Divenner membra che non fur mai viste. Ogni primaio aspetto ivi era casso: 76 Due e nessun l'imagine perversa Parea; e tal sen gìo con lento passo. Come il ramarro sotto la gran fersa 79 De' di canicular, cangiando siepe, Folgore par, se la via attraversa; Si pareva, venendo verso l'epe Degli altri due, un serpentello acceso, Livido e nero come gran di pepe; E quella parte, onde prima è preso Nostro alimento, all' un di lor trafisse; Poi cadde giuso innanzi lui disteso. 82 85 Che si perdeva là, e la sua pelle Si facea molle, e quella di là dura. Io vidi entrar le braccia per l'ascelle, 112 E i due piè della fiera, ch'eran corti, Tanto allungar, quanto accorciavan quel[le. Poscia li piè di retro, insieme attorti, 115 Diventaron lo membro che l'uom cela, E il misero del suo n'avea due porti. Mentre che il fummo l'uno e l'altro vela 118 Di color nuovo, e genera il pel suso Per l'una parte, e dall'altra il dipela, L'un si levò, e l'altro cadde giuso, 121 Non torcendo però le lucerne empie, Sotto le quai ciascun cambiava muso. Quel ch'era dritto, il trasse ver le tem[pie, 124 E di troppa matera che in là venne, Uscir gli orecchi delle gote scempie: Ciò che non corse in dietro e si ritenne 127 Di quel soverchio, fe'naso alla faccia, E le labbra ingrossò quanto convenne. Quel che giacea, il muso innanzi caccia, 130 E gli orecchi ritira per la testa, Come face le corna la lumaccia; E la lingua che avea unita e presta 133 Prima a parlar, si fende, e la forcuta Nell'altro si richiude, e il fummo resta. L'anima ch'era fiera divenuta Sufolando si fúggi per la valle, 136 E l'altro dietro a lui parlando sputa. 19 Tra le schegge e tra'rocchi dello scoglio, Lo piè sanza la man non si spedìa. Allor mi dolsi, ed ora mi ridoglio, Quand'io drizzo la mente a ciò ch'io vidi, E più lo ingegno affreno ch'io non soglio Perchè non corra che virtù nol guidi: 22 Si che, se stella buona o miglior cosa M'ha dato il ben, ch'i'stesso nol m'invidi. Quante il villan ch'al poggio si riposa, 25 Nel tempo che colui che il mondo schiaLa faccia sua a noi tien meno ascosa, [ra, Come la mosca cede alla zanzara, 28 Vede lucciole giù per la vallea, Forse colà, dove vendemmia ed ara; Di tante fiamme tutta risplendea 31 L'ottava bolgia, sì com'io m'accorsi, Tosto ch'io fui là 've il fondo parea; E qual colui che si vengiò con gli orsi 34 Vide il carro d'Elia al dipartire, Quando i cavalli al cielo erti levorsi, 46 58 E il duca che mi vide tanto atteso, 76 79 97 Del vecchio padre, nè il debito amore Lo qual dovea Penelope far lieta, Vincer potero dentro a me l'ardore Ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto, E degli vizi umani e del valore: Ma misi me per l'alto mare aperto 100 Sol con un legno, e con quella compagna Picciola, dalla qual non fui diserto. L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna, 103 Fin nel Morrocco, e l'isola de' Sardi, E l'altre che quel mare intorno bagna. Io e i compagni eravam vecchi e tardi, 106 Quando venimmo a quella foce stretta, Dov' Ercule segnò li suoi riguardi, Acciò che l'uom più oltre non si metta: 109 Dalla man destra mi lasciai Sibilia, Dall'altra già m'avea lasciata Setta. -O frati,- dissi, che per cento milia 112 Perigli siete giunti all'occidente, A questa tanto picciola vigilia De'vostri sensi, ch'è del rimanente, 115 Non vogliate negar l'esperienza, Diretro al sol, del mondo sanza gente! Considerate la vostra semenza: 118 De' remi facemmo ali al folle volo, Sempre acquistando dal lato mancino. Tutte le stelle già dell' altro polo 127 Vedea la notte, e il nostro tanto basso, Che non surgeva fuor del marin suolo. Cinque volte racceso, e tante casso 130 Lo lume era di sotto dalla luna, Poi ch'entrati eravam nell'alto passo, Quando n'apparve una montagna, bru[na 133 Per la distanza, e parvemi alta tanto, Quanto veduta non n' avea alcuna. 135 Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto; Chè della nuova terra un turbo nacque, E percosse del legno il primo canto. • Tre volte il fe' girar con tutte l'acque; 139 Alla quarta levar la poppa in suso, E la prora ire in giù, com'altrui piacque, Infin che il mar fu sopra noi richiuso.' 142 CANTO XXVII. 10 Già era dritta in su la fiamma e cheta, 13 [zo-; Perch'io sia giunto forse alquanto tardo, 22 Non t'incresca restare a parlar meco: Vedi, che non incresce a me, ed ardo! Se tu pur mo in questo mondo cieco 25 Caduto sei di quella dolce terra Latina, ond'io mia colpa tutta reco, Dimmi se i Romagnuoli han pace o guer [ra; 28 Ch'io fui de' monti là intra Urbino E il giogo, di che Tever si disserra.' Io era in giuso ancora attento e chino, 31 Quando il mio duca mi tentò di costa, Dicendo: 'Parla tu; questi è Latino.' Ed io, ch'avea già pronta la risposta, 34 Sanza indugio a parlare incominciai: 'O anima che se'laggiù nascosta, Romagna tua non è, e non fu mai 37 Sanza guerra ne' cor de' suoi tiranni; Ma 'n palese nessuna or vi lasciai. Ravenna sta, come stata è molt'anni: 40 L'aquila da Polenta la si cova Sì, che Cervia ricuopre co'suoi vanni. La terra che fe' già la lunga prova 43 E di Franceschi sanguinoso mucchio, Sotto le branche verdi si ritruova. Il mastin vecchio e il nuovo da Verruc[chio 46 Che fecer di Montagna il mal governo, Là dove soglion, fan de'denti succhio. A persona che mai tornasse al mondo, Questa fiamma staria sanza più scosse. Ma però che giammai di questo fondo 64 Non tornò vivo alcun, s'i' odo il vero, Sanza tema d'infamia ti rispondo. Io fui uom d'arme e poi fui cordigliero, 67 Credendomi, sì cinto, fare ammenda; E certo il creder mio veniva intero, Se non fosse il gran prete (a cui mal pren[da!), 70 Che mi rimise nelle prime colpe; E come e quare, voglio che m'intenda. Mentre ch'io forma fui d'ossa e di pol[pe 73 Che la madre mi diè, l'opere mie Non furon leonine, ma di volpe. Gli accorgimenti e le coperte vie 76 Io seppi tutte, e sì menai lor arte, Ch'al fine della terra il suono uscìe. Quand'io mi vidi giunto in quella parte 79 Di mia etade, ove ciascun dovrebbe Calar le vele e raccoglier le sarte, Ciò che pria mi piacea, allor m'increbbe; 82 E pentuto e confesso mi rendei, Ahi miser lasso!, e giovato sarebbe. Lo prencipe de' nuovi Farisei, Avendo guerra presso a Laterano, E non con Saracin, nè con Giudei, Chè ciascun suo nimico era Cristiano, E nessuno era stato a vincer Acri, Nè mercatante in terra di Soldano; Nè sommo officio, nè ordini sacri 85 88 91 E poi mi disse: - Tuo cor non sospetti; 100 Là 've il tacer mi fu avviso il peggio, E dissi: Padre, da che tu mi lavi Di quel peccato ov'io mo cader deggio, 109 Lunga promessa con l'attender corto Ti farà triunfar nell' alto seggio. Francesco venne poi, com'io fui morto, 112 Per me; ma un de'neri cherubini Gli disse: Nol portar, non mi far torto! Venir se ne dee giù tra'miei meschini, 115 Perchè diede il consiglio frodolente, Dal quale in qua stato gli sono a'crini; Ch'assolver non si può chi non si pente, 118 Nè pentere e volere insieme puossi, Per la contradizion che nol consente. O me dolente! Come mi riscossi, 121 Quando mi prese dicendomi : - Forse Tu non pensavi ch'io loico fossi ! A Minos mi portò; e quegli attorse Otto volte la coda al dosso duro; E poi che per gran rabbia la si morse, Disse: Questi è de'rei del fuoco furo -; Per ch'io là dove vedi, son perduto, 128 E, sì vestito, andando mi rancurɔ.' Quand'egli ebbe il suo dir così compiuto, 130 La fiamma dolorando si partìo, Torcendo e dibattendo il corno acuto. Noi passammo oltre, ed io e il duca mio, 133 Su per lo scoglio infino in su l'altr'arco Che cuopre il fosso, in che si paga il fio A quei che scommettendo acquistan car[co. 136 124 Guardò in sè, nè in me quel capestro, Che solea far i suoi cinti più macri: Ma come Costantin chiese Silvestro Dentro Siratti a guerir della lebbre; Così mi chiese questi per maestro A guerir della sua superba febbre : 97 Domandommi consiglio, ed io tacetti, Perchè le sue parole parver ebbre. Di Puglia fu del suo sangue dolente Per li Troiani e per la lunga guerra, 10 Che dell' anella fe' si alte spoglie, Come Livio scrive, che non erra; 16 Con quella che senti di colpi doglie 13 25 [to, Dicendo: 'Or vedi come io mi dilacco! Vedi come storpiato è Maometto! 31 34 Dinanzi a me sen va piangendo Ali, Fesso nel volto dal mento al ciuffetto. E tutti gli altri che tu vedi qui, Seminator di scandalo e di scisma Fur vivi, e però son fessi così. Un diavolo è qua dietro, che n'accisma 37 Si crudelmente al taglio della spada Rimettendo ciascun di questa risma, Quando avem volta la dolente strada; 40 Però che le ferite son richiuse, Prima ch'altri dinanzi gli rivada. Ma tu chi se', che in su lo scoglio muse, 43 Forse per indugiar d'ire alla pena Ch'è giudicata in su le tue accuse?' 'Nè morte il giunse ancor, nè colpa il me[na,' 46 Rispuose il mio maestro, 'a tormentarlo; Ma, per dar lui esperienza piena, A me, che morto son, convien menarlo 49 Per lo inferno quaggiù di giro in giro: E questo è ver così com' io ti parlo.' Più fur di cento, che, quando l'udiro, S'arrestaron nel fosso a riguardarmi Per maraviglia, obliando il martìro. 'Or di'a fra Dolcin dunque che s'armi, 55 Tu che forse vedrai il sole in brieve, S'ello non vuol qui tosto seguitarmi, Si di vivanda, che stretta di neve Non rechi la vittoria al Noarese, Ch'altrimenti acquistar non saria lieve.' Poi che l'un piè per girsene sospese, Maometto mi disse esta parola; Indi a partirsi in terra lo distese. 52 58 61 Con la lingua tagliata nella strozza Curio, ch'a dir fu così ardito! Ed un ch'avea l'una e l'altra man moz[za, 103 Levando i moncherin per per l'aura fosca, Sì che il sangue facea la faccia sozza, Gridò: Ricordera'ti anche del Mosca, 106 Che dissi, lasso! - Capo ha cosa fatta -, Che fu il mal seme per la gente tosca.' Ed io gli aggiunsi: E morte di tua schiat[ta!'; 109 Per ch'egli accumulando duol con duolo, Sen gìo come persona trista e matta. Ma io rimasi a riguardar lo stuolo, 112 E vidi cosa ch'io avrei paura, Sanza più prova, di contarla solo: |