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lagrime al tuo figliuolo, concedi la materna pietà a » colui, il quale tu rifiutasti, anzi cacciasti vivo, sic⚫ come sospetto; desidera almeno di riaverlo morto; rendi la tua cittadinanza, la tua grazia, il tuo seno alla sua memoria. In verità, quantunque tu a lui in» grata e proterva fussi, egli sempre, come figliuolo, ebbe te in riverenza, nè mai di quell' onore che » per le sue opere seguir ti doveva volle privarti, » come tu lui della tua cittadinanza privasti. Sempre » Fiorentino, quantunque l'esilio fusse lungo, si nominò e volle esser nominato, sempre ad ogni altra ti prepose, sempre ti amo! Che adunque farai? » Starai sempre nella tua nequizia ostinata? Sarà in te meno di umanità che ne' barbari, li quali trovia» mo, non solamente avere i corpi dei loro morti raddomandati, ma per riaverli essersi virilmente dispo»sti a morire? »

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La lingua greca negli ultimi secoli della repubblica era tanto studiata in Roma, che ogni civile persona si recava a vergogna di non saperla. In mezzo alle tenebre della barbarie fu anch'essa con le lettere e con le arti dimenticata. Carlo Magno tentò di ridestarne l'amore nei popoli a lui soggetti; ma questa prova gli andỏ fallita, siccome tante altre, poichè abbracciava con la sua vastissima mente assai più di quello che comportassero i tempi. Ebbe tre grecisti l'Italia nel secolo undecimo: Papia Lombardo, Domenico Marengo, Giovanni Italo, che lesse pubblicamente in Costantinopoli Platone, Aristotile, Proclo e Porfirio. Benchè diverso da quello che fu in antico, l'Impero greco poteva dirsi civile in paragone dell' Occidente,

a que' tempi barbaro ed ignorante. Stupirono adunque i Crociati vedendo in quello splendidi avanzi della passata grandezza: e sebbene fossero rozzi, e solo curanti di vincere con la spada, pure trassero dall' Oriente l'amore del bello, e pel commercio loro co' Greci ne impararono, comecchè grossamente, la lingua. Primo a tenere scuola di greco in Italia fu Burgondione Pisano; il quale se non recò alla sua patria, secondo vogliono alcuni, il codice delle Pandette, ne tradusse, a facilitarne l'intelligenza, i passi che vi erano scritti in greco.

Questi però ed altri pochi che nei secoli susseguenti si dettero a studiare la greca favella, non altro leggevano che Aristotile e i libri dei Padri. Sicchè niuno si volgeva ad Omero nè agli scrittori, onde ebbe gloria l'età di Pericle. Nel reame di Napoli e di Sicilia conservossi l'amore della lingua greca, quando era spento nell' altre parti d'Italia. Quasi che i popoli in quello per naturale instinto si ricordassero della loro origine primitiva, o più veramente ciò avvenne, perchè esso stette nella obbedienza dei Greci, mentre le altre nostre contrade servivano ai barbari usciti dal Settentrione. Federico II cercò di tenerlo vivo; lo stesso fecero gli Angioini: sempre però furono trascurati i poeti, letti i filosofi e i loro commentatori. Il calabrese Barlaamo si diede pel primo a studiare quelli con diligenza. Ei fu maestro al Petrarca, il quale però, venerando i Greci, non giunse ad intenderli. Desiderava il Boccaccio di leggere Omero, onde a sue spese da Venezia chiamò a Firenze Leone, nato in Calabria, educato in Grecia, uomo dottissimo, ma d'ingegno biz

zarro, d'orrido aspetto, d'indole quasi selvaggia. Pe' suoi conforti ordinarono i Fiorentini ch'egli pubblicamente insegnasse la lingua, e quindi la greca letteratura. Ebbe alle prime pochi discepoli: ne aumentò il numero in breve, e ne trasse cominciamento la scuola, cui diedero tanto onore nel secolo susseguente il Poliziano e il Ficino. La Toscana di questo al Boccaccio va debitrice. Grandissimo beneficio, se ripensiamo essersi sull'esempio dei Greci formati i grandi scrittori, che resero poscia immortale il nome italiano. Perchè non basta, a vedere come s'imprima nelle immagini e ne'concetti il tipo del bello, studiare nei Latini; avendo i Greci meglio di essi saputo congiungere l'arte con la natura. La civiltà tra questi nacque spontanea, ma venne portata in Roma dai vincitori di Corinto, di Atene, di Siracusa: onde vi germogliò come pianta che nata sotto altro cielo, e poi coltivata lontano dal suo terreno, non si mostra vivida e rigogliosa quale fu in esso.

Era il Boccaccio d'animo aperto, di modi amabili; tenne fede nell'amicizia; sapendo di meritare la gloria. non fu ambizioso; fuggì le gare civili, e ben conosciuto quanto sia da stimare la libertà, odiò la popolare licenza che quella abbatte, vantandosi stoltamente di sostenerla. Giovine, nei piaceri fu intemperante; ma giunto all' età matura li tenne a vile, ed osservò tutti i doveri della cattolica religione. Sostenne la povertà con decoro, con umile rassegnazione i mali del corpo: perciò, se in lui non abbiamo esempio di vita sempre incorrotta, lo abbiamo di pentimento cristiano e di savia emenda.

LEZIONE DECIMAQUARTA.

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SOMMARIO.

Considerazioni generali sullo stato d'Italia nel secolo XIV.-Come fosse facile a un principe di grande animo riunirla, o almeno farla sicura dalle armi esterne. Perchè questo non avvenisse. La poesia sulla fine del secolo non ebbe cultori degni di fama.

Come

all' Italia mancasse nella politica lo scopo, ch' ella ebbe allora nelle lettere e nelle arti. - Degli studii di erudizione. Per quale cagione fiorissero sino alla morte di Lorenzo il Magnifico, ed effetti Si tocca dei pregi della italiana letteratura, e che fecero memorabili il secolo XIII e il XIV.

che ne seguirono.

di altre cose,

La guerra, comecchè sempre sia accompagnata da grandi calamità, è alcune volte utile ed altre dannosa all' incremento delle nazioni. Utile è, quando sia fatta per la difesa della libertà o della patria assalita. da forze esterne, o per mutare un ordine divenuto contrario al bene di quelle; dannosa, quando ella sia combattuta per ambizione di pochi, ovvero di molti, ed abbia nelle gare civili o nelle rivalità degli Stati il principio suo, nella rovina di popoli usciti da un sangue stesso il suo fine. Furono adunque utili e gloriose all'Italia le guerre contro gli Svevi, e le altre imprese ad abbattere gli ordini feudali: le fruttarono servitù ed ignominia quelle, che nel secolo XIV si guerreggiarono tra le repubbliche e i principati italiani per cupidità di conquiste, per emulazione di cittadini, o per gelosía d'impero. Questo secolo, che seppe

con tanto suo onore risuscitare la scultura, l'architettura, la poesía, la pittura, diede morte, e forse per sempre, alla libertà. Onde se dopo di avere studiato la sua storia civile e la letteraria, prendiamo a considerare, che uscisse da tanti moti, da tante rivoluzioni, da tante guerre, non altro si mostrerà agli occhi nostri che la tirannide sorta dalla discordia. Vero è che al declinare di questo secolo, e per non piccolo tratto del successivo, Firenze, siccome prima, si governava popolarmente, e Venezia e Genova non avevano sostanzialmente variato gli ordini loro. Ma quella pei democratici eccessi era vicina a cadere sotto il dominio dei Medici, il quale benchè all'aspetto si dimostrasse civile, e con modestia cittadinesca velasse l'autorità, che andava a poco a poco usurpando sopra le leggi, tendeva a spegnere, come fece, quel piccoletto barlume di libertà, che ancora vi risplendeva. Venezia con l'estendere su gli Stati di terraferma le sue conquiste, eccitando l'invidia dei principi esterni e degl' Italiani, già da sè preparava quella tempesta, che solo un secolo dopo le venne sopra, e da cui fu percossa si duramente, che mai più quindi non si riebbe. Nè di Genova possiamo noi favellare, siccome di città libera, essendo in essa gli odii si ardenti e si scarso il senno, che non una, ma più e più volte, chiamati in aiuto suo i forestieri, diede loro di sè e degli ordini interni piena balía. Le speranze sempre deluse, gli antichi e i recenti mali delle intestine parzialità, l'avidità dei guadagni, i premii distribuiti agli adulatori, le arti dei principi sempre intesi a corrompere gli uomini e a farli inerti nelle lascivie, le frodi nelle corti tessute, i pubblici

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