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Poi fra più tempo un alto parlamento
In casa (che) fu di Pompeio ordinato,
Però che Caesar avea intendimento
Di gire a oste, il cavalier pregiato,
Ed e' sedia in un bel fornimento

E l'altra gente gli stava da llato.
Come la gente lo vidon venire

Levarsi, e Caesar rimase a sedere (1).

Si confrontino i Fatti a pag. 290: ivi però non è detto che Cesare avesse intenzione di andare ad oste, e senza dubbio è un'altra aggiunta del versificatore, il quale poi la svolge ancora nelle due ottave seguenti.

I due tratti che precedono, mancano affatto al Libro imperiale; altri invece, che pur vi si trovano, furono nondimeno piuttosto attinti dai Fatti; così quello che narra dei dubbi dei congiurati sul luogo ove dovessero uccidere Cesare: Alcun dicea: facciasi in (2) Campidoglio,

Quando passerà sopra al grande ponte.

L'autro dicea facciasi quando viene al tempio... (3)

Allor si levò Cassio malandrino

A dare il suo consiglio falso e reo,

Col falso Bruto di Cesar cugino,

E disson: Nella sala (che fu) di Pompe(i)o
Conquider noi possiamo il paladino... (4)

I Fatti hanno, pag. 294: « L'uno diceva: al ponte del Campo Marzio.... Là potremo noi bene cacciarlo e traboccarlo del ponte... L'altro diceva nel fare del sacrifizio, quando elli andasse o quando tornasse dal sacrifizio... Non di meno, quasi che uno grido: Lo giorno del rimutare del senato, come si fa ogni anno. A questo s'accordaro... e

(1) F. 141 r.

(2) Il cod. il.

(3) Il cod. in tutta questa ottava è anche più scorretto che non sia ordinariamente: vi manca perfino un verso.

(4) F. 142 re v.

doveva ciò farsi in la corte di Pompeio... ». Per il Libro imperiale, che pure ha senza dubbio fornito anche qui qualche elemento al rifacitore, i congiurati vogliono uccidere Cesare o a mensa, o mentre andava al tempio (tratto del quale pare serbi traccia il terzo verso), o al sacrifizio, o di notte mentre dormiva, corrompendo le sue guardie. Infine si leva Cassio e con un discorso persuade a scegliere il luogo sotterra, ove si tenevano i consigli, che l'autore chiama sempre Campo di Marzo.

Mi contenterò di un ultimo riscontro coi Fatti, dove sono conservate anche le loro parole. Spurina o, secondo la stampa, Soprona predice a Cesare la sua prossima fine: << Cesare sacrificava un giorno; Soprona, uno prete che sapeva d'augurî, li disse sopra quello sacrifizio, che si guardasse da pericolo, ché elli non passarebbe mica li quindici giorni di marzo ».

E il poemetto:

E po' un prete il qual era indovino
A Caesar[e] parlò significando:

I't' inprometto e giuro, signor fino,...
Che del (bel) mese di marzo ch'averete
Quindici di di lui non passerete. (1)

Facciamo ora seguire alcuni dei più evidenti riscontri col Libro imperiale. Intanto il titolo di malandrino, che vedemmo in alcuni versi riferiti più sopra affibbiato a Cassio, non è certo farina del sacco del povero poeta, ma di quello del Bonsignori: « Uno cittadino novello, rilevato da Cesare, il cui nome era Cassio, il quale inprima soleva essere malandrino e rubatore di strade », scrive questi in un passo, che noi abbiamo riportato già altrove (2).

Nella narrazione del sogno avuto da Cesare, la notte prima della sua morte, alcuni particolari sono aggiunti dal Bonsignori e non si trovano nè in Svetonio nè nel romanzo,

(1) F. 143 e 144 r.

(2) Pag 407.

sopratutto la voce che quegli ode per aria: « domane a morte sarà chi non si guarda » (1). I versi rispondono a puntino:

Ed e' senti per l'aere gridare:

Domane a morte alcun si fie fedito;

Però si guardi chi s'à da guardare (2).

Del modo in cui la morte di Cesare è nel Libro imperiale descritta, demmo nel capitolo precedente (3) minuta notizia; si confrontino ora le ottave che seguono:

Avanti va lo sventurato Sire,

Perdendo il senno suo tutt'in un punto.
Fu nel consiglio e cominciò a dire;
Un lo sgridò: Alla morte se' giunto!
Fedillo d'uno stile (4) allo ver dire,
D'un colpo pensò 'l sire aver di punto.
Ma Cesar lasciò 'l dir vegendo questo
E contro a llui si volse ardito e presto.
Vegendo questi (altri) sesanta la guerra,
Corsogli adosso con argoglio molto,
E chi di qua e chi di là l'afferra,
Stracciandoli i panni indosso e 'l volto.
Ben si sforzavan di metterlo in terra,

Ma e' con uno stil c'avie lor tolto

Fa gran difesa da que' che gli danno
Pur colli stil, [perché] (5) altro non ànno.
El falso Bruto veggendoli allora

Lo stormo sopra Caesar cominciato,
Per tutto questo non si tenne ancora
Che non prendesse uno stile apu[n]tato;
E po[i] s'alza (dinanzi) sanz'altra dimora,
Colla guarnacca trattasi da llato:

Giunse più presto che l'uccel che vola,

Di quello stile gli diè per la gola.

(1) Anche questo tratto fu già riferito, pag. 409.

(2) F. 144 r.

(3) Pagg. 410-11.

(4) Il cod. Saie.

(5) Il cod. e.

Poi giunse Cassio con un altro stile,
Lungo apuntato e fedillo nel petto.

Costor conquisono il baron gentile... (1)

Io mi limiterò a far risaltare la perfetta convenienza del verso « Un lo sgridò: 'Alla morte se' giunto!» con le parole dell' Imperiale « si levò uno e disse: Tu se' alla morte giunto!», che nei Fatti non esistono, e lo stretto accordo dei due rifacitori nel far ultimo feritore di Cesare Cassio, invece di Bruto.

Un'ultima citazione trarremo dalla descrizione, lunghissima nell' Imperiale, molto abbreviata nel poemetto, dei funerali. In quello l'imperatrice, vestita a bruno, fa uno << smisurato pianto », e i suoi lamenti cominciano così: « O alto Signore, dove si riposa la tua infinita potenza? O come ti vego morto stare? O sonno mio delle colonne, come m'è in propia forma il vero adivenuto!» (2). Queste ultime parole si ritrovano quasi letteralmente nel poemetto:

Piangea la donna sua fra l'altre donne,

Vestita a seta bruna, scapigliata,

Dicendo: Sogno mio delle colonne,

M'è 'ntervenuto, lassa sventurata! (3)

(1) F. 145 rr.

(2) F. 28 r, cap. 32 del secondo libro.

(3) F. 146 r.

CAPITOLO III.

MATERIA CLASSICA E MATERIA FRANCESE.

§ 1. I FATTI DI CESARE NELLA FIORITA D'ARMANNINO.

La Fiorita d'Armannino Giudice ci offre un contributo assai notevole di racconti, non si sa da qual parte venuti, e di racconti la cui origine è invece manifesta, ma che furono alterati più che non si sarebbe indotti a credere a priori. Ma notevole è che le due redazioni di essa, che già in altro nostro lavoro (1) abbiamo segnalato, prendono qui, anche più che nel resto dell'opera, un curioso atteggiamento l' una in faccia dell'altra: quella del cod. Laurenz. LXXXIX 50 (L) è più estesa e più completa; ma una quantità di particolari, che in essa mancano, si trovano in quella del Laurenz. Gadd. rel. 95 (G), la quale poi modifica i racconti, aggiunge e sopprime in un modo, del quale è difficile rendersi pienamente ragione.

Esponiamo il racconto d' Armannino, servendoci di L (2) ed accennando via via le variazioni che G ci presenta. Comincia la storia di Cesare col ventinovesimo conto:

<< In questo tempo del quale io ho detto, erano in Roma due gentili casati; l'una Julii e l'altra Memii per nome si chiamavano. Gli Julii scesono di quello Julio che fu el primo consolo di Roma, poi che gli re furono cassati; e questo Julio, ch'io dico, discese della gesta di Enea... Gli Memii discesono di quello Menesteo el quale venne con Enea...

« De' Julii in questo tempo era uno giovane di molto grande valore, el quale per sua casata Julio si chiamava;

(1) I rifacimenti e le traduzioni ituliane dell' Eneide di Virgilio etc., in questi stessi Studj, II, pp. 124 segg.

(2) Sui motivi che inducono a preferire la redazione che esso rappresenta, a quella del cod. Gadd, rel. 95, vedi in seguito.

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