, gli fu sempre continuata puntualmente fino alla morte; nè gli mancarono da parte del padre anche sussidi straordinarî, l' ultimo de' quali, di trentacinque scudi, fu riscosso quattro giorni prima della morte di Giacomo da Antonio Ranieri, che soleva sempre, in nome dell'amico, ritirar quelle somme. Se non che il Ranieri nel suo libro Sette anni di sodalizio, mentre sì facilmente sdrucciola a ricordar cose anche frivole e poco decenti, non solo per questa delle cambiali sottoscritte e riscosse, ma per tante che avrebbero grande importanza letteraria, mostra memoria troppo labile o noncuranza. Il prepostero libro tuttavia non varrà a cancellare le sue antiche benemerenze per l'amicizia ch'egli, dallo scorcio del 1830, mantenne sempre fida e operosa al Leopardi, il quale dipoi nelle sue Opere approvate nominava, fra tanti amici viventi, lui solo, chiamandolo il compagno della sua vita.1

Si trattenne egli a Firenze quasi due anni e mezzo, con un soggiorno intermedio in Roma dall'ottobre del 1831 all' aprile seguente, in compagnia del novello amico. E poichè i suoi malori si facevano sempre più gravi, finalmente risolse di trasferirsi col Ranieri a Napoli, sperando colà ristoro all' affranta salute. E la nuova dimora, dove egli giunse il 2 ottobre del 1833, se non a restituirgli la sanità, valse a sollevarlo alquanto e a protrargli la preziosa esistenza, così pel mitissimo clima, come per le cure affettuose dell'amico e della sorella di questo, chiamata anch'essa Paolina. La sua ordinaria abitazione era

1 Pensieri, IV.

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al poggio suburbano di Capodimonte, e i mesi di maggio e di ottobre soleva passarli in un'amena villetta alle falde del Vesuvio; ma nel 1836, preso da spavento al primo annunzio del colèra, come dianzi lo Schopenhauer à Berlino, e il Platen a Siracusa, volle ridursi anche nell'agosto al solito villino, e vi stette fino ai primi mesi dell'anno seguente.

V. Nel tempo della sua dimora a Napoli, fra le angosce ineffabili de' malori e un metodo strano di vita, durò sempre operoso ne' cari studî, e scrisse nuove liriche, alcune altre poche prose ed il poema eroicomico. Ma veramente non scriveva, per la calamità sua non potendo, bensì dettava sempre all' affettuoso e paziente amico; e gli dettò le ultime stanze del poema il giorno avanti alla morte. Attendeva pure alla revisione e correzione delle Opere composte prima, fossero inedite o pubblicate, e nel 1835 cominciò a Napoli un'edizione di tutte le approvate da lui; ma il governo borbonico, appena si fu accorto del contenuto, vietò il compimento di quella edizione, e la parte già stampata volle dispoticamente . L'anno dopo, una trattativa per la stampa Soppressa. di quelle Opere stesse col tipografo Baudry di Parigi fu mandata a vuoto da Niccolò Tommasèo, allora esule dall' Italia, uomo d'insigni meriti letterarî, ma intollerante delle opinioni ch' egli non professava, e talvolta, come in quella congiuntura, maligno; donde contro lui le giuste ire del Leopardi e, susseguentemente, di Pietro Giordani. Fattostà che quel grande e infelicissimo non potè veder, prima di morire, la stampa delle sue Opere, che tutta avea preparata. Difatti, dopo essersi restituito, a mezzo il febbrajo del 1837, dalla villa in città, infierendo sempre più il male, che apparve essere idropisia, il 14 giugno, quando finalmente erasi lasciato indurre a ripigliar di nuovo il più mite clima della campagna, verso le cinque pomeridiane improvvisamente svenne e morì, chiedendo, come il Goethe, mentre gli si ottenebrava la vista, più luce. L'amico Ranieri, salvato il cadavere a stento dal cimitero comune, dove la dura legge della stagione condannava i morti, per colèra o no, tuttiquanti, gli diede sepoltura nel paesello di Fuorigrotta a lato alla porta della piccola chiesa di

1 Ne furono stampati due volumi (dovevano essere quattro). Ecco il frontespizio del primo: « Canti-di-Giacomo Leopardi. - Edizione corretta, accresciuta, -e sola approvata dall'autore. Napoli, presso Saverio Starita, Strada Quercia, n. 14. -- 1835. »

San Vitale, dove un' epigrafe di Pietro Giordani in una modesta lapide ne fa ricordo:

AL CONTE GIACOMO LEOPARDI RECANATESE
FILOLOGO AMMIRATO FUORI D'ITALIA

SCRITTORE DI FILOSOFIA E DI POESIE ALTISSIMO

DA PARAGONARE SOLAMENTE COI GRECI
CHE FINÌ DI XXXIX ANNI LA VITA

PER CONTINUE MALATTIE MISERISSIMA
FECE ANTONIO RANIERI

PER VII ANNI FINO ALL' ESTREMA ORA CONGIUNTO

ALL'AMICO ADORATO MDCCCXXXVII.

VI. Fa (lo diremo con le parole di Antonio Ranieri) di statura mediocre, chinata ed esile, di colore bianco che volgeva al pallido, di testa grossa, di fronte quadra e larga, d'occhi cilestri e languidi, di naso profilato, di lineamenti delicatissimi, di pronunziazione modesta e alquanto fioca, e d' un sorriso ineffabile e quasi celeste. Suoi grandi amori erano la donna, la patria, la gloria; ma l'amor della gloria, fondata su l'eccellenza dell'ingegno, del sapere e dell'arte, anche più degli altri invitto e perenne. E di ciò si hanno nella sua vita e nelle sue opere letterarie moltissimi documenti. Nella prima dimora che fece a Roma, scrivendo al fratello Carlo dei letterati di colà, pettegoli, invidiosi, gran vantatori di sè, gran lodatori di persone e scritture miserabili, conclude: Tutto questo m'avvilisce in modo, che, s'io non avessi il rifugio della posterità, e la certezza che col tempo tutto prende il suo giusto luogo (rifugio illusorio, ma unico e necessarissimo al vero letterato), manderei la letteratura al diavolo mille volte. Pensiero tutto conforme a quello che poi significava in fine del ragionamento Il Parini ovvero Della Gloria: ‹ Gli scrittori grandi.... hanno per destino di condurre una vita simile. alla morte, e vivere, se pur l'ottengono, dopo sepolti. > Con le quali parole alludeva certo a sè stesso; e veramente fu profeta. Ma in niun luogo ha espressa così vivamente quella sua profonda immutabile passione, come nella lettera con la quale si licenziava da suo padre, allorchè nel luglio del 1819 prese la risoluzione di fuggire: Voglio piuttosto essere infelice che piccolo. E fu infelice, ma grande. Le gravose fatiche negli studî, se avevano tanto contribuito a deformare la sua bella e gentile persona, gli concessero però la bellezza morale e quella immortalità, alla quale si ardentemente aspirava. La vita di Giacomo Leopardi non rifulge per

azioni insigni nella società. Egli stesso una volta scriveva a suo padre che era monotona e del tutto ordinaria; e qual essa fosse veramente, voleva egli stesso mostrarlo al mondo mediante la storia di un'anima, Romanzo che avrebbe poche avventure estrinseche, e queste sarebbero delle più ordinarie; ma racconterebbe le vicende interne di un animo nato nobile e tenero, dal tempo delle sue prime ricordanze fino alla morte. La sua vita perciò non avrebbe importanza, se non fosse legata con le opere sue letterarie; chè in quelle (compresovi, già s'intende, anche l' Epistolario) egli è rappresentato tutto per modo, da potersi oggimai vedere come attraverso ad un vetro.

VII. Prima di farsi scrittore il Leopardi, ancor giovanissimo e quasi fanciullo, mercè una singolare attitudine del suo immenso ingegno, e un'improba applicazione che gli costò la salute, divenne filologo. Nel 1813 aveva già cominciato lo studio del greco da sè, e pochi mesi dopo si volse anche all' ebraico; ma la sua scienza filologica, che, fatta ragione dei tempi, degli scarsi mezzi ch'egli aveva, e della sua età si giovanile, può dirsi maravigliosa, si atteneva alla lingua greca ed alla latina. Nè con ciò vuolsi disconoscere il suo valore filologico nella lingua italiana, acquistato posteriormente, come fanno fede le Annotazioni alle Canzoni, l'Interpretazione delle Rime del Petrarca e le tante schede consegnate dipoi a Giuseppe Manuzzi, che se ne valse per la compilazione del suo Vocabolario; ma in quelle altre due lingue, e nella prima soprattutto, fu comparativamente maggiore. Applicandosi principalmente all' esame critico e alle illustrazioni di scrittori greci della decadenza, in ispecie poi dei retori e dei santi padri (scelta forse non. abbastanza felice), il giovinetto compose la più parte di tali scritti prima del 1817 e pochi altri dopo, fino al 1822; ma anche fattosi prosatore e poeta li ebbe a cuore, e li venne perfezionando. Se avesse potuto pubblicar quei tanti e svariati lavori quando li scrisse, nelle condizioni in cui allora trovavasi la filologia, avrebbe guadagnato con essi ben maggiore celebrità; e se tutti li avesse veduti Giorgio Niebuhr, che nel 1823 lo conobbe a Roma, e annunziò alla Germania il giovinetto come un cospicuo ornamento d'Italia, ben altri elogi ne avrebbe fatti. I suoi manoscritti di materia filologica, consegnati

Lettera a Pietro Colletta, Maggio 1828.

da lui nel 1830 al De Sinner, furono acquistati nel 1858 dal Governo toscano per la Biblioteca palatina di Firenze, e la miglior parte di essi, come degli altri che si conservano nella casa paterna, è già pubblicata.' Con pari ardore aveva curato fin d'allora in sì fatti studi anche l'arte; e nel 1816 compose in greco all'antica tre poesie liriche (un inno a Nettuno e due odi), che l'anno appresso divulgate con la stampa come adespote, da dotti tedeschi furono credute poesie antiche. Donde, non per questi speciali esercizî, ma pel fatto in generale, si può trarre un ammonimento opportuno oggidi a quanti negli studî classici fomentano un funesto dissidio tra la filologia e l'arte, che s' integrano insieme.

Nella scuola, nell'esempio paterno e nei libri, con le abituali letture della fanciullezza, aveva informato il gusto allo scrivere italiano barocco e francesizzante in voga a que' tempi, come largamente dimostrano i suoi lavori più giovanili di traduzione ed originali, in verso e più ancora in prosa. Il principio della sua conversione letteraria," nella quale non ebbe altra guida che sè stesso, si può rapportare allo scorcio del 1815; allorchè egli cominciò a riflettere seriamente su la letteratura, e, per ciò che riguarda la lingua, prese a purificarsi con lo studio dei trecentisti; nel quale andò poi tanto innanzi, che seppe anche simulare la loro elocuzione e forma nel Martirio de Santi Padri del Monte Sinai, ingannando, nel 1826, perfino Antonio Cesari. Ma, senza tenersi come lui grettamente a quelli, studiò anche gli scrittori posteriori di ogni secolo, e, dissenziente il Giordani, si volse al vivente linguaggio del popolo, specialmente del marchigiano e del fiorentino; e questa cura poi ebbe sempre più viva. I suoi progressi fin dai primi tempi della conversione furono tanto rapidi, che dei lavori in prosa e in verso, che veniva facendo, e li per lì pubblicava per belli, il giovinetto poco dopo si trovava scontento; e finì da ultimo col

1

Queste pubblicazioni degli studi filologici di Giacomo Leopardi stanno nel terzo volume delle sue Opere (Firenze, Le Monnier, 1845) a cura di Pietro Pellegrini e Pietro Giordani, nei due volumi delle Opere inedite (Halle, Max Niemeyer, 1878-80) a cura di Giuseppe Cugnoni, e in quello dei Nuovi documenti intorno alla vita ec. (Successori Le Monnier, 1882) a cura di Giuseppe Piergili.

* Queste cose qui accennate appena ed altre sono esposte partitamente nel mio scritto La conversione letteraria di Giacomo Leopardi e la sa Cantica giovanile (Nuova Antologia, novembre 1880); della quale conversione, fatto rilevantissimo della sua vita letteraria, prima di quel tempo in tanti opuscoli e volumi di critica leopardiana nessuno aveva ragionato.

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