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Per questo appunto nella sua grave Epistola, indiritta, nella venuta d'Arrigo, a'Principi e Popoli Italici, esclama: Rallegrati oggimai Italia, di cui si dee avere misericordia, la quale incontanente parrai per tutto il mondo essere invidiata, perocchè il tuo sposo, ch'è letizia del secolo e gloria della tua plebe, il pietosissimo Arrigo, alle tue nozze di venire s' affretta. Asciuga, o bellissima, le tue lagrime, e gli andamenti della tristizia disfa', imperocchè egli è presso colui che ti libererà dalla carcere de' malvagi. E mentre Dante invita gl' Italiani a riconoscere in Arrigo l'unico loro Regolatore, non esige però che essi pongano nel di lui arbitrio le loro libere costituzioni: Vegghiate tutti (egli dice), e levatevi incontro al vostro Re, o abitatori d'Italia, e non solamente serbate a lui ubbidienza, ma come liberi il reggimento. A questo dunque eran volte le mire e tutti gli sforzi del magnanimo Ghibellino, di procurare il riordinamento, l' unione e la gloria d'Italia; e nella dolce lusinga che ciò fosse per accadere vicino, e nello scopo di preparare la sospirata riconciliazione fraterna, e far tacere le ire intestine ognor rinascenti, scriveva appunto quella Epistola, e pateticamente gridava: Perdonate, perdonate oggimai, carissimi, che con meco avete ingiuria sofferta.

Nè soltanto al vantaggio d'Italia, ma al ben essere di tutta l'umana generazione pensava Dante che fosse necessaria l' universal Monarchia. Un solo principato (dic' egli nel Convito pag. 348) è uno Principe avere, il quale tutto possedendo, e più desiderare non possendo, li re tenga contenti nelli termini delli regni, sicchè pace intra loro sia nella quale si posino le cittadi. E questo principio egli ripete ed a lungo sviluppa nel primo libro della presente Operetta. Laddove pertanto è pace, quivi si trova pubblica felicità; ma quivi solo è pace laddove è giustizia. Ond'è che in effetto tanto più ampiamente dominar deve giustizia, quanto più sia potente l'uom giusto prepo

sto ad amministrarla: dunque la miglior guarentigia della pubblica felicità risiede nella massima potenza del Supremo Imperante. E poichè tolta la cupidigia, nulla rimane d'ostacolo alla giustizia, il Monarca il quale nulla abbia a desiderare, esser deve giustissimo per necessità. Desso egli è causa utilissima, causa massima all'ottimo vivere delle genti: dunque a conseguire un tanto effetto è necessaria al mondo una tanta causa. Se non che a far pieno e inconcusso il suo teorema, Dante vuole un Monarca necessitato dal propostosi fine di dare e serbar sempre giustissime leggi; quindi Monarca afferma solamente colui, che disposto sia a reggere ottimamente, e così argomentando fa vedere che non il popolo solo si uniforma alla volontà del Legislatore, mentre il Legislatore stesso, egualmente che il Popolo alle leggi obbedisce. Conchiude poi che sebbene il Monarca, riguardo ai mezzi, sembri il dominatore delle Nazioni, in quanto però al fine, altro egli non è che il loro Ministro, perciocchè non il Popolo pel Re, ma il Re pel Popolo è creato: Non enim gens propter Regem, sed e converso Rex propter gentem (pag. 40).

Nel secondo Libro, che s'aggira tutto in provare come l' Impero appartien di diritto all'Italia ed a Roma, fassi dapprima l'Autore a mettere in vista la serie de' prodigj operati dal Cielo per istabilire, promuo vere e conservare la sovranità del popolo Romano. Dopo di che egli dice, che quello il quale alla sua perfezione è da' miracoli aiutato, è da Dio voluto, ed è perciò di diritto, Adunque l'Impero di Roma, che nella caduta dello scudo celeste, nel gridare delle Oche della Rocca Tarpeja, nella mala final riuscita delle vittorie d' Annibale, appare conservato e cresciuto per mezzo di soprannaturali prodigj, è certo essere e starsi di diritto, dappoichè Dio così volle e dispose. Indi l'Alighieri in cotal guisa i suoi argomenti prosegue : Chi ha per iscopo il fine della Repubblica tende a sonseguire il vero fine della giustizia, I Digesti non

definirono la giustizia quale si è veramente in se stessa, ma quale appare nel suo pratico esercizio. Il giusto consiste nella reale e personale proporzione dell' uomo verso l'uomo, la quale conservata. conserva, e corrotta corrompe la Società. Ond'è che non sarà mai diritto quello che non tenda al comun bene de' soci, ed è per ciò che Tullio nella sua Rettorica afferma che le leggi si deggiono sempre interpetrare secondo l'utilità della Repubblica. Ora il Romano popolo colle sue gesta dimostra come nel conquistare l'intero inondo, pose in non cale gli agj proprj e solo provvide alla salute dell' uman genere. L'Impero della Romana Repubblica era il refugio ed il porto de' Re, de' Popoli e delle Nazioni. I Magistrati e Imperatori Romani in questo massime si sforzavano di conseguir lode, nel difendere cioè le provincie, nel proteggere gli alleati con fede ed equità; e gli esempi di Cincinnato, di Fabrizio, di Camillo, di Bruto, di Muzio, de' Decii e de' Catoni sono di cotanta virtute e specchi e riprove. È dunque a conchiudersi che come il romano popolo soggiogando l'intiero mondo intese al fine della giustizia, e provvide al pubblico bene, a buon diritto arrogossi la suprema dignità dell' Impero.

lo non dirò che queste opinioni del ghibellino Scrittore siano del tutto vere e inconcusse, nè che la sua teoria, quantunque sembri in astratto probabile, possa nel fatto realizzarsi. Troppo smisurate cose appare manifestamente aver egli dette per istudio di parte, e per l'amor della causa Imperiale: dover cioè tutto il mondo appartener di diritto all'Impero de' Romani, e sola l'universal Monarchia esser quella, all'ombra di cui le Nazioni goder possano pace e felicità; mentre per un lato, quel preteso diritto de' Romani, come quello di tutti i popoli conquistatori, non consisteva che nella violenza e nella fortuna dell'armi loro; e per l'altro, ogniqualunque forma governativa può esser atta a procurare la felicità de' governati, quando coloro che siedono al timon dello stato si sforzino, con

tutti i mezzi che sono in loro potere, di conseguire quell' altissimo fine. Ma se la tesi del ghibellino Scrittore del comprendere in un sol corpo politico la Terra intiera, mentre pure l'Italia, la di lui patria, si stava sotto a' suoi occhi tutta sminuzzata, divisa ed in se stessa discorde, è da riporsi nel numero delle utopie, ella non potrà a meno di dirsi grande e magnifica, e degna dell' alta mente di Dante Alighieri.

Cinque o sei edizioni di questa Operetta hanno finora veduta la luce, la prima delle quali fu fatta nel 1559 in Basilea per Gio. Oporino: ma la lezione per colpa de'secoli e degli editori n'era così scorretta e malconcia, che più di cento strafalcioni m'è venuto fatto d'emendare nel darne al Pubblico la presente ristampa; come, a cagion d'esempio, correggendo dicentes ipsum recepisse in dicentes Christum recepisse, pag. 152; facere tamen ascendere in facere terram ascendere, pag. 154; gestis humanis in gestis romanis, pag. 168; non enim Decius in non enim dicimus, pag. 180; divinae prudentiae in divinae providentiae, pag. 198, ec. ec.

La traduzione italiana, ch' or per la prima volta vede la luce, e ch'è opera del celebre Marsilio Ficino, il quale volle intitolarla a due suoi amici Bernardo Del Nero ed Antonio Manetti, è tratta dal Cod. 1173. Cl. VII. della Magliabechiana. Ed abbenchè io l'abbia collazionata sopra altro esemplare, di cui mi fu cortese il Chiariss. Sig. March. Gino Capponi, essa sarebbe rimasa in più luoghi o guasta o mutila o inintelligibile per colpa più degli amanuensi che di lui che dettolla, se io con un po' di critica e col soccorso del testo latino non l'avessi raddirizzata e corretta. Nel che fare ho usato tal parsimonia e tal diligenza che io sono per credere non sia per esservi alcuno, che vorrà farmene rimprovero, anzi sapermene qualche grado, tanto più s'egli prenda in esame le correzioni da me eseguite, le quali se non tutte almeno nella massima parte ho stampate in carattere corsivo, affinchè possano a prima vista conoscersi.

DANTIS ALIGHIERI

FLORENTINI

MONARCHIA

LA MONARCHIA

DI

DANTE ALIGHIERI

FIORENTINO

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