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nello studio? E se anco la scienza prende, per entro l'accesa mente del poeta, aspetto di persona (1), sarà mai da credersi che questa donna formata dalla fantasia, possa tanto attrarlo a sè, quanto potea farlo la immagine di Beatrice, suscitata dalla vigile rimembranza e resa quasi viva e palpitante dall'affetto e dal dolore? (2).

A me pare che Dante, privo di veri affetti e dato tutto quanto allo studio, via via che in questo venivasi addentrando, dovesse provare quella pura soddisfazione, quella pace serena, quella pienezza di gaudio che prova l'intelletto nell'acquisto del vero (3), e che, in certo modo, gli rammentava il secondo momento del suo amore per Beatrice. E dappoichè ogni concetto della sua intelligenza veniva in lui naturalmente avvivato dal sentimento, egli potè chiamare amore questa cosifatta possente attrattiva della Sapienza sull'animo suo, questo culto da lui prestato al Vero. Quello di prima, ei scrive, fu Amore, così come questo di poi (1). Ma quindi, quasi correggendosi per Amore in questa allegoria sempre s'intende lo studio (5). Di qui si desume il senso discreto e speciale da attribuirsi alla parola Amore, quando Dante parla della Filosofia. La natura stessa di questo forte affetto pel Vero, trae adunque Dante, quando ei vuol renderne conto a sè e ad altri, ad adoperare quei modi che si usano ad esprimere l'umano affetto verso la donna, volgendo e spesso stravolgendo, la parola da ciò ch'ella suona a ciò ch'ella intende (6). E perciò, non solo lo studio è denominato amore, e donna la Filosofia: ma progredendo quasi di necessità in questo simbolismo formale ed esteriore, di parola più che di concetto, metaforico più che allegorico, occhi

(1) La quale veramente è donna piena di dolcezze, ornata di onestade, mirabile di savere, gloriosa di libertade: Conv. II, 16.

(2) « Vorrebbe il Poeta darci a intendere che per un amore allegorico egli sospirò e pianse tanto: ma sarà lecito in ciò non credere a Dante: TOMMASEO, op. cit., p. LXVII.

(3) Vedi nel Conv. III, 15: « come la Sapienza possa fare l'uomo beato >. (4) Conv. II, 9.

(5) Con. 11, 16. E nel Sonetto: Parole mie ec. dice che presso la nuova sua donna non v'è amore: Con lei non state, che non v'è amore.

(8) Conv. II, 13.

del volto di questa immaginaria figura sono le dimostrazioni, splendide della luce del vero: e i sospiri e le angoscie dell' amatore sono le dubitazioni che combattono nel chiuso intelletto del filosofo; e via di seguito (').

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Ma quasi tanto non bastasse a far smarrire la vera significazione di queste forme che velano sotto specie reale, un essere ideale ed astratto, ecco nuove difficoltà accumulate da Dante per cancellare ogni traccia dell'episodio della gentildonna pietosa. Qual però fosse la ragione per la quale a Dante paresse cosa di tanto momento il dar veste allegorica a cotesta passeggera dimenticanza dell'affetto costante quando già egli dovea pur aver mormorato parole di amore a quella Gemma de' Donati, che scelse a compagna del viver suo e fe' madre dei suoi figliuoli, e della quale non pertanto ei non lasciò menzione alcuna nei suoi scritti questo è mistero di cui sarebbe difficile indagare e dichiarare le ragioni. Ad ogni modo, dell' aver egli fatto corrispondere intimamente l'uno all' altro due fatti così diversi fra loro, adonestando l'affetto umano con quello intellettuale, resta questa spiegazione addotta da lui nel Convito: Pensai che da molti diretro da me forse sarei stato ripreso di levezza d'animo, udendo me essere dal primo amore mutato: per che, a torre via questa riprensione nullo migliore argomento era che dire qual era quella donna che m'avea mutato (2): cioè la Filosofia. Così ad evitare la taccia di levezza d'animo, Dante, confondendo insieme la gentildonna pietosa e la Filosofia, facendo ammenda di quell'affetto e trasmutandolo a simbolo (3), dava a credere che, dopo la morte di Beatrice, niun altro amore avesse occupato l'anima sua, salvo quello nobilissimo della Sapienza (4).

(1) Conv. II, 16. ш, 15.

(2) Conv. 11, 2.

(3) CARDUCCI, Studi letter., Livorno, Vigo, 1874, p. 214.

(4) Dissi Amore ragionare nella mente, per dare ad intendere che questo amore era quello che in quella nobilissima natura nasce, cioè di verità e di virtù, e per ischiudere ogni falsa opinione da me, per la quale fosse sospicato lo mio amore essere per sensibile dilettazione: Conv. III, 3.

Queste cose, che Dante forse già meditava quando di poeta lirico voleva tramutarsi in reggitore della repubblica, e scriveva le nobili sue Canzoni in lode della Filosofia, pur conservando in esse quel linguaggio erotico, al quale solo parevagli atto l'idioma volgare ('), queste cose parvegli opportuno affermare con novelle prove allorchè si trovò gettato sulle aspre vie dell'esilio. Allora riprese le due misteriose ed oscure Canzoni, vi pose i commenti applicandovi oltre il senso allegorico, proprio ma difficile (2), anco un senso storico; ed allargando il suo concetto, immaginò di riunire insieme, illustrandole, quattordici Canzoni, dando all' ampio trattato il nome simbolico di Convito, come se in esso si distribuisse divino cibo di scienza. Or qual è la ragione ultima del Convito? Secondo il Foscolo, il Convito mirava a piegar l'animo di coloro che lo tenevano fuori del bello ovile, mostrando come, ormai domo dalla sventura, egli si fosse dato tutto alle meditazioni della scienza e allontanato dalle brighe partigiane; sicchè i suoi concittadini dovessersi vergognare di esser spietati contro tale, che alla sola filosofia attendeva indefesso. Ma la vera ragione del Convito stà scritta sul principio del 1. libro, che è come prefazione all'opera tutta quanta: Movemi, ei dice, desiderio di dottrina dare e movemi timore d'infamia (3) Si comprende facilmente la prima ragione quì allegata: ma qual era l'infamia che Dante voleva cansare nei tempi, duri e difficili, dell'esilio?

Gettato fuori del seno dolcissimo della patria Firenze, ito peregrino quasi mendicando per tutte le parti d'Italia, egli aveva

(1) V. N. (§. xxv).

(2) Il senso allegorico delle Canzoni che pur era il VERO e primitivo, non veniva inteso a causa delle forme proprio del linguaggio amoroso che mostrava la condiztone di Dante sotto figura d'altre cose (Conv. II, 13); sicchè lor bellezza (delle Canzoni) più che lor bontà era in grado (Conv. 1, 1). Di quì la necessità di schiarirne i sensi faticosi e forti: «Conciossichè la intenzione mia fosse altra che quella che di fuori mostrano le Canzoni predette: (Id. Id.). E 1, 2: La sentenza di quelle per alcuno vedere non si può s'io non la conto, perch'è nascosta sotto figura d'allegoria ».

(5) Conv. 1, 2.

mostrato le piaghe della fortuna spietata, e vile era apparso, secondo sembravagli, agli occhi di molti che forse per alcuna fama in altra forma lo avevano immaginato (1). Ma quel che più lo aveva gravato di insopportabile peso, era stata la compagnia malvagia e scempia colla quale aveva dovuto trovarsi nella trista valle dell'esilio (2). La stessa sua condizione di esule il conduceva ad aver parte nei consigli politici e guerreschi dei fuorusciti. Misto ad ambiziosi e faccendieri, de' quali ogni setta abbonda e che più mirano all'utile e alla cupidigia propria che al bene comune, Dante ben sentiva quanto egli era da più di cotesto volgo riottoso ed ebro. Ma per poter procacciarsi autorità sulla sua parte, e smascherare le violenze, le avventataggini, le borie dei compagni di esilio, per dimostrarsi, qual era, nudrito il petto del cibo della scienza, quali prove avrebbe egli potuto addurre nella sua vita anteriore? La Divina Commedia non era ancora compiuta, e solo erano divulgate le Liriche d'amore e la Vita Nuova. A lui consigliere di guerra e di politica, suasore di partiti temperati e savj, Lapo Salterelli, Ciolo e'lor pari avrebber potuto dimandare con amaro sogghigno, se egli avesse appreso a fare il capo di parte tremando alla presenza di una fanciulla: se fosse divenuto esperto nell'arte di stato studiando nelle rime di Guido Guinicelli, anzichè in Aristotile o in San Tommaso: se di destrezza avesse dato saggio in un infelice priorato ed in una ambasceria che era riuscita un tranello, nel quale incautamente aveva posto il piede. Avveduto politico, uomo saldo costante di animo, degno di esser consigliere e capo agli esuli, lui che null' altro avea fatto se non rime di amore, nelle quali, prima avea vaneggiato per una fanciulla chiamandola miracolo, poi per un altra donna, per finir colle lodi di una terza che mal si poteva intendere chi fosse!

Occorreva che Dante, per non apparir contennendo agli occhi di quanti per la prima volta lo vedevano, si togliesse di dosso la. taccia almeno di levità d'animo. Temo, ei scrive, la infamia di

(1) Conv. 1, 3.

(2) Parad. XVII. E: ingrata, matta ed empia... Di sua bestialitate ec. »..

tanta passione aver seguita quanta concepe chi legge le sopra nominate Canzoni, in me avere signoreggiata: la quale infamia si cessa per lo presente di me parlare, interamente, lo quale mostra che non passione ma virtù sia stata la movente cagione (1).

Dell'affetto per Beatrice non voleva scusarsi, chè il cuore glie 'I vietava e di qui la dichiarazione di non voler derogare alla Vita Nuova, sinchè non giungesse il momento in cui, maturato alfine in mente l'alto concetto, potesse chiarire chi e quale per lui fosse la donna rimpianta. E poi, di che avrebbe egli intanto dovuto giustificarsi, se l'affetto suo già era descritto così scevro d'ogni pensiero men che nobile e puro? Doveva bensì, o parevagli, dover spiegare manifestamente chi fosse stata la gentildonna pietosa, chi l'altra alla quale erano rivolte le rime faticose e forti: e, destramente, di due fece una, sicchè potè chiamare nobilissimo quell'amore che già vilissimo aveva denominato. Per tal modo ei raggiungeva due fini: sopprimeva un episodio che gli era doloroso, e mostrava quant'alto fosse stato l'oggetto del suo amore (2). Certo la immaginazione accresceva in lui quel timore di viltà e di infamia in che parevagli esser caduto; ma la sua dichiarazione di un solo amore di così eccelsa natura, gli dava vendetta allegra contro i suoi malevoli, e lo rendeva degno di osservanza presso coloro fra cui menava errabonda la vita (3). E meditò quindi il

(1) Conv. 1, 2.

(2) << Nuovo pensiero virtuosissimo siccome virtù celestiale: Conv. II, 2. · E chi volesse altrimenti interpetrare la parola virtù, confr. III, 3: « Per la sua eccellenza manifesta aver si può considerazione della sua virtù, e per lo intendimento della sua grandissima virtù si può pensare ogni stabilità di animo essere a questa mutabile ». Ma per far meglio vedere quanto la identificazione sia artificiosa e pensata, e i due fatti distinti fra loro, notisi che nella V. N. (§. XXXIX) la consolazione della gentildona è detta < pensiero vilissimo II DIONISI, Aned. 2o, p. 45 aveva già osservato che in sostanza l'una donna non avea a che fare coll'altra. Con questo egli era sulla buona via interpetrativa, ma par che si disdica nella Preparazione, II, 55.

(3) Nel cospetto dei quali non solamente mia persona invilìo, ma di minor pregio si fece ogni opera sì già fatta, come quella che fosse a fare »: Conv. 1, 3.

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