tagna, e probabilmente quando questi, abbandonato Piteccio, dopo averlo tenuto per tre anni, passò alla Sambuca piantata sugli aspri monti dell' Appennino?» Le parole, a cui allude il Ciampi, sono: Ohimè, vasel compiuto Di ben sopra natura, Per voltar di ventura Condotto fosti suso gli aspri monti, Dove t'ha chiuso, ahimè, tra duri sassi Vedete potenza di allucinazione! Ma quanti non saranno stati in quel terribile secolo gli esuli da Pistoia, rifugiatisi sugli aspri monti! Ma quante donne infelici non saranno state chiuse dalla morte tra que'duri sassi! C'è proprio bisogno che si parli qui della Sambuca e di una Selvaggia de'Vergiolesi, la cui esistenza non è attestata da nessun documento? Del resto che Cino piangesse amaramente la morte di una donna amata da lui, lo sappiamo; e sappiamo anche che quei suoi versi sono bellissimi. Ma non occorre per questo di fantasticare sulla Selvaggia. La poesia del dolore è nel Pistoiese altissima, e ispirata da una profonda verità. In ciò consiste anzi la sua arte veramente grande e originale. 1 Canz. Ohime lasso quelle treccie bionde. È cosa affatto inattesa trovare un'arte profondamente psicologica, quando appena una letteratura esce dal suo periodo delle origini. Cino da Pistoia ci si presenta innanzi non più colle qualità, perfezionate, dei suoi predecessori; ma in un aspetto compiutamente nuovo. È vero che già in Dino Frescobaldi e in Gianni Alfani trovammo qualche nota di dolore; ma quello che in essi era, se così possiamo dire, embrionale, appena accennato, appena schizzato, acquista ora un pieno organismo, diventa un quadro dalle grandi proporzioni e dal disegno finito. Leggendo alcuni versi del Pistoiese noi ci scordiamo, quasi, di essere appena sul finire del secolo XIII, e ci sentiamo invece trasportati al secolo delle più delicate analisi interiori, dei più ardui raffinamenti dell'arte, intenti a rappresentare le condizioni dello spirito: ci balenano dinanzi certe grandi figure di poeti moderni, e domandiamo, meravigliati, a noi stessi la spiegazione di un tale fenomeno. E questa non è poi troppo difficile a darsi; ma qui non n'è il luogo. Quando saremo giunti al termine del nuovo periodo letterario che ora si apre; quando avremo studiati i grandi prodotti dell'arte italiana nel XIV secolo, allora potremo guardare indietro e spiegarci il perchè di quella mirabile fioritura, di quello svolgimento rapido, vertiginoso, di quell' erompere improvviso di opere così artisticamente riflesse dalle viscere di una letteratura, nell'apparenza, incipiente. Per ora seguitiamo la nostra analisi, lenta e faticosa, ma non priva di geniali attrattive. Cino è pittore sovrano del dramma psicologico che si svolge dentro di lui. L'amore non corrisposto, tèma vecchio e monotono così uniformemente trattato, prende in lui novità, diventa lamento vero, espressione di dolore sentito: Oimè lasso, or sonvi tanto a noia Morrò, da che vi piace pur ch'io moia, Mi torna in disperanza.. Di tutto ciò ch'io mi pasceva in pace Mi torna or guerra. L'avere sperato nelle gioie dell' amore e il non sentirne che le amarezze è fortemente espresso in questi versi : Credea che quando tu uscissi Da si begli occhi, portassi dolci ore, Le lagrime che piovon da lo core.1 Le strazianti titubanze del cuore, il desiderio e il terrore insieme della morte non sono finzioni poetiche, ma terribile realtà: Giusto dolore a la morte m' invita, Ch'io veggio, a mio rispetto, ogni uom giulivo Ma non so che mi far della finita, O lasso me sopra ciascun doglioso! Cino nel dipingere il proprio dolore è inesauribile e svariatissimo, e dipinge con colori di meravigliosa vivezza. Guardatelo: Ei sen va sbigottito, in un colore E quando alcun pietosamente il mira, E l'alma se ne duol sì che ne stride.2 1 Son. Senza tormenti di sospir non vissi. |