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adoperata dagli antichi rimatori propriamente per cotesto genere di poesia: quella che Ghidino chiama Serventese caudato semplice. In fatti il Serventese della morte di Carlo duca figliol del re Uberto (sic) di Napoli (1328), ined. nei codd. magliabechiani, è intessuto a quartetti continuati così:

Grave dolor che lo cuore mi cuoce

Mi costrigne la lingua a metter voce
Di te, crudele spietata e feroce
E dura Morte,

La cui potenzia fatt' à Dio sì forte
Che già non temi fortezza nè porte,
E tutte creature son da te scorte
In signoraggio.

Tu non riguardi altrui per gran lignaggio ec.

E così il Serventese per la guerra d'Argenta fra i Bolognesi e Rinaldo II d'Este (1333) pubbl. da EMILIO TEZA ( Atti e Mem. della r. Deputaz. di st. patr. per le prov. di Romagna, anno IV, 1866, Bologna, R. tipogr.):

O leso Cristo, padre onipotente,
Aprestame lo core con la mente
Che rasonare possa certamente
Un Servientese

Della discordia che intra 'l buon Marchese,
Quel da Ferrara, è stata e 'l bolognese ec.

Così il Frammento storico delle guerre tra Guelfi e Ghibellini di Bologna nel 1264 e 1280 (Bologna, Guidi, 1841), poesia della fine del sec. XIII, che, senza denominarsi Serventese, è pur tale:

Altissimo Dio, padre di gloria,

Pregoti che mi di' senno e memoria
Che possa contare una bella istoria
Di ricordanza.

Del guasto di Bologna si comenza,
Como perdè la forza e la potenza,
E lo gran senno con la prevedenza
Ch'aver solea, etc.

E così infine è composto il più conosciuto Serventese di frate

Domenico Cavalca il quale mandò ad un suo amico che si era fatto frate. Ma su 'l finire del secolo XIV il Serventese innovò versi e modi, pur mantenendo sempre il quartetto continuato e intrecciato: ed eccone la nuova forma nel Lamento di Pisa fatto per Pucino:

Pensando e rimembrando il dolce tempo,

E l' onorate pompe, e' grandi onori
Da tutti gran signori

Già ricevute nelle immense glorie;
E' gran trionfi e le spesse vittorie,
E le magnificenzie, e' gran tributi,
Ch'i'ò già ricevuti,

Stando nella mia sedia al gran palazzo;

E l'allegrezza, il piacere, il sollazzo ec.

Ma in questa nuova forma il Serventese trattò anche altri argomenti che storici e morali: la cosi detta Ruffianella attribuita la Boccaccio è un Serventese. E tal durò, allargato a' soggetti di amore, fino al Poliziano e agli ultimi del sec. XV. Se non che pur nella forma più antica, il Serventese italiano era stato usato a trattare affetti d'amore ancor forse prima che non gli avvenimenti del giorno e i morali insegnamenti. In un libro di Memoriali del notaro Gerardo Bonaventura dell'anno 1309 nell'Archivio notarile di Bologna si leggono de' versi volgari, che il buon notaro o qualche officiale del Comune trascriveva a piè dei fogli ove rimanesse un po' di margine bianco: e' sono Serventesi, uno di soggetto amoroso ma narrativo, ed è peccato che non vi sia tutto; l'altro, amoroso pur esso, è puramente lirico: eccone il principio: Placente vixo adorno angelicato;

Per denovo (sic) sono recomandato.
Mercè! s'eo tamo, sia miritato,
Amore soprano.

Per ti patisco doloroso afano,
Plu che non fe per Isota Tristano,
Imaginando quando m'è luntano
Lo to vedere.

Se tu savisi, bella, lo meo volere,
Quanto eo t'amo et dixio de vedere,
Per altra cosa che poixi avere

Me lasarisi,

Che tostamente a mi tu non vinisi ec.

S VII.

Adunque poteva ben Dante poco dopo il 1283 comporre una epistola sotto forma di Serventese intorno i nomi delle sessanta più belle donne di Firenze, da poi che la caratteristica speciale del Serventese italiano fosse non la contenenza ma la forma metrica, e forse lo stile più disciolto e corrente, più popolare, che nella canzone. Il MANNI, nella Storia del Decamerone, part. II, cap. IV (pag. 143), ricorda un componimento manoscritto, che vien reputato del Boccaccio, ove son nominate diverse donne fiorentine: ne riporta anche un frammento. È un vero capitolo in terza rima, e

annovera fra le belle donne

La Vanna di Filippo, Primavera

Da tal conoscitor degna chiamata,
Vedendola seguir nostra bandiera:

che è proprio il nome e il soprannome della donna amata da Guido
Cavalcanti, di cui Dante lasciò memoria nella V. N.; ma v'è
nominata anche la Fiammetta, e altre donne ricordate nel Ser-
ventese pucciano del 1335. Del resto, l'oggetto e l'argomento
del capitolo ricordato dal Manni sono gli stessi che del Serven-
tese di Dante: il quale chi sa che non fosse esempio e modello
al posterior poeta (che non è già il Boccaccio) anche pe 'l metro.
Infatti la terzina si riduce nell'ordine de' Serventesi, cioè delle rime
continuate e intrecciate per lunga serie, e non è probabilmente
altro che una modificazione o innovazione più artistica e sapiente
fatta da esso Dante del Serventese volgare un po' troppo monotono.
ANTONIO DA TEMPO dice chiaramente che la Divina Commedia ha
in consonantiis... quasi formam Servetensii, sebbene per essere
sottilmente figurata di storie antiche possa più propriamente chia-
marsi tragedia; e il TRISSINO (Poetica, Divisione IV), intendentis-
simo della versificazione antica, pone il terzetto come prima e più
bella forma del Serventese. Chi sa dunque che il Serventese su le
sessanta donne non fosse un primo e giovenile esperimento della
solenne terzina?»: CARDUCCI.

Sulla vera indole ed origine del Serventese, vedi RAJNA nel Giornale di Filolog. rom., vol. I., p. 89 e 200, e vol. II, p. 73-4, e inoltre G. PARIS in Romania, VII, 626, e MEYER, ibid., X, 264; e per ultimo RENIER, Liriche di Fazio degli Uberti, Firenze, Sansoni, 1883, p. CCXCVII e segg.

La donna, con la quale io avea tanto tempo celata la mia

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volontà, convenne che si partisse della sopradetta cittade, e andasse in paese molto lontano: per che io, quasi sbigottito della bella difesa che mi era venuta meno, assai me ne sconfortai, più che io medesimo non avrei creduto dinanzi. E pensando che, se della sua partita io non parlassi alquanto dolorosamente, le persone sarebbero accorte più tosto del mio nascondere, proposi adunque di farne alcuna lamentanza in un Sonetto, lo quale io scriverò; perciò che la mia donna fu immediata cagione di certe parole, che nel Sonetto sono, siccome appare a chi lo 'ntende: e allora dissi questo Sonetto: O voi, che per la via d' Amor passate,

Attendete, e guardate

S'egli è dolore alcun, quanto il mio, grave:

E priego sol, ch'udir mi sofferiate;

E poi imaginate

S'io son d'ogni dolore ostello e chiave.

Amor, non già per mia poca bontate,

Ma per sua nobiltate,

Mi pose in vita sì dolce e soavé,
Ch'i' mi sentia dir dietro spesse fiate:
Deh! per qual dignitate

Così leggiadro questi lo cor have?
Ora ho perduta tutta mia baldanza,
Che si movea d'amoroso tesoro;
Ond' io pover dimoro

In guisa, che di dir mi vien dottanza.

Sì che, volendo far come coloro,

Che per vergogna celan lor mancanza,
Di fuor mostro allegranza,

E dentro dallo cor mi struggo e ploro.

Questo Sonetto ha due parti principali: chè nella prima

intendo chiamare i fedeli d' Amore per quelle parole di Je

remia profeta: O vos omnes, qui transitis per viam, attendite et videte, si est dolor sicut dolor meus; e pregare che mi sofferino d'udire. Nella seconda narro là ove Amore m'avea posto, con altro intendimento che l'estreme parti del Sonetto non mostrano: e dico ciò che io ho perduto. La seconda parte conincia quivi: Amor non già.

MOLTO LONTANO. - Così, e non semplicemente paese lontano, portano i codd. a, b, c, d, e, e le ediz. P. T. W. L'ediz. V.: lontano molto.

LA MIA DONNA FU IMMEDIATA CAGIONE DI CERTE PAROLE CHE NEL SONETTO SONO, SICCOME APPARE A CHI LO 'NTENDE. In questo Sonetto, fatto apparentemente per la partenza della donna che gli serviva di schermo, quali saranno le parole che oscuramente intenderanno di Beatrice? Se noi pensiamo che queste rime appartengono al tempo nel quale il magistero poetico di Dante non era qual fu dappoi, e in che egli seguiva la maniera artificiosa dei provenzali, ricca di spedienti, di sottintesi, di allusioni sottilissime, non parrà strano che noi dimandiamo, se la coperta menzione al coperto amore verso Beatrice si nasconda nella parola celare dell' antipenultimo verso. Anche nel Sonetto successivo egli allude a Beatrice colla parola Amore: siccome appare manifestamente a chi intende, secondo egli assevera: ma piuttosto, direm noi, per quel ch'egli ne assevera, aprendoci il senso riposto delle sue parole. O forse anche, come si potrebbe desumere dalla divisione, le estreme part della poesia racchiudono altro intendimento dal principio della parte seconda che comincia: Amor non già; dacchè, nel suo pensiero, dicendo ove Amore l'avea posto alludeva Dante alla donna-schermo, e poi parlando della sua dolorosa condizione alludeva piuttosto a Beatrice. Ma tutto ciò è così involuto, che anche colla esplicita avvertenza delle certe parole appartenenti a Beatrice, non si riesce a vederci chiaro.

E ALLORA DISSI QUESTO SONETTO. << Questi versi, e gli altri del paragr. seg. che cominciano Morte villana, di pietà nemica, Dante e nel racconto e nella esposizione li qualifica più volte per Sonetti. Ma il BEмBO (Della volg. ling., lib. II.) e l' UBALDINI (Indice al tratt. Del reggim. e dei cost. delle donne di Francesco da Barberino) vogliono ch'e' sien Canzoni, `e che Dante usasse qui

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