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fonti classiche, furono in G avvicinati meglio all'originale latino. Di questi uno fu da noi indicato in altro nostro lavoro (1): la descrizione della Fama, che in L è con molta sconvenienza posta in bocca di Didone morente, in G viene rimessa al suo posto, e vi sono anche tradotte con sufficente esattezza le parole dell'innamorata regina alla sorella Anna, colle quali comincia il quarto libro dell'Eneide. Ora che un rifacitore, tenendosi innanzi Virgilio, correggesse ciò che in un'opera anteriore trovava di non sufficientemente fedele, si può capire; ma che avvenisse il contrario, e che la disposizione, non solo tratta fedelmente dal poema latino, ma inoltre logica e bella dei fatti, venisse turbata in modo così inetto e senza nessuna ragione, noi non sapremmo concedere, se non dopo prove evidenti, che ci pare manchino affatto (2).

Se dunque la redazione G, come noi crediamo, è posteriore alla redazione L, il problema ch'essa presenta non è certo dei più facili e chiari. Essa è generalmente più breve, abbiamo detto; eppure qua e là si mostra invece più ampia e più completa, con particolari che ora possiamo dire donde son tratti, ora no (3). Ma quale strano caso è questo d'un rifacitore medievale che possiede tutti i testi dell'autore originario, e li adopera continuamente quasi a correggerne l'opera, e si può anche dire nel medesimo modo e col medesimo

(1) I rifacimenti e le traduzioni italiane dell'Eneide di Virgilio prima del rinascimento, in questi stessi Studi, II: vedi le pp. 108, 110 e 126.

(2) Si noti che anche L contiene passi assai più vicini alle fonti classiche che non i corrispondenti di G; del che si veda la nota della pagina seguente. Essi però non sono in G trasposti o guastati, ma, sopratutto per motivo di brevità, sostituiti da altri inventati.

(3) Aggiungiamo un nuovo esempio a quelli già indicati, la fine cioè dell' episodio dei fratelli marsigliesi: G racconta con maggior ampiezza la morte del padre loro, f. 172 b: Il padre di costoro, il quale questo vedeva stando in sulla nave, correndo sali di nave in nave a quella dove i figliuoli ancora vivi si difendeano. Questi si volta intorno con sua spada: quanti ne coglie, tanti ne mette a morte. Vechio ed antico e stanco era e più durare non poteva. Tra quella gente su in sul corpo ad Argo suo figliuolo cade, il quale già morto giaceva, tenendo con mano la mano del suo fratello. Cosi morio (il cod. morto) il padre con due figliuoli, volendo per piatà aiutare l'uno l'altro. Abbiamo già notato che il nome Argo è soltanto in G.

metodo? Di autori latini egli possiede, come Armannino, Virgilio, Sallustio, Lucano; di autori medievali, la fonte di cui quegli si servì per l'episodio di Enea e di Lavinia, qualunque ella fosse, e, se noi potessimo ammettere che il giudice bolognese non lavorasse mai di fantasia, quelle che egli adoperò per le parti non classiche, e delle Storie romane e della congiura di Catilina e dei Fatti di Cesare. Noi però abbiamo creduto di dover concludere che Armannino alla sua fantasia ricorresse assai di sovente: ora come mai un rifacitore medievale italiano si sarebbe incontrato con lui anche in questa sua piuttosto singolare caratteristica, e si sarebbe permesso di alterare i suoi racconti senza uno scopo ben chiaro, con aggiunte e modificazioni proprie, e, ciò che è più notevole, appunto e solo in quelle parti che erano dovute alla sua invenzione ?

Questi fatti ci conducono a giudicare la redazione G in modo diverso da quello che avevamo fatto nel lavoro più sopra citato. A noi pare che in essa deva riconoscersi la mano di Armannino medesimo, il quale avrebbe corretto il proprio lavoro, togliendone certa parte, che forse gli pareva meno necessaria (1), correggendolo e modificandolo qua e là, secondo l'impressione del momento, spesso infine riducendolo ad una maggiore conformità cogli autori latini, e talvolta stranieri, da lui seguiti. Lo stile stesso ci pare che parli in favore della nostra ipotesi, giacché tanto nella redazione più ampia quanto nella più breve ricorrono, anche nelle parti in cui l'una si stacca dall'altra, i medesimi periodetti rotti, incisivi, quasi a sbalzi, che sono caratteristici di Armannino, insieme con certe forme ed espressioni da lui predilette, le quali difficilmente avrebbero potuto essere imitate da un rifacitore (2).

(1) Certo non tutte le abbreviazioni di G risaliranno ad Armannino, ma alcune apparterranno ad infedeli copisti.

(2) Vogliamo osservare che questa nostra conclusione finale non sarebbe senz'altro abbattuta, anche se si riuscisse a dimostrare che L è posteriore a G. Infatti a noi pare soprattutto notevole nelle due redazioni la comunanza delle fonti: ora anche L, come in una nota della pagina precedente osservavamo, ha dei passi, provenienti

§ 2. LA FARSAGLIA IN OTTAVA RIMA.

Intorno ai fatti di Cesare esiste anche un intero poema in ottava rima, noto a tutti i bibliografi, i quali registrano di esso tre edizioni: la prima fatta a Milano nel 1492, la

da autori latini, che mancano a G. Si veda quest'orazione di Aderbale nel Senato romano, la quale fa parte del racconto della guerra giugurtina: «Io sono certo, o Padri, che per meriti di servigi ch'io fatti v'abbia, non sono degno da voi servigio avere, però che sono giovane di senno e di persona. Ma so che mio padre e quella gente onde io nato sono, furono vostri servidori e sempre ubbidienti al popolo di Roma. E quando morì Mitipsa mio padre, egli comandò a me e a quello mio fratello, che Jugurta a mala morte uccise, che sempre ci mantenessimo in amore di voi, e che sempre fussimo vostri servidori e amatori del vostro buono stato e onore. E questa cittade, la quale è sempre stata di giustizia madre, parmi che per me qui sta fallita. Colui el quale è suto padre di iniquitade, povero era, di vile condizione. Il mio fratello Jemsal iniquamente uccise, e me à cacciato fuori del reame, el quale per voi tenevo.... ». È al f. 186 re; essa deriva evidentemente da quella che ad Aderbale fa tenere Sallustio, cap. XIV della Giugurtina. Invece G, f. 161 d e 162 a : « ... tral Senato spose sua querela molto piatosamente a chi lo intende, ricordandosi delle grandi aversitadi che ebbe il padre per li singnori romani ed il grande soperchio il quale avea fatto Giugurta sì di lui (il cod: fatto di lui si Giugurta di lui) come di suo fratello. Pecato ne parea a coloro che la intendevano... > Quanto poi allo stile, che dicemmo identico nelle due redazioni, e alle frasi comuni, sarebbero soprattutto da confrontare i passi che contengono varianti d'espressione ma non di fatto le espressioni, tanto in L come in G, restano pur sempre schiettamente armanuiniane. Così nelle Storie Tebane, L, f. 61r: « La sua gente [d'Anfiarao] valentemente prontarono (sic), e lui con gran fatica rimissono a cavallo. Amfirao si mise tra' nimici: molto gli danneggia, uccide e ferisce. Di tanta virtù mena e suoi colpi, che non è chi aspettare gli voglia. Da l'altra parte Iseo rompe e spezza e taglia ciò che truova: in poca d'ora ha ciascuno di loro messo a mal partito l'uno la gente dell'altro». S'azzuffano insieme : « Ciascuno quivi sveglia sua virtù e bene monstrano loro prodezza. Di forti colpi si fanno risentire; bene sembrano mortali nemici; maravigliar fanno chi gli vede di tanta vigoria ». E G, f. 58 de 59 a: « A la riscossa trasse la sua gente; con gran fatica l'ànno a cavallo messo. Poi tra li nimici si misse a ferire. Isseo l'ardito molto li magangnava; roupe e ferisce; non è chi aspettare voglia li suoi gran colpi, tanto sono forti. Chi uno ne riceve, più no ne può sen. tire. Da l'altro lato Anfiraco ronpe e spezza ciò che truova: in poca d'ora li à sì malmenati che il canpo votano. Isseo predetto rimane con poca conpangnia. Questi due sono a le mani, cioè Anfiraco e Isseo, e di forti colpi si dànno l'uno a l'altro: bene dimostra ciascuno la sua forza in cotal bisongnio >. Di questi tratti se ne contano moltissimi. Tralascio poi indizî minori, benché assai significativi, come frasi caratteristiche che L ha in un passo e G in un altro, una o due pagine dopo; qualche volta, cosa più curiosa, con questa complicazione, che L avrà qui la frase che G aveva invece adoperato prima. Una metatesi di tal genere si potrebbe comprendere in un rifacitore?

seconda a Roma nel 1493 (1), l'ultima a Venezia nel 1495. Il titolo è nelle prime due il seguente: « Incipit liber Lucani Cordubensis poete clarissimi, editus in vulgari sermone, metrico tamen, per R. patrem et dominum dominum L. Cardinalem de Montichiello dignissimum » (2). Chi si fosse questo cardinale L. di Montichiello fu cercato da parecchi, ma invano; nè io fui più fortunato degli altri: rimando adunque chi voglia saperne di più, alla breve storia che della quistione fa il Banchi nella sua Introduzione ai Fatti di Cesare (3), ed inoltre ai cenni del Rajna, che ne toccò nel suo articolo sul cosidetto Cantare dei cantari (4).

Oltre alle edizioni accennate, si conosce del nostro poema un codice torinese, il quale manca però d'ogni indicazione che valga ad illuminarci sul conto dell'autore; diciotto ottave poi, che farebbero parte del nono libro, se ne trovano nel codice Magliab. Palch. I 93, del quale toccammo, trattando della redazione S dei Fatti di Cesare (5). Il primo dei due manoscritti è datato: esso fu scritto in Roma nel 1484 (6); il secondo invece, per il quale bisogna conten

(1) Veramente essa porta la data del 10 gennaio 1492, ma questa corrisponde appunto, nel nostro modo di contare, all'anno 1493. Vedi il GRASSE, Trésor, IV, 275. (2) Questo incipit trovasi nel secondo foglio, essendo il primo occupato dagli argomenti dei primi 9 libri di Lucano. Nell'explicit il nome dell'A. è identico: « explicit liber Lucani Cordubensis poete clarissimi, translatus per R. in Cristo patrem et dominum dominum L. de Montichiello cardinalem dignissimum....... ».

(3) Pagg. XLVII sgg. Egli propone di identificare il poeta col suo compaesano e probabilmente contemporaneo Domenico da Monticchiello, dottore in leggi e rimatore volgare, che dopo il 1355, convertito da Giovanni Colombini, fu de' suoi seguaci. (Vedi G. MAZZONI, Rime di M. Domenico da Monticchiello [per nozze Casini-De Simone], Roma, 1877, e cfr. la Rivista d. letterat. ital., V, 104 sgg.). Certo la proposta non si può convalidare con nessun argomento diretto, se non fosse l'identità della patria, la probabile contemporaneità de' due autori e la conoscenza che del latino pare avesse anche il nostro; nondimeno essa è da tenere in qualche conto, se si pensa che il nome del poeta poté essere frainteso dal primo stampatore, il quale forse interpretò a modo suo le iniziali, che del nome e della professione di lui dava il manoscritto che possedeva. Dalla prima edizione poi deriva senza dubbio la seconda, di Roma, e probabilmente o dall'una o dall'altra proverrà pure quella di Venezia.

(4) Zeitschr. f. roman. Phil., II, pp. 248 sgg.

(5) Pag. 324 e nota.

(6) Alle indicazioni che diede intorno ad esso il BANCHI, op. cit., pp. LI e LII, possiamo aggiungerne altre, mercé la cortesia del nostro amico D. Egidio Gorra.

tarsi dei criterî paleografici, si può attribuire alla seconda metà del sec. XIV e quindi riporta assai indietro l'età del nostro poema. Il Rajna anzi, dietro informazioni del prof. Paoli e del prof. Vitelli, credette il codice della prima metà del secolo stesso, e fu quindi condotto a congetturare che il poema fosse anteriore all'anno 1341, nel quale, secondo la tradizione letteraria, il Boccaccio avrebbe inventato l'ottava. La tradizione ha senza dubbio torto, ma noi non crediamo che contro di essa possa fornire un valido argomento il codice Magliabechiano (1), giacché, con tutto il rispetto che professiamo ai due illustri paleografi, non ci pare che esso in nessun modo possa farsi risalire fino alla prima metà del trecento. C'è bensì, non si può negare, in fondo del Lucano la data « Adie V di luglio 1340 in fireze », ma il carattere di essa non solo è diverso da quello del codice, ma ha tutta l'aria d'essere contraffatto, cosicché tale data riesce troppo sospetta (2).

Esso porta la segnatura IV, VI, 2, è in-4.° piccolo, cartaceo, di fogli 123, numerati da mano posteriore, più uno di guardia in principio ed uno in fine. Sul recto di quello sta scritto: « Lucano che tratta delle battaglie che | feceno Cexare et pompeo ». E più sotto, di mano diversa: « Questo libro fu dato a Claudio Iobred, avvocato in Corte di Parlamento di Ligione in Montluel di Brissa, l'anno 1606, alli 7 di ottobre, il qual libro fu levato dalla Libraria d' Urbino ». E dei Duchi d'Urbino si trova infatti lo stemma in fondo al recto del primo foglio. I canti non sono numerati, ma cominciano ciascuno con lettera grande, colorata: essi sono nove. La scrittura è chiara e regolare; ogni pagina contiene 4 ottave. Il pocma finisce col f. 123 : nel 123 v leggesi un sonetto intorno a chi non restituisce i libri, e dopo di esso altre ciancie sullo stesso argomento; finalmente l'explicit: « Questo libro ciamato Lucano che trata de le bataie che fece ciesaro e pompeo sie de mi francisco da viludono da MLO [ Milano] Lo quale ho fato fave a mano da uno fiorentino in Roma in lano 1484 ».

(1) Dell'osservazione del Rajna si giovò, per dimostrare che l'ottava era anteriore all'anno 1341, VINCENZO CRESCINI, Contributo agli studi sul Boccaccio etc., Torino, 1887, pp. 216-17 in nota.

(2) Non sono però da tralasciare alcune osservazioni. Il codice consta di tre parti distinte, la prima che non può essere anteriore al sec. XV, la seconda che sarà forse della fine del XIV, l'ultima, la quale sola c'interessa e che comprende il Lucano e, nel f. 108, il frammento del nostro poema. Questo frammento (che fu interrotto a metà della ottava diciannovesima a bella posta dal trascrittore, lasciando bianco circa un terzo della colonna b del verso) pare della stessa mano del romanzo, quantunque il carattere sia più grosso. La carta 108 e quella che segue, 109, formano un foglio solo: ora sulla carta 109 si trovano degli appunti domestici, dei quali

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