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che

egli usa false carte ad Amore. Ma non pare giovasse. Altre treccie bionde seguitarono ad ammaliarlo, o, come egli dice, a ritenerlo stretto come uccello nel vischio:

Omè ch'io sono all' amoroso hodo
Legato con due belle trezze bionde,
E strettamente ritenuto, a modo

D'uccel ch'è preso al vischio tra le fronde.1

Nè le bionde treccie solamente, ma anche le

col Cavaliere che è la Pisana. Anzi i suoi versi ci provano che i due amori furono simultanei (Seguo la lez. data dal Chiappelli):

Molto li tuoi pensier mi paion torti

Per ciò che la tua mente n'è soccinta,
Tanto in Selvaggia 'n sin hora l'hai spinta,

Et mo' al Cavalier gitti le sorti.

Par che ti nutrigasi lungo gli orti,

Voler portar di duo la cera tinta,

Contra ragion d'amor, che non ha 'nfinta
La 'ntenza tua, et dratti desii corti.

I desii corti si riferiscono tanto a Selvaggia, quanto all'altra. Osservo ancora che il nominare una delle due donne col soprannome datole da Cino (il Cavaliere) avvalora la supposizione che anche l'altra (Selvaggia) sia designata con il soprannome usuale. Ma c'è di più. Il sonetto 1o di Cino al Taviani dice che s'innamorerebbe del bel Cavalier, se non avesse Teccia nella mente. Il Taviani risponde: ma come puoi tu portare la cera tinta di due? E nomina Selvaggia e il Cavaliere. Teccia e Selvaggia sembra dunque che sieno la stessa persona. Questo Guelfo Taviani doveva essere un pistoiese. Il Ciampi dice che un ramo degli Ughi-Taviani-Franchini (discendente da quegli Ughi, a cui appartenne la moglie di Cino) si manteneva ancora ai suoi tempi a Pistoia. Vita e poesie, pag. 27. Di esso Taviani, oltre i due sonetti a Cino, si ha pure un sonetto a Cecco Angiolieri, stampato già dal Cappelli (Otto Sonetti del secolo XIV, Modena, 1868) e ristampato dal D'Ancona (Studi di Crit. e Stor. letter., p. 139).

1 Cod. Parmense 1081, c. 98v.

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nere gli piacquero, poichè d'una donna dalle nere chiome mi pare evidente che parli questo sonetto:

Per una merla che d'intorno al volto
Sovra volando di sicur mi venne,
Sento ch'amore è tutto in me raccolto
Lo quale uscio de le sue nere penne,

Ch'a me medesmo m'ha furato e tolto,
Ne d'altro mai poscia non mi sovenne,
E non mi val trasmessere (?) in volto
Più che colui che 'l simile sostenne.

Io non so come ad esser mi ritorni,
Che questa merla m'ha sì fatto suo,
Che sol voler mia libertà non oso.

Amico, or metti qui 'I consiglio tuo,
Che s'egli avien pur ch'io così sogiorni,
Almen non viva tanto doloroso.

Notate, vi prego, in questo sonetto l'espressione di un affetto che pare profondo. Non sono fugaci capricci, se almeno la poesia non mentisce, ma passioni vere quelle di Cino. Come si può esprimerlo meglio di così?

questa merla m'ha sì fatto suo, Che sol voler mia libertà non oso.

E se la merla fosse, come pur potrebb' essere, la donna istessa che altrove chiama: quella oscura, velata in un amanto negro, tanto più avremmo ragione di credere ad un amore in

1 Son. Amico s'egualmente mi richange.

tenso, e cagione di forte dolore al poeta. Sicuramente però non da tutti i suoi amori ritrasse egli quel dolore, che sa, come altrove vedremo, così altamente cantare. Ci sono anche i versi dell'amore felice, dell'amore corrisposto. Si legga questa terzina:

Deh, chi potria sentir d'amor ma' doglia,
Avendo 'n tanta altura su' cor messo,

E ancor più che so ch'è ben sua voglia? 2

E più si legga questo sonetto, dove combattono la speranza e il timore, pur rimanendo la prima vincitrice:

Ora che rise lo spirito mio

Doneava il pensero entro lo core,
E con mia donna parlando d'amore
Sotto pietade si covria il disio.

Perch'ella il chiama la follia ched io
Voi seguendo e mostrone dolore,

E par ch'i' sogni e sia com'om ch'è fore
Tutto del senno, e sè stesso à 'n oblio.

Per questo donear che fa 'l pensero,
Fra me medesmo vo parlando e dico
Che 'l suo sembiante non mi dice vero,
Quando si mostra di pietà nemico,
Ch'a forza pare che lo faccia fero!
Perch'io pur di speranza mi nutrico.

1 È affatto arbitrario il dire che questo sonetto « pare scritto nell'occasione che la sua donna (quale?) portava bruno per la morte di qualche stretto parente ». Critica peregrina ed amena!

2 Son. Tutte le pene ch' io sento d'amore.

Intanto, però, tutte queste donne chi sono? C'è anche tra queste colei ch'egli qualche volta chiamava col nome di Selvaggia? Non lo sappiamo. Nè già a queste sole si arresta la dolce schiera delle bellezze che punsero il cuore del Pistoiese. C'è quella, da cui, fatta sposa, attende il compenso lungamente aspettato; c'è la bella Bolognese:

Et posso dir che mal vidi Bologna

E questa bella donna ch'io sguardai; 2

c'è un'altra che pare sia stata prima buona e pietosa e poi l'abbia ingannato e deriso:

Onde non chiamo già donna, ma morte
Quella che altrui per servitore accoglie
E poi gabbando e sdegnando l'uccide,
A poco a poco la vita gli toglie,
E quanto più tormenta più ne ride. 3

C'è, se il sonetto è di Cino,4 la fante piacente in cera; e quella che gli è cara sol di stare

5

1 Son. Angelica figura e dilectosa. Il signor Chiappelli nel suo libro su Cino supporrebbe che quei versi si riferissero al matrimonio di Selvaggia (pag. 39). Distinguiamo. Per chi crede Selvaggia la donna ideale cantata dal Sinibuldi, quella supposizione è impossibile. Per noi che riteniamo Selvaggia un nome convenzionale, sotto il quale possono essersi nascoste anche più donne successivamente, quella congettura non ha nulla d'impossibile. Ma perde però ogni valore.

2 Son. O lasso! ch'io credea trovar pietade.

3 Son. Chi a' falsi sembianti il core arrisca.

Ne dubito molto.

5 Son. Lasso, ch'io feci una vesta da amante.

a la finestra,1 e quell'altra gioven donna gente, che gli versa co'begli occhi fuoco nell' anima, e della quale

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non chieggio altro che ponerle mente,

Poi di ritrarne rime e dolci versi. 2

In mezzo a tutte queste non è lecito nemmeno dire che Selvaggia tenga il primo luogo. Di essa, volendo stare rigorosamente a quello che ci esprimono le rime, non si può dire se non che è un nome, il quale piacque al poeta, perchè, forse, esprimeva uno stato frequente dell' animo suo: un fiero e selvaggio stato di dolore che egli cantò con arte sovrana. E lo vedremo tra breve. Intanto esaminiamo quella parte delle rime di Cino, dov'è rappresentata la donna nella sua più alta idealità.

1 Son. Lo fino amor cortese ch'amaestra.

2 Son. Avvenga che crudel lancia intraversi.

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