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PER LA PIETÀ CHE IL VOSTRO GABBO ANCIDE. << Una volta piacque la var. del cod. Antaldi nell' ediz. di Pesaro: Per la pietà che il vostro gabbo AVVEDE; la quale dava anche modo di toglier via lo antiquato vide per vede del v. 9. Anche il Fraticelli leggeva così nella sua 1.a ediz., e interpretava: « Per l'angoscia che s' accorge del vostro gabbo o scherno». Era contrario alla esposizione di Dante. Meglio spiegò il TORRI: « Il sentimento di compassione rimane estinto (per metafora ucciso) dal vostro beffardo contegno: il qual sentimento di compassione sarebbe mosso, destato, in altri dall' aspetto affannoso che mostra la mia interna voglia di morire; se non che ognuno v'imita non solo in non commiserarmi, ma anzi nel prendere `a dileggio il mio tormento » : la quale interpretazione fu poi accolta e dal Fraticelli nelle posteriori edd., e dal Giuliani » CARDUCCI.

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VISTA MORTA II CAVALCANTI (Son. XIX) definisce il pallore mortale prodotto da angosce amorose: Quello pauroso spirito d'amore Lo qual suol apparer, quand' uom si muore. E più sotto: il morto colore.

Il WITTE :«< la vista morta, l'aspetto tramortito della mia persona cria, fa nascere, ovvero dovrebbe farlo, pietà in altrui. Anzi, il non sentirne e il non manifestarla, non confortando l'alma sbigottita del poeta, o non dimostrando almeno qualche compassione pel suo stato, sarebbe peccato. Ma questa pietà, benchè nata in altrui, è uccisa dal gabbo, dal beffarsi che Beatrice ne fa colle sue compagne ». E il TODESCHINI dice che bisogna « supporre fra l'uno e l'altro terzetto la elissi di una idea, che l'a. non voleva chiaramente esprimere. E pertanto ecco come io la intendo: Fa peccato chi vedendomi non mi dà qualche conforto col mostrarmi compassione: ma di ciò avete colpa voi, perchè il vostro gabbarmi estingue in altrui quella pietà che nascerebbe dal tristissimo aspetto degli occhi miei».

FORSE VEDREBBONO QUESTA PIETÀ. « L'ediz. pes.: chiuderebbero il Rajna propose leggere pièta anzichè pietà, cioè aspetto compassionevole, pietosa vista, tanto qui come nel verso 12. Ma se pièta starebbe bene qui, non ci sembra altrettanto nel Sonetto. Il cod. b legge pietosa scorta, ma non intendiamo ciò che voglia dire. Forse il passo è corrotto per tanta pietà e pietosa che vi occorre, e probabilmente doveva qui ritornare pietosa vista addirittura. Del resto, sebbene il Giuliani richiami qui l'attenzione del lettore su « l'arte » di Dante, ci par piuttosto dover dire col

TODESCHINI che da un simil Sonetto niuno avrebbe «saputo mai prevedere, che l'autore doveva dettare in età più tarda uno de' più alti poemi del mondo »>.

Appresso ciò che io dissi questo Sonetto, mi mosse una § XVI. volontà di dire anche parole, nelle quali dicessi quattro cose ancora sopra il mio stato, le quali non mi parea che fossero manifestate ancora per me. La prima delle quali si è, che molte volte io mi dolea, quando la mia memoria movesse la fantasia ad imaginare quale Amor mi facea; la seconda si è, che Amore spesse volte di subito m'assalìa sì forte, che in me non rimanea altro di vita se non un pensiero, che parlava di questa donna; la terza si è, che quando questa battaglia d'Amore mi pugnava così, io mi movea, quasi discolorito tutto, per veder questa donna, credendo che mi difendesse la sua veduta da questa battaglia, dimenticando quello che per appropinquare a tanta gentilezza m'addivenia; la quarta si è, come cotal veduta non solamente non mi difendea, ma finalmente disconfiggeva la mia poca vita; e però dissi questo Sonetto: Spesse fïate vegnonmi alla mente

L'oscure qualità ch' Amor mi dona;
E vienmene pietà sì, che sovente
Io dico: lasso! avvien egli a persona?
Ch' Amor m' assale subitanamente

Si, che la vita quasi m' abbandona:
Campami un spirto vivo solamente,
E quei riman, perchè di voi ragiona.
Poscia mi sforzo, chè mi voglio atare;

E così smorto, e d'ogni valor vôto,
Vegno a vedervi, credendo guarire:
E se io levo gli occhi per guardare,
Nel cor mi si comincia uno tremoto,
Che fa de' polsi l'anima partire.

Questo Sonetto si divide in quattro parti, secondo che quattro cose sono in esso narrate: e però che sono esse ragionate di sopra, non m'intrametto se non di distinguere le parti per li loro cominciamenti: onde dico che la seconda parte comincia quivi: Ch'Amor; la terza quivi: Poscia mi sforzo; la quarta: E se io levo.

APPRESSO CIÒ CHE IO DISSI QUESTO SONetto. Il Fr., Giul. e T. pongono virgola dopo dissi, come fosse il Sonetto che lo mosse a volontà di dire anche parole. Il W. segue come facciamo noi la volgata, e il Todeschini aderendovi, pone a raffronto il principio del §. XXI: Poscia che io trattai d'amore nella soprascritta rima, vennemi voglia di dire anche parole.

QUATTRO COSE. << Sono gli stessi pensieri che formano il son. anteced., e non si vede troppo bene perchè l' a. ascriva al presente §. quattro cose, le quali non mi parea che fossero manifestate ancora per me»: WITTE.

BATTAGLIA D'AMORE. GUIDO GUINICELLI: Ed io dallo suo amor sono assalito Con si fiera battaglia di sospiri Che contro a lei di gir non saria ardito. GUIDO CAVALCANTI (Son XXIV): L'anima mia vilmente è sbigottita Della battaglia ch' ella sente al core. E anche (ibid.): Per gli occhi venne la battaglia pria. E Son. IX: La nova donna a cui mercede io chieggio Questa battaglia di dolor mantiene. E Canz. II: La mia virtù si parti sconsolata, Poichè lasciò lo core Alla battaglia ove Madonna è stata.

L'OSCURE QUALITÀ. << Il tremor del cuore, la pallidezza del viso, il venir meno degli spiriti sensitivi, e generalmente la schernevole sua vista. Dona in senso di dà, che si dice anche delle cose spiacevoli »: WITTE.

Nel Son. del §. XXXVI: La qualità della mia vita oscura, cioè angosciosa, trista come ogni cosa priva di luce.

AVVIEN EGLI A PERSONA?

<< Sottintendi: ciò che avviene a

me? Qual è che si trovi mai in un così compassionevole stato? »: GIULIANI.

UNO TREMOTO. « La volg: Un terremoto. Forse qui tremoto è in vece di tremito, formato al medesimo modo che tremolare, tremore: non bene, ma amo meglio di credere che Dante formasse di testa questo nuovo vocabolo, di quello ch' e' pensasse alla truffaldinesca metafora del terremoto »: CARDUCCI.

Poi che io dissi questi tre Sonetti, ne' quali parlai a questa § XVII. donna, però che furo narratori di tutto quasi lo mio stato, credendomi tacere e non dir più, però che mi parea avere di me assai manifestato, avvegna che sempre poi tacessi di dire a lei, a me convenne ripigliare materia nova e più nobile che la passata. E però che la cagione della nova materia è dilettevole a udire, la dirò quanto potrò più brevemente.

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CREDENDOMI. Il T. il Fr. e il G. seguendo l' ediz. pes.: credeimi, e fanno punto a manifestato. Ma poichè, dice il RAJNA « tutti i codd. non che le ediz. ant. recano il gerundio, non vediamo ragione alcuna di sostituire il perfetto cogli edd. pes. Piuttosto che migliorare, la loro lezione guasta il testo. Se l'avvegna che dovesse qui stare in principio di periodo, gli si sarebbe preposto, se ben si guarda, un e, ma, o qualcosa di simile ». Anche il TODESCHINI opina << doversi tornare al credendomi della volgata, e quindi segnare non altro che punto e virgola dopo manifestato. Se si pongano per un momento da banda i due incisi però che furono ecc. avvegna che sempre ecc. (i quali rimessi al luogo loro non recano veruna alterazione al costrutto) si scorgerà limpidamente, che la lezione comune non lascia già sospeso il discorso, anzi ce l'offre meglio tessuto. Ciò che in questo periodo mi dà noja è il primo però che, ch' io cangerei volentieri in e che, ovvero ed i quali ».

CREDENDOMI TACERE E NON DIR PIU. Se Dante non avesse fatto intendere sul bel principio della V. N. di voler in essa raccogliere soltanto alcune delle poesie scritte per Beatrice, probabilmente innanzi a questo luogo, donde comincia materia nova e più nobile che la passata, avrebbero trovato posto alcuni componimenti che leggonsi nel suo Canzoniere. Diremo quali sono le rime che, secondo noi, spettano a questo primo periodo della vita, dell'amore e dell'arte di Dante.

In primo luogo il bel Sonetto: Guido, vorrei che tu e Lapo ed io, che ha tutto l'ardore e il sereno entusiasmo della gioventù. Esso fu certo scritto contemporaneamente o poco dopo al Serventese in lode delle sessanta belle fiorentine: dappoichè l'amata di Lapo vi è designata appunto col numero che le spetta in quello. Vi si cantano, con nota soave e melanconica, i piaceri dell' amore più remoti dalla materia e dal senso, e quali può trovarli una vi

vida immaginazione scaldata da un affetto, che sale per propria virtù al cielo limpido e quieto delle idee. Dante vorrebbe che Amore lo ponesse insieme con i suoi migliori amici Guido e Lapo, e colle donne loro e la sua propria, in un vascello che scorresse il mare, non obbedendo all' impeto cieco dei venti, ma al volere concorde degli amanti: i quali, ragionando insieme di amore, menerebbero così una vita piena delle misteriose voluttà che dona lo stare in seno alla vasta natura. Questo bellissimo Sonetto deve esser nato in uno di quei momenti di amorosa ebbrezza, nei quali vorrebbesi fuggire il mondo, ma in compagnia delle persone più dilette, e la somma felicità sembra consistere nella non mutabile persistenza di una condizione di cose sognata per ottima fra tutte, nel dare eternità ad un fuggevole momento della vita. Vi ha invero in questo Sonetto il senso intimo dell'infinito: il sommo del piacere si presenta all'immaginazione in forma di perenne compagnia coll'amata e cogli amici, nell' infinito regno dell' onde, sotto l'infinita. volta del cielo, ragionando senza fine degli affetti che scaldano i loro cuori. Lo spirito si annega quasi in una quiete, placida come le onde che li debbono trasportare senz' ira di venti contrarj, cullandoli, come dice un poeta moderno, nella tranquilla voluttà di un eterno barcollamento (j'aimerais savourer la volupté tranquille D'un éternel balancement: SAINTE-BEUVE: Au Loisir): si annienta in un estatico assorbimento, e, quasi a dire, in un nirvana amoroso. « Divina ebrietà!, dice a ragione il CARDUCCI, nella quale il giovane sfugge alla vita per meglio sentire la vita! Divino sogno di Dante, quello di sperdersi con l'amore e la felicità su l'oceano immenso, sempre avanti, sempre avanti, e per il sereno e per la tempesta, fuori dalle vicende della natura e della società umana, nell'oblio del tempo, in immortal gioventù! (Studi letter., Livorno, Vigo, 1874, p. 156) ». A questo Sonetto risponde, o almeno certo corrisponde, un componimento di Lapo (Poet. prim. sec., II. 104), nel quale egli pure ci dice qual sia, secondo lui, la massima felicità, quale il sogno prediletto della sua giovanile fantasia. Ei non vorrebbe soltanto possedere la donna amata, ma avere la bellezza di Assalonne e la forza di Sansone; vorrebbe che Arno corresse balsamo, le mura di Firenze fossero inargentate, le vie lastricate di cristallo, in pace tutto il mondo, piena sicurezza per ogni contrada, l'aria temperata egualmente di state e di verno, e migliaja di donne e di donzelle adorne cantassero intorno a lui sera e mattino, entro giardini pieni di frutta e di augelli, rinfrescati da acque

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