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È vero che il Filelfo asseri che Dante aveva cominciato la Commedia in latino l'anno 1285 ovvero l'anno 1286; ma a me pare più ragionevole di avvicinare l'epoca dell' ideata allegoria piuttosto al 1289, epoca della morte di Folco Portinari, padre di Beatrice, chè non al 1286, epoca probabile della partenza da Firenze di quella gentildonna. Molte cose si sono frapposte, come vedemmo, tra quella partenza e l'epoca in cui fu impresa la nuova e più nobile materia, o, se vuolsi meglio, in cui fu scritta la sopraddetta Canzone; mentre, secondo il racconto della V. N., la morte di Folco sarebbe seguita non molto appresso all' epoca della Canzone. Imperciocchè, appresso che quella Canzone fu alquanto divulgata (§. 20), Dante dietro l'invito di un amico (§. 21) disse il bel sonetto „Amor e cor gentil sono una cosa", il quale fecegli venir volontà di dire in lode di Beatrice quell' altro bellissimo sonetto: „Negli occhi porta la mia donna Amore": e appresso ciò non molti dì passati (§. 22) moriva il padre di Beatrice. La morte di Folco essendo avvenuta il dì 31 Dicembre 1289, come consta dall' iscrizione sua sepolcrale 1), convien dire che questa Canzone abbia preceduto di poco il Dicembre del 1289.

Fissata quest' epoca e questa seconda fase della Musa di Dante, che si farà più manifesta per le cose che siamo per aggiugnere, credo di poter sorpassare le vicende notate nei successivi paragrafi dal 23 al 28, e le belle poesie ch' esse gl' inspirarono, per arrestarmi al 29° ed al 30°, nei quali ci è annunciata la morte di Beatrice, e ne è precisata l'epoca nel modo seguente:

,,Secondo l'usanza d'Italia (§. 30), l'anima sua nobilissima si partì nella prima ora del nono giorno del mese; e secondo l'usanza di Siria, ella si partì nel nono mese dell' anno; perchè il primo mese è ivi Tismin, il quale a noi è Ottobre. E secondo l'usanza nostra, ella si partì in quell' anno della nostra Indizione, cioè degli anni Domini, il cui perfetto numero nove volte era compiuto in quel centinajo, nel quale in questo mondo ella fu posta: ed ella fu de' cristiani del terzodecimo centinajo". Dal che ne risulta, che Beatrice morì nella prima ora del giorno nono del Giugno 1290: poichè, se con quelli di Siria si comincii l'anno con Ottobre, il nono mese dell'anno è Giugno: e il numero perfetto, che secondo la scienza mistica dei numeri è il dieci 2), sta nove volte esattamente nel novanta.

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Negli accennati paragrafi (29, 30) dobbiamo osservare, oltre che l'epoca della morte di Beatrice, altri punti non meno interes-` santi. Mentre Dante per più ragioni trova non essere del presente proposito di trattare in questo libro della morte di Beatrice, da lui tanto amata, trova pure al proposito convenirsi dire le seguenti cose:

,,Tuttavia, dic' egli, perchè molte volte il numero del nove ha preso luogo tra le parole dinanzi, onde pare che sia non senza ragione, e nella sua partita cotale numero pare che avesse molto luogo, conviensi dire quindi alcuna cosa, acciocchè pare al proposito convenirsi. Onde prima dirò com' ebbe luogo nella sua partita, e poi ne assegnerò alcuna ragione, perchè questo numero fu a lei cotanto amico". Continua quindi colle parole superiormente riportate che ne precisano l'epoca della morte, ed a quelle aggiugne: ,,Perchè questo numero le fosse tanto amico, questa potrebb' essere una ragione; conciossiacosachè, secondo Tolomeo, e secondo la cristiana verità, nove siano li Cieli che si muovono, e secondo comune opinione astrologica li detti Cieli adoperino quaggiù secondo la loro abitudine insieme: questo numero fu amico di lei per dare ad intendere che nella sua generazione tutti e nove li mobili Cieli perfettissimamente s' aveano insieme. Questa è una ragione di ciò: ma più sottilmente pensando, e secondo la infallibile verità, questo numero fu ella medesima: per similitudine dico, e ciò intendo così: Lo numero del tre è la radice del nove, perocchè senz'altro numero per se medesimo moltiplicato fa nove, siccome vedemo manifestamente che tre fia tre fa nove. Dunque se il tre è fattore per se medesimo del nove, e lo Fattore dei miracoli per se medesimo è Tre, cioè il Padre, il Figliuolo e Spirito Santo, li quali sono Tre ed Uno, questa donna fu accompagnata dal numero del nove a dare ad intendere ch' ella era un nove, cioè un miracolo, la cui radice è solamente la mirabile Trinitade. Forse ancora per più sottil persona si vedrebbe in ciò più sottil ragione, ma questa è quella ch' io ne veggio, e che più mi piace". §. 30.

Premetterò intanto che da questi detti apertamente risulta, che l'Autore, allorchè ciò scriveva, conosceva già Tolomeo; conosceva tenersi dai teologi, quasi come un dogma, nove essere i Cieli mobili; conosceva essere opinione comune tra gli astrologi la simultanea et combinata influenza di tutti i Cieli sopra la Terra (dottrina che ha tanta e sì bella parte nella Divina Commedia); conosceva i mistici significati dei numeri, che sin dai tempi anteriori a S. Agostino continuavano ancora a trattenere gli studiosi della Sacra Scrittura o

Teologia, che allora significava lo stesso: dottrina anche questa tutt' altro che estranea alla Divina Commedia, come può ritrarsi e dalla terza rima adottata per tutto il poema, e dalle tre cantiche, e dai trentatre canti di ciascuna, che formano insieme novantanove, con uno d'introduzione, premesso alla prima cantica, a farne cento: numero che pareggia gli anni d'un secolo intero, a significare il grande secolo, che ha da percorrere in terra l' Umanità. Ond' è che può ben dirsi che Dante, allorchè scriveva queste cose, sapesse qualche cosa più che un po' di latino, che che ne dicano alcuni de' suoi ammiratori. Ma di ciò più tardi.

Quello che in questo passo più c'interessa di notare si è, che a Dante qui parve al proposito convenirsi dimostrare che Beatrice è un nove, un miracolo, la cui radice è solamente la mirabile Trinitade.

Se prendiamo quell' argomentazione alla lettera e la riferiamo a Beatrice Portinari, potremmo essere mossi anche a riso. Ma potremmo dire altrettanto, se la prendiamo allegoricamente? No di certo. Se prendiamo quell' argomentazione in senso allegorico e la riferiamo alla Sacra Scrittura, di cui Beatrice è il simbolo, vi troviamo tutt' altro che strano il concetto che la Divina Triade sia il Fattore per sè della scienza riposta nel libro divinamente ispirato, la Sacra Scrittura, e che quella scienza sia un miracolo. Ma, poichè, per ragione dei simili, ciò che conviene al simigliato, conviene pure al simigliante, diremo che ciò, che può dirsi della Sacra Scrittura, potrà dirsi pure di Beatrice di lei simbolo: e che Dante poteva quindi, ritenere non solo di aver diritto di così ragionare, ma di più di piacer molto ai lettori del suo tempo, i quali sono da lui invitati a fare degli altri ragionamenti simili.

Che poi Dante abbia quivi parlato allegoricamente, parmi averne egli tolto ogni dubbio dicendone che, Beatrice è questo numero per similitudine. Dal che possiamo dedurre che, se Dante ritenne che qui cadeva il proposito di ciò ragionare, egli all' epoca di sopra notata aveva realmente fatto di Beatrice il simbolo della Scienza Divina, e voleva che il suo intendimento fosse saputo, quand' anche non da molti.

La morte di Beatrice gli fece scrivere ai capi della città un' Epistola che cominciava colle parole di Geremia: Quomodo sedet sola civitas plena populo! Questo principio non potrebbe bastare a farci supporre che l' Epistola fosse allegorica? Non la riporta, e ciò,

perchè latina; mentre ed egli e l'amico, a cui dedicava la V. N., volevano che il libro fosse scritto solamente in volgare! Ne riporta

però una bella Canzone per morte della sua donna, non che il Sonetto e la Canzone di due stanze sullo stesso tema, che scrisse pregato dal fratello di Beatrice. E quest' è la materia dei paragrafi dal 31o al 34°.

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Dettoci nel paragrafo trentacinquesimo che il giorno, in cui si compiva l'anno che Beatrice era trapassata, e però quand' egli aveva compiuti li vensei anni e da un anno era già entrato nello stadio della gioventude, egli n' aveva fatto, quasi per annovale, il Sonetto che ivi riporta; nel susseguente fa noto come appresso a quel Sonetto gli è apparsa una donna gentile, giovane e bella ed in atto molto a lui pietosa. E continuando questo racconto fino al quarantesimo, ne dà l' abbozzo di una vera storia amorosa in tutte le sue parti, principio, mezzo e fine. Vi è detto il primo scontro dei due personaggi; vi sono accennati i mezzi che uno adopera per insinuarsi nel cuore dell' altro e qui, notiamolo pure, non è un uomo il seduttore, ma una donna gentile, bella, giovane ed anche savia! 1) e la renitenza dell' altro a darsi a quell' amore, benchè nobilissimo, per la ragione ch' egli aveva sacrato il suo alle poesie ch' egli fa in lode di lei; e la lotta che quindi s'accende nel cuore di costui e che finisce colla completa vittoria della donna sopra l'uomo. Finalmente, toccato ch' ebbe delle gioie provate nel nuovo amore, ci racconta il rinascere del rimorso e del pentimento, mossi in lui non d' altro, se non dal risvegliarsi della memoria dell' amore abbandonato; e chiude col solenne trionfo di questo vecchio amore sopra quel recente.

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Questo periodo del nuovo amore, ch'è abbozzato nei cinque Sonetti trascritti ai paragrafi citati, sarà dunque la terza fase della Musa di Dante, quella cioè in cui fu sua dea la donna gentile.

Che la risoluzione di scrivere la V. N., fatta, come abbiamo detto, dopo la Mirabile Visione a cui è accennato nell' ultimo dei paragrafi di essa, sia posteriore a questo episodio amoroso nella vita di Dante, credo che nessuno potrà dubitarne; poichè a questo fatto segue nella V. N. il racconto di altri fatti posteriori a questo, ma anteriori a quella Visione.

Nel racconto di questo episodio non troviamo alcuna espressione per cui ne sia dato di precisare l'epoca delle diverse fasi di questo amore per la donna gentile. Ma non essendo stato messo in dubbio. da nessuno (per ciò ch' io mi sappia) che questa donna gentile della

1) V. N. §. 36. Conv. t. II. c. 2.

V. N. non sia identica alla donna gentile del Convito, benchè altri la voglia una persona storica e reale, altri con Dante allegorica e ideale; possiamo ricorrere alle date che ne offre il Convito e ciò con tanto maggiore sicurezza, chè ne siamo confortati dalle parole di Dante stesso, il quale apertamente disse: „,che non intendeva di derogare in alcuna parte alla Vita Nuova, ma anzi maggiormente giovare questa per quello" 1). E fece bene, chè senza gli schiarimenti del Convito, avremmo dovuto dire, ch' egli nel racconto di quell' episodio amoroso della V. N. abbia farneticato.

Al capo secondo del trattato secondo del Convito l' Autore, rapportandosi al detto nel paragrafo 36.o della V. N., scrive così: Cominciando adunque, dico che la stella di Venere due fiate era rivolta in quello suo cerchio che la fa parere serotina e mattutina, secondo i due diversi tempi, appresso lo trapassamento di quella Beatrice beata, che vive in cielo con gli Angioli e in terra colla mia anima, quando quella donna gentile, di cui feci menzione nella fine della Vita Nuova, apparve primamente accompagnata d'Amore agli occhi miei, e prese alcuno luogo nella mia mente". Più chiaro di così pei dotti del tempo non poteva parlare. Quella apparizione prima avvenne dunque dopo la morte di Beatrice, allorchè Venere aveva compiuto il suo giro due volte.,,E siccome, continua al medesimo luogo, è ragionato per me nello allegato libello, più da sua gentilezza, che da mia elezione venne, ch' io ad essere suo consentissi... Ma perocchè non subitamente nasce amore e fassi grande e viene perfetto, ma vuole alcuno tempo e nutrimento di pensieri, massimamente là dove sono pensieri contrari che lo impediscono, convenne prima che questo nuovo amore fosse perfetto, molta battaglia intra 'l pensiero del suo nutrimento e quello che gli era contrario, il quale per quella gloriosa Beatrice tenea ancora la rocca della mia mente". Dalle quali parole non possiamo ritrarre se non, che dalla prima apparizione al vero innamoramento vi sia passato alcun tempò. Quanto, ce lo dirà al capo decimoterzo, ove parla del fatto stesso, ma fuori di allegoria.

Poichè quivi n' ebbe detto come, per trovar consolazione al suo dolore per la morte di Beatrice, egli s' era messo a leggere da prima il libro de Consolatione Philosophiae di Boezio, poscia quello de Amicitia di Tullio, la sentenza dei quali eragli riuscita alquanto difficile per ciò che digiuno ancora d'ogni studio scientifico, non ne aveva altro ajuto se non quello del suo naturale ingegno e della cognizione soltanto della Grammatica (cioè del latino), continua:

1) Conv. t. I. c. 1.

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