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Chi rimembrar vi può senza sospiri,

O primo entrar di giovanezza, o giorni
Vezzosi, inenarrabili, allor quando
Al rapito mortal primieramente
Sorridon le donzelle; a gara intorno
Ogni cosa sorride; invidia tace,

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Mostra che per signor l'accolga e chiami?
Fugaci giorni! a somigliar d'un lampo
Son dileguati. E qual mortale ignaro

Di sventura esser può, se a lui già scorsa
Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,

Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
O Nerina e di te forse non odo

Questi luoghi parlar? caduta forse
Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
Chè qui sola di te la ricordanza

Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede

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V. 129. Inchinando. Non è usato intransitivamente in vece di Inchinandosi, ma attivamente, sottinteso lui accusativo; come, ma più chiaramente, il Petrarca: E con preghiere oneste - L'adoro e 'nchino come cosa santa (Son. Amor con la man destra).

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V. 136. Nerina, cioè Maria Belardinelli, nata nel 1800, morta al 3 novembre 1827, poco prima dell'ultimo ritorno del poeta a Recanati (pag. 14), ond' egli esclama veracemente: Dove sei gita, Chè qui sola di te la ricordanza - Trovo, dolcezza mia? E rammenta anche la finestra donde essa già era solita di parlare a lui, e che si vedeva, un po'obbliquamente, fra ponente e tramontana dalle finestre stesse della camera da letto di Giacomo: Quella finestra, - Ond' eri usata favellarmi, ed onde - Mesto riluce delle stelle il raggio, E deserta. Poco più sotto poi rammenta il suo recarsi a feste e a radunanze. V'è forse chi crede questa una mera invenzioue fantastica del poeta? È invece la pura verità. A Recanati nel carnevale del 1829 era aperto il teatro con opera in musica, il quale poi per la morte del papa Leone XII fu chiuso alquanti giorni prima che terminasse la stazione. Quel direttore di orchestra, che io giovinetto conobbi già vecchio a Montecosaro, mi raccontava che Giacomo v'interveniva sempre, vestito semplicissimamente, con un soprabito di pelone sotto un mantello a baveretti; che più volte esso direttore era entrato con lui in discorso su quella musica (si rappresentava il Barbiere di Siviglia), e ammirando lo aveva sentito notare nella medesima le bellezze più fine, che all'orecchio delle persone imperite dell'arte non sogliono rivelarsi. Non è dunque che un ricordo di tale frequenza ai pubblici divertimenti d'allora ciò ch'ezli Scrive, parlando sempre a Nerina: Se a feste anco tulvolta, - Se a radunanze io movo, infra me stesso - Dico: 0 Nerina, a radunanze, a feste - Tu non ti acconci più, tu più non movi. (Il Verismo ec. citato a pag. 20.)

MESTICA -II.

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Questa terra natal: quella finestra,
Ond'eri usata favellarmi, ed onde
Mesto riluce delle stelle il raggio,
È deserta. Ove sei, che più non odo
La tua voce sonar, siccome un giorno,
Quando soleva ogni lontano accento

Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
Il passar per la terra oggi è sortito,
E l'abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti: e come un sogno
Fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte
La gioia ti splendea, splendea negli occhi
Quel confidente immaginar, quel lume
Di gioventù, quando spegneali il fato,
E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
Se a radunanze io movo, infra me stesso
Dico: 0 Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti recando alle fanciulle,
Dico: Nerina mia, per te non torna
Primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita

Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
Dico: Nerina or più non gode; i campi,
L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
Sospiro mio: passasti: e fia compagna
D'ogni mio vago immaginar, di tutti
I miei teneri sensi, i tristi e cari
Moti del cor, la rimembranza acerba.

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V. 141. Anche il Petrarca si commoveva guardando i luoghi dove aveva veduta Laura, ma non ancor morta, e fra gli altri per primo Quella fenestra ove l'un Sol [Laura] si vede - Quando a lui piace, e l'altro [il vero sole] in su la nona ec., che è il principio di uno de' suoi Sonetti; ma qui il poeta moderno è più profondamente affettuoso e patetico.

Canto notturno di un pastore errante dell'Asia.*

[1826-1830.]

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,

Silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai,

Contemplando i deserti; indi ti posi.

Ancor non sei tu paga

Di rïandare i sempiterni calli ?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

Di mirar queste valli?

Somiglia alla tua vita

La vita del pastore.

Sorge in sul primo albore,

Move la greggia oltre pel campo, e vede

Greggi, fontane ed erbe;

Poi stanco si riposa in su la sera:

Altro mai non ispera.

Dimmi, o luna: a che vale

Al pastor la sua vita,

La vostra vita a voi? dimmi: ove tende

Questo vagar mio breve,

Il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,

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*Plusieurs d'entre eux (parla di una delle nazioni erranti dell' Asia) passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins. Il Barone di Meyendorff. Voyage d'Orenbourg à Boukhara, fait en 1820, appresso it giornale des Savans 1826, septembre p. 518. Dalla surriferita nota, che è del Leopardi, si arguisce che l'ispirazione e la mesta intonazione di questo canto venne a lui nell' occasione della lettura del detto giornale; e poichè il canto fu stampato la prima volta nell' edizione fiorentina compiuta nei primi mesi del 1931, ho creduto perciò di attribuirgli la data 1826-1830. Questa situazione del resto, del pastore incantato a riguardar le stelle in una notte serena, ma con sentimento opposto, e più naturale di quello presentatoci dal Leopardi, fu delineata epicamente da Omero in forma di similitudine così: Siccome quando in ciel tersa è la luna, - E treE senza mole e vezzose a lei dintorno - Sfavillano le stelle, allor che l'aria vento, ed allo sguardo tutte Si scuoprono le torri e le foreste - E le cime Rivede'monti; immenso e puro - L'etra si spande, gli astri tutto il volto lano ridenti, e in cor ne gode - L'attonito pastor; ec. (Iliade, VIII, 762-770; traduzione del Monti)

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V. 21 e segg. Va liberamente dietro al Petrarca nel Son. Movesi ' E dalla vecchierel canuto e bianco - Del dolce loco ov' ha sua età fornita, famigliuola sbigottita, - Che vede il caro padre venir manco: - Indi traendo poi

Mezzo vestito e scalzo,

Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,

Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,

Al vento, alla tempesta, e quando avvampa

L'ora, e quando poi gela,

Corre via, corre, anela,

Varca torrenti e stagni,

Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro,

Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
Colà dove la via

E dove il tanto affaticar fu vòlto:
Abisso orrido, immenso,

Ov' ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale

È la vita mortale.

Nasce l'uomo a fatica,

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Ed è rischio di morte il nascimento.

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Prova pena e tormento

Per prima cosa; e in sul principio stesso

La madre e il genitore

Il prende a consolar dell' esser, nato.

Poi che crescendo viene,

L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole

Studiasi fargli core,

E consolarlo dell' umano stato:

Altro ufficio più grato

Non si fa da' parenti alla lor prole.

Ma perchè dare al sole,

Perchè reggere in vita

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l'antico fianco - Per l'estreme giornate di sua vita, - Quanto più può col buon voler s'aita - Rotto dagli anni e dal cammino stanco. E anche nella Canz. Nella stagion ec.: Veggendosi in lontan paese sola - La stanca vecchierella pellegrina - Raddoppia i passi, e più e più s'affretta; - E poi così soletta - Al fin di sua giornata Talora è consolata - D'alcun breve riposo, ov'ella obblia - La uoja e il mal della passata via.

V. 49. Umano stato. Sottintendi, Perchè infelice.

V. 51. Nelle due prime edizioni di questo canto è stampato da, nella napoletana del 1835 da', poi nella fiorentina del 1845 di nuovo da, e nell'esemplare della napoletana, il quale servi alla stampa del 1845, è cancellato a penna l'apostrofo. Io preferisco la lezione della napoletana, fatta sotto gli occhi del poeta. Parenti. Latinismo comune ai nostri poeti, Genitori, come anche risulta dal v. 43.

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Chi poi di quella consolar convenga?

Se la vita è sventura,

Perchè da noi si dura?

Intatta luna, tale
È lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,

E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,

Che si pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,

Il patir nostre, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,

E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi

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Il perchè delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,

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Del tacito, infinito andar del tempo.

Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,

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A chi giovi l'ardore, e che procacci

Il verno co' suoi ghiacci.

Mille cose sai tu, mille discopri,

Che son celate al semplice pastore.

Spesso quand' io ti miro

Star così muta in sul deserto piano,

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Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia

Seguirmi viaggiando a mano a mano;

E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:

A che tante facelle?

Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,

E dell'innumerabile famiglia;

Poi di tanto adoprar, di tanti moti

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V. 72. Cfr. Orazio, Od., III, 30: Innumerabilis - Annorum series et fuga temporum.

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